di Laura Gorini - Dopo oltre quindici anni di
carriera nella musica,
in cui ha collaborato con Franco
Battiato, sia in
studio che nei live, e ha fatto da produttore per artisti del calibro
di Max Pezzali,
Syria, Fred De Palma e
tanti altri, Davide
Ferrario si
concentra ora sulla carriera
solista, sia come producer che come dj. Sabato sera al Fabrique di
Milano ha presentato per la prima volta dal vivo il suo live set, in
apertura del concerto degli Infected Mushroom.
Davide, presentati ai nostri lettori con pregi, vizi
e virtù…
Faccio
il musicista da tanti, tanti, tanti anni. Tra i pregi credo di poter
annoverare una certa dose di impegno in quello che faccio, oltre
all’esperienza maturata in tutto questo tempo. Diciamo che ho
sempre fatto questo lavoro con estrema passione.
Inoltre
sono abbastanza alto, quasi un metro e novanta.
I
difetti sono tantissimi e sono la parte che a me risulta più
evidente, quindi non saprei davvero da dove cominciare. Dirò una
banalità: sono sicuramente una persona estremamente convinta del
proprio pensiero e difficilmente accetto compromessi, anche a costo
di rimetterci. Questa è forse la cosa più grave del mio carattere.
Sei giovane eppure hai alle spalle già una bella
carriera ma solo ora hai deciso di camminare solo sulle tue gambe,
diventando solista. Come mai? Ci è voluto coraggio per farlo? Quali
sono state le maggiori difficoltà che hai riscontrato?
E’
molto bello che tu mi dica che sono giovane, anche se ho trentasette
anni. Vuol dire che in un mondo
della musica preda di un giovanilismo
spietato c’è spazio anche per noi quasi quarantenni.
In
verità ho iniziato come solista, anche se tutto ciò che ho fatto,
nel tempo, è rimasto abbastanza nel sottobosco. Ma non quel
sottobosco di adesso che è quasi più fico del mainstream. Parlo del
sottobosco vero. Quello dove non ti si fila davvero nessuno, per
capirci. Probabilmente la strada del cantautore non era quella
giusta. Uno lo capisce e lascia andare. E’ necessaria anche una
certa maturità.
Ho
sempre ascoltato un sacco di elettronica e di house, nella mia vita.
Ha sempre fatto parte di me, fin da subito, però non l’avevo mai
prodotta davvero. Non mi ero mai seduto e detto: “Oggi scrivo un
pezzo di musica elettronica”. Ad un certo punto avevo del tempo e
ci ho voluto provare. Non avevo idea di dove sarei andato e,
probabilmente, non ce l’ho nemmeno ora. Sto ancora giocando.
Ci
vuole coraggio, probabilmente. Però considera che per me la cosa
strana, rispetto agli obiettivi che mi ero sempre posto, è suonare
per gli altri, più che farlo per me stesso.
Sì,
ci vuole coraggio perché la faccia è la tua, non più quella del
cantante che ti paga lo stipendio.
Ma facciamo ora un passo indietro nel tempo: come è
avvenuto il tuo primo incontro con il mondo delle sette note? Era
come te lo eri immaginato oppure no?
Ho
iniziato a suonare da piccolissimo. In casa mia giravano un po’ di
strumenti, mio padre era musicista per hobby. Si ascoltavano Beatles,
Pink Floyd, Crosby Stills Nash & Young, insomma, tutta musica di
quel periodo. Il pomeriggio in cui iniziai a suonare me lo ricordo.
Gironzolavo attorno ad una chitarra classica appollaiata su un
reggichitarra in camera dei miei genitori. Ad un certo punto la presi
in mano e trovai una posizione di dita che produceva qualcosa che mi
sembrava sensato. Quindi iniziai così, per intuito. Avevo, credo,
otto anni.
Non
ho mai studiato, ma ho sempre voluto affrontare gli strumenti da
solo. Ho imparato a strimpellare più o meno tutto in questo modo.
Non sono un virtuoso e non mi è mai interessato esserlo. Credo siano
più importanti le idee. Questo, però, è un punto di vista
estremamente soggettivo.
Ho
iniziato a farlo di lavoro con Franco Battiato, suonando
la chitarra nei suoi concerti, ed è stato
bellissimo, probabilmente molto meglio di come me l’ero immaginato.
Salvo rari casi, ho avuto sempre la fortuna di lavorare con persone
belle e in situazioni positive. Questo, per me, è determinante.
E quando hai capito che era la tua strada e che avevi
le carte in regola per farcela in questo settore?
Non
l’ho ancora capito. Non so ancora se ho le carte in regola. Non
esiste nemmeno una valutazione oggettiva, credo. Trovo sia necessario
vivere giorno per giorno. Cerco di fare quello che mi piace. A volte
paga, a volte no. Non so decidere cosa voglio essere. So fare ciò
che mi piace fare. Per me è l’unico modo di andare avanti.
Sii sincero: quale pensi che possa essere il giusto
diciamo - comportamento - e la giusta - etica - per poter
svolgere questa professione, più che mai quando si viene a stretto
contatto di artisti del calibro davvero alto come quelli con cui hai
lavorato tu?
Ci
sono vari aspetti da tenere in considerazione.
Il
primo è l’umiltà, senza dubbio. Non puoi pensare di rapportarti
ad una produzione di professionisti con spocchia e superiorità.
Ci
vuole, inoltre, una grande professionalità. La produzione di un
disco, o una tournée, sono macchine che coinvolgono un sacco di
persone, di energie, di denaro.
E’
necessario saper stare al proprio posto e avere una grande padronanza
del proprio ambito. Che non significa solo saper suonare bene uno
strumento, ma, ad esempio, avere l’elasticità di entrare nel mood
del progetto. Io ho sempre fatto così. Ci ho sempre messo tutto me
stesso. Poi, è inevitabile, ci sono situazioni in cui non scatta
l’empatia o ancora peggio in cui ti stai sul cazzo. Questo accade
in qualsiasi professione, credo.
E soprattutto come si riesce a volare basso e a
rimanere umili?
Per
me è il contrario. Dovreste insegnarmi come si fa a menarsela.
A
volte incontro gente che ha fatto pochissimo ma che ci ha costruito
sopra un castello di chiacchiere e auto celebrazioni.
Lo
trovo agghiacciante.
Credi che molti giovani a causa del successo
immediato tendando a bruciarsi in fretta? La colpa è dei Media e dei
talent?
No,
non credo questo. Credo che se hai qualcosa da dire prima o poi il
tuo canale lo trovi. Si tratta di tempo e costanza. Non entriamo nel
merito dei talent perché, davvero, è un ambito che non conosco.
Non conoscerai questo ambito ma quello dei dj set lo
conosci – invece-alla grande! Raccontaci il tuo live set che hai
presentato al Fabrique per la prima volta…
Non
suono la chitarra e non canto, tanto per cominciare. Ho costruito un
set con varie macchine. Mi sarebbe piaciuto portarmi tutto lo studio
e tutti i miei sintetizzatori ma per ovvie ragioni di praticità non
era una strada percorribile. Ho deciso di non usare il computer e mi
sono inventato una sorta di grande videogame interattivo, composto da
un paio di sequencer, una drum machine, qualche effetto, un mixer e
così via. Di fatto ho voluto creare qualcosa in cui suono davvero
delle parti. Questo è un ambito più da dj, ma io, nonostante adori
quel mondo, vengo comunque da trent’anni di approccio da musicista
e quindi quel tipo di interazione mi è necessaria per divertirmi. E’
tutto molto libero, ed è una cosa bellissima perché nel pop non hai
così tanto spazio creativo. L’elettronica pura, oggi, ti permette
di inventarti quello che vuoi. Trovo che ci sia molto fermento.
Per concludere, che augurio ti vuoi fare sia dal
punto di vista professionale sia umano?
Guarda,
mi interessa solamente avere la possibilità nel tempo di fare le
cose che mi piacciono, nel mio studio, con le mie tastiere e le mie
macchine.
Di
divertirmi, ecco.
Questa
è la cosa più bella che possa succedere.
Copertina: Live Fabrique Milano. Foto di Sergione Infuso