Romanzi da leggere a puntate online. 23^ puntata, “Il sosia” di Fëdor Michajlovič Dostoevskij

In copertina Patrizia Zara (Milano), “Il raccontastorie”, acrilico su tela, cm. 60 x 60 | https://www.patriziazarapittrice.com/

Introduzione.
Questo romanzo breve di Dostoevskij fu pubblicato nel 1846 nella rivista di San Pietroburgo Otečestvennye Zapiski, e si ispira ad alcuni “sosia” romantici della letteratura occidentale, ed in particolare al “Naso” di Nikolaj Vasil'evič Gogol’ pubblicato nel 1834 nella rivista Sovremennik sempre di San Pietroburgo. Dostoevskij con questo suo interessantissimo scritto, si cimenta in un tema assai interessante e sempre contemporaneo per la letteratura e per la psicologia umana, “il doppio”. Tema che tantissimi altri scrittori hanno affrontato e trattato con maestria e spesso con genialità, basti ricordare l’“Anfitrione” di Plauto, “Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde” di Robert Louis Stevenson, il “Ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde, “Il fu Mattia Pascal” di Luigi Pirandello, il “Compagno segreto” di Joseph Conrad, “Doppio sogno” di Arthur Schnitzler, e ancora Nikolaj Vasil'evič Gogol’ con “Ritratto”.
Il doppio di Dostoevskij è quello di Goliadkin, burocrate del ministero russo. Doppio che riesce, in un susseguirsi di azioni paradossali e spesso ridicole, ad ostacolare e a rendere impossibile il raggiungimento dei proposito amorosi e di carriera all’interno del ministero del consigliere titolare Jakòv Petrovic' Goljadkin. Un doppio che si moltiplica esponenzialmente durante la narrazione, così come il susseguirsi dei fallimenti, fino a costringere il protagonista a rifugiarsi in un manicomio.
Più che “il doppio”, Dostoevskij, come in quasi tutti i suoi scritti, ha interesse a trattare “il fallimento”, che ne “Il sosia” viene trattato esplicitamente come un’ossessione del protagonista: la persecutoria paura del fallimento di Goljadkin lo conduce dritto dritto al fallimento attraverso l’azione costantemente sabotatrice del sosia, del suo doppio, dei suoi doppi.
Il tema del fallimento verrà ripreso qualche decennio dopo, ma con un approccio clinico e scientifico, anche da Sigmund Freud con il preziosissimo saggio “Coloro che soccombono al successo” pubblicato nel 1916 all’interno del libro “Alcuni tipi di carattere tratti dal lavoro psicoanalitico”, che nello studio e nell’approfondimento teorico trova certamente una fortissimi ispirazione ne “Il sosia” di Dostoevskij.
Ma detto questo, e avendo dato alcuni suggerimenti per approfondire il tema del doppio e del fallimento, non possiamo che invitare i nostri lettori a gustarsi la prima puntata di questo bellissimo racconto dostoevskijano perché certamente attuale, sempre contemporaneo ed estremamente interessante.
Buona lettura.

IL SOSIA | Poema pietroburghese

Capitolo 1.

Mancava poco alle otto del mattino quando il consigliere titolare Jakòv Petrovic' Goljadkin si svegliò da un lungo sonno, fece uno sbadiglio, si stiracchiò e aprì finalmente del tutto gli occhi.
Per due minuti, però, rimase disteso immobile nel suo letto come un uomo non completamente certo di essere sveglio o di dormire ancora e se tutto ciò che gli capita intorno sia realtà o non piuttosto la continuazione di un fantastico sogno. Ma ben presto i sensi del signor Goljadkin ripresero a cogliere, più chiare e più precise, le consuete, abituali impressioni. Le affumicate pareti verde sporco della sua stanzetta lo guardarono familiarmente, il comò di mogano, le sedie finto mogano, la tavola dipinta di rosso, il divano alla turca d'incerata rossa a fiorellini verdognoli e, ancora, il vestito di cui in gran fretta si era liberato la sera prima e che aveva buttato malamente sul divano. Infine una grigia giornata autunnale, cupa e sporca, fece capolino nella stanza attraverso i vetri appannati della finestra con un'aria così stizzita e una smorfia così acida che il signor Goljadkin non poté più avere nessun dubbio di trovarsi non in un qualche favoloso reame dall'altra parte del mondo, ma a Pietroburgo, nella capitale, in via delle Sei Botteghe, nel suo appartamentino al quarto piano di un grande palazzo. Fatta una simile importante scoperta, Goljadkin chiuse freneticamente gli occhi, quasi a rimpiangere il sogno di poco prima e a desiderare di farlo ritornare, almeno per un momento. Ma un attimo dopo saltò di colpo giù dal letto, colpito finalmente dall'idea intorno alla quale si erano andati aggirando fino a quel momento i suoi distratti pensieri non ancora irreggimentati in un ordine ben definito.
Appena sceso dal letto, corse verso un piccolo specchio rotondo che stava sul comò. Benché la figura assonnata, dalla vista debole e dalla incipiente calvizie, riflessa nello specchio fosse così insignificante da non attirare l'attenzione di nessuno, tuttavia era chiaro che il suo proprietario era rimasto soddisfattissimo di tutto quello che aveva visto nello specchio. "Sarebbe davvero un bell'affare" disse a mezza voce Goljadkin, "sarebbe davvero un bell'affare se proprio oggi non fossi in piena regola, se, mettiamo, mi fosse spuntata qualche novità, come per esempio una bel foruncolo assolutamente inopportuno, o mi fosse capitato qualche altro guaio; del resto, per ora non c'è niente da dire, per ora va tutto bene." Molto rallegrato che tutto andasse per il meglio, Goljadkin rimise lo specchio dov'era e, nonostante fosse a piedi nudi e portasse ancora indosso gli indumenti coi quali di solito si metteva a letto, corse a una finestra e con grande interesse si mise a cercare con lo sguardo qualcosa nel cortile della casa, sul quale si aprivano le finestre del suo appartamento. Era evidente che anche ciò che vide in cortile lo aveva accontentato, poiché il suo volto si illuminò di un sorriso di soddisfazione. Poi, dopo aver dato un'occhiata dietro il tramezzo nel bugigattolo del suo cameriere Petruska e avere constatato che Petruska non c'era, si avvicinò in punta di piedi al tavolo, aprì un cassetto, si mise a frugare in un angolo proprio in fondo e finalmente tirò fuori da sotto un mucchio di vecchie carte ingiallite e di certe cianfrusaglie un logoro portafogli verdastro; lo aprì prudentemente e gettò uno sguardo tenero e compiaciuto nel suo scomparto più interno e più nascosto.
È probabile che anche quel mucchietto di biglietti verdognoli, grigiasti, azzurrognoli, rossicci e variamente screziati dovette guardare Goljadkin in modo molto affettuoso e complice: con un'espressione radiosa mise sul tavolo davanti a sé il portafogli aperto e, in segno di grande soddisfazione, si stropicciò vigorosamente le mani. Infine lo tirò fuori, quel suo confortante mucchietto di assegni governativi, e per la centesima volta, a partire anche soltanto dal giorno prima, si mise a contarli facendoli scorrere con grande attenzione, uno dopo l'altro, tra il pollice e l'indice.
"Settecentocinquanta rubli di assegnati!" concluse, quasi in un bisbiglio. "Settecentocinquanta rubli... è una bella somma! È una somma che fa piacere" proseguì con voce tremante, diventata più flebile per la gioia, stringendo il pacchetto tra le mani e sorridendo in modo significativo, "è una somma che fa davvero piacere! Piacere a chiunque! Vorrei tanto vedere adesso una persona per la quale questa somma fosse veramente una somma insignificante! Una simile somma può portarlo lontano, un uomo...
Ma che vuol dire questo?" pensò Goljadkin. "Dove diavolo è Petruska?". Sempre ancora con indosso gli stessi indumenti, diede di nuovo un'occhiata dietro al tramezzo. Petruska non c'era nemmeno adesso; c'era invece un samovàr, posato sul pavimento, che si arrabbiava, si riscaldava, andava fuori di sé, minacciando continuamente di sbollire, e fischiava in fretta e calorosamente, come se nel suo complicato linguaggio, biascicando e balbettando, volesse dire non so che cosa al signor Goljadkin; con ogni probabilità questo: prendetemi, brava gente, io sono stato puntuale e sono perfettamente pronto.
"Che il diavolo se lo porti!" pensò Goljadkin. "Quel pigrone di un animale riesce, alla fine, a fare perdere le staffe a un uomo; dove si sarà mai ficcato?". Pieno di legittima indignazione uscì nell'anticamera, formata da un piccolo corridoio in fondo al quale si trovava la porta che dava sull'ingresso, la aprì un po' e vide il suo servitore, attorniato da un buon numero di lacchè di ogni tipo, di donnette di casa e di estranei. Petruska stava raccontando qualcosa e gli altri ascoltavano. Evidentemente né l'argomento del discorso né il discorso stesso piacquero a Goljadkin. Urlò a Petruska e tornò in camera sua scontento e addirittura turbato. "Quell'animale è pronto a vendere un uomo per un soldo, e tanto più se si tratta del suo padrone" pensò, "e mi ha venduto, certamente mi ha venduto, sono pronto a scommetterlo che mi ha venduto per meno di un copeco. Be', che c'è?" "Hanno portato la livrea, signore." "Mettitela e vieni qui." Indossata la livrea, Petruska, sorridendo stupidamente, entrò nella camera del padrone. Era combinato in un modo strano oltre ogni limite. Aveva indosso una livrea verde molto usata, con galloni d'oro sfilacciati, cucita evidentemente per un uomo di statura superiore di ottanta centimetri almeno a quella di Petruska. Teneva in mano il cappello, anch'esso con galloni e penne verdi e sulla pancia aveva lo spadino da lacchè in un fodero di cuoio. E, alla fine, tanto per completare il quadro, Petruska, seguendo la sua abitudine preferita di essere sempre in disordine, alla buona, era anche ora a piedi nudi. Goljadkin guardò Petruska dalla testa ai piedi e fu evidentemente soddisfatto. La livrea, si vedeva, era stata presa a nolo per qualche solenne occasione. Si poteva anche notare che durante l'ispezione Petruska osservava il padrone con una certa aria di attesa e seguiva con insolita curiosità ogni suo gesto, il che turbava tantissimo il signor Goljadkin.
"Be', e la carrozza?" "Anche la carrozza è arrivata." "Per tutta la giornata?" "Sì, per tutta la giornata. Venticinque rubli in assegnati." "E gli stivali li hanno portati?" "Anche quelli, sì." "Imbecille! non puoi dire: sissignore, li hanno portati? Dammeli qui." Dopo aver espresso la sua soddisfazione perché gli stivali gli andavano a pennello, Goljadkin chiese il tè e il necessario per lavarsi e per radersi. Si rase con molta cura e con altrettanta cura si lavò, bevve il tè a grandi sorsate, e si dedicò alla sua importante e definitiva vestizione: indossò un paio di pantaloni quasi nuovi, poi una pettorina con dei piccoli bottoncini di bronzo, un panciotto a fiorellini vivaci e graziosissimi; si annodò al collo una cravatta di seta a colori e, infine, si infilò una giacca da divisa, anch'essa nuova e accuratamente spazzolata.
Mentre stava vestendosi guardò parecchie volte con amore i suoi stivali, sollevò alternativamente ora un piede ora l'altro, ne ammirò la forma e continuò a borbottare qualcosa tra i denti, ammiccando di tanto in tanto con una smorfietta significativa a un certo suo pensierino. Quella mattina, poi, Goljadkin era incredibilmente distratto, poiché non si accorgeva nemmeno dei sorrisi e delle smorfiette che faceva Petruska verso di lui, mentre lo aiutava a vestirsi. Finalmente, fatte tutte le formalità necessarie e vestitosi di tutto punto, Goljadkin rimise in tasca il portafogli, ammirò definitivamente Petruska che si era messo gli stivali e che così era anche lui in perfetto assetto; dopo aver considerato che ormai tutto era fatto e che non c'era più motivo per aspettare ancora, in fretta e tutto affaccendato si precipitò giù dalle scale non senza un leggero palpitare del cuore. Una carrozza da nolo azzurra, con non so quali stemmi, rotolò con fracasso verso la scaletta d'ingresso. Petruska, scambiando strizzatine d'occhi col vetturino e con alcuni sfaccendati che erano lì intorno, fece sedere il suo signore in carrozza; con voce insolita e trattenendo a fatica le risate più sguaiate, gridò "avanti!", saltò sul seggiolino posteriore e finalmente il tutto, rumoreggiando e strepitando, tra tintinnii e scricchiolii, rotolò verso il Nevskij Prospèkt.
L'azzurro equipaggio aveva appena fatto in tempo a uscire dal portone che Goljadkin si stropicciò convulsamente le mani e proruppe in una risata sommessa e silenziosa, proprio come chi, per gaiezza di carattere, sia riuscito a giocare a qualcuno un bel tiro del quale lui stesso si compiace all'infinito. Però, subito dopo quell'esplosione di allegria, il riso si trasformò sul volto di Goljadkin in una strana espressione preoccupata. Nonostante il tempo fosse umido e minaccioso aprì tutti e due i finestrini della carrozza e cominciò con aria inquieta a osservare i passanti a destra e a sinistra, assumendo un'aria seria e grave non appena si accorgeva che qualcuno lo guardava. Alla curva dal Litéjnij sul Nevskij Prospèkt, a causa di una spiacevolissima sensazione ebbe un sussulto e, assumendo un'espressione come quella di un poveraccio al quale abbiano inavvertitamente pestato un callo, si strinse in fretta e quasi con una certa paura nell'angolo più buio della carrozza. Era successo che aveva incontrato due suoi colleghi, due giovani impiegati di quel ministero nel quale lui stesso era in servizio.
Anche i due funzionari, così era parso al signor Goljadkin, erano, per conto loro, in grande imbarazzo per essersi incrociati in quel modo col collega; uno dei due, anzi, aveva perfino indicato col dito Goljadkin. A Goljadkin era sembrato anche che l'altro lo avesse chiamato ad alta voce per nome, il che, si sa, era, per strada, assai sconveniente. Il nostro eroe si era stretto nel suo angolo e non aveva risposto. "Che razza di ragazzacci!" cominciò a ragionare tra sé. "Insomma, che c'è poi di tanto strano? Una persona in carrozza! Una persona aveva bisogno di andare in carrozza e ecco che ha preso una carrozza. Canaglie, semplicemente! Io li conosco: veri ragazzacci che avrebbero bisogno di frustate! Vorrebbero soltanto giocare a testa e croce con lo stipendio e bighellonare di qua e di là; questa è proprio una cosa da loro. Avrei dovuto dirgli qualcosa, solo che..." Goljadkin non completò il suo ragionamento e rimase di stucco. Un'agile pariglia di cavallini di Kazan, che lui conosceva bene, attaccata a un elegante calesse, stava sorpassando rapidamente dal lato destro la sua carrozza. Il signore che sedeva nel calesse, avendo visto per caso la faccia di Goljadkin che abbastanza imprudentemente sporgeva dal finestrino della carrozza, sembrava essere rimasto anche lui molto meravigliato per un simile inatteso incontro e, piegandosi il più possibile, lanciò un'occhiata carica di curiosità e di interesse nell'angolo della carrozza in cui il nostro eroe si era affrettato a cercare di appiattirsi. Il signore in calesse era Andréj Filìppovic', caposezione in quella stessa amministrazione di cui faceva parte anche Goljadkin in qualità di aiuto del suo capufficio. Goljadkin, visto che Andréj Filìppovic' lo aveva perfettamente riconosciuto e lo guardava con tanto d'occhi, e che nascondersi era ormai impossibile, arrossì fino alle orecchie. "Salutare con un inchino o no? Richiamare la sua attenzione o no? Far capire di essere stato riconosciuto o no?" pensava il nostro eroe in un indescrivibile stato di angoscia. "Oppure fare il finto tonto come se non fossi io ma un altro che mi somiglia in modo sorprendente e guardarlo come se niente fosse?" "E veramente non sono io, non sono io e basta!" borbottava Goljadkin, levandosi il cappello davanti a Andréj Filìppovic' e senza togliergli gli occhi di dosso.
"Io non ho niente a che fare" continuava faticosamente a borbottare, "non c'entro proprio niente, non sono io, e basta!" Ben presto, però, il calesse superò la carrozza e il magnetico sguardo del superiore scomparve. Nonostante questo, arrossiva ancora, sorrideva, rimuginava qualcosa tra sé e sé... "Sono stato un imbecille a non richiamare la sua attenzione" pensò infine; "sarebbe bastato semplicemente un gesto condito con un po' di audacia e di franchezza non priva di nobiltà: 'Sicuro, Andréj Filìppovic', le cose stanno così e così... sono anch'io invitato al pranzo', e basta!" Poi, ripensando all'improvviso di avere agito in maniera riprovevole, il nostro eroe si fece rosso come il fuoco, aggrottò le sopracciglia e lanciò un terribile sguardo provocante nell'angolo più nascosto della carrozza, uno sguardo destinato a ridurre in cenere, in un colpo solo, tutti i suoi nemici. Infine, di botto, chissà come ispirato, tirò il cordone collegato al gomito del vetturino-cocchiere, fermò la carrozza e diede ordine di tornare indietro nella Litéjnaja. Era successo che aveva sentito l'inderogabile impulso, probabilmente per sua tranquillità personale, di andare a dire al suo dottore, Krestjàn Ivànovic', qualcosa di estremamente interessante. E, anche se non conosceva Krestjàn Ivànovic' che da pochissimo tempo, in quanto gli aveva fatto giusto giusto una sola visita la settimana precedente, per motivi suoi personali, tuttavia il dottore, si dice, è come un confessore: sarebbe stupido nascondergli qualcosa e poi, d'altronde, è suo dovere conoscere bene il paziente.
"Andrà poi bene tutto questo?" continuò il nostro eroe, scendendo dalla carrozza davanti all'ingresso di una casa a cinque piani sulla Litéjnaja, di fronte alla quale aveva dato ordine di fermare. "Andrà bene? Sarà conveniente? Sarà opportuno? Del resto, che cosa c'è" proseguiva, mentre saliva le scale, riprendendo fiato e reprimendo i battiti di quel suo cuore che aveva l'abitudine di battere forte sulle scale degli altri, "che cosa c'è? io vengo per fatti miei e di sconveniente qui non c'è proprio niente... Nascondersi sarebbe sciocco. Io, ecco, farò cosi: fingerò di non volere niente, ma di essere passato così, come per caso... Sarà lui a vedere che cosa si dovrà fare." Rimuginando così tra sé e sé Goljadkin salì fino al secondo piano e si fermò davanti all'appartamento numero cinque, sulla cui porta era affissa una bella placca di rame con la scritta: KRESTJAN IVANOVIC' RUTENSPITZ DOTTORE IN MEDICINA E CHIRURGIA.

Fermatosi, il nostro eroe si affrettò a dare alla sua fisionomia un aspetto corretto, disinvolto, non senza una sfumatura di affabilità, e si preparò a tirare il cordone del campanello. Stava lì lì per farlo quando, immediatamente e abbastanza a proposito, rifletté se non fosse più opportuno, dal momento che non c'era una grande necessità, aspettare l'indomani. Ma, appena Goljadkin ebbe sentito i passi di qualcuno che saliva le scale, di colpo abbandonò il nuovo proponimento, e con l'aria più decisa possibile suonò alla porta di Krestiàn Ivànovic'.
Fëdor Michajlovič Dostoevskij

Andrea Giostra

Fattitaliani

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