di Giuseppe Lalli - A cento anni esatti dalla fine della Grande Guerra, mi piace
ricordare come essa venne vissuta nelle nostre comunità paesane nei suoi
aspetti più umani. Cambiano le alleanze, mutano i confini, si alternano le
classi dirigenti, ma l'umanità, nei tratti essenziali, è sempre la stessa. C'è,
tuttavia, sempre, l'umanità dei piani alti e quella del sottosuolo. Ci sono i
figli della buona borghesia cittadina, come il futuro scrittore Carlo Emilio
Gadda, che si arruola volontario e da sottotenente di complemento
tiene un diario puntiglioso e introspettivo; o come il futuro poeta Eugenio Montale,
che alla luce (o all'ombra) della sua esperienza al fronte, ci regalerà, nei
suoi “Ossi di
seppia”, l'espressione lirica di quel "male di vivere" che
dice di avere contratto al fronte. E ci sono i fanti semplici, i nostri
contadini abruzzesi, che fanno il loro dovere e basta, come scrive con
ammirazione il fante Benito
Mussolini nel suo diario di guerra.
Tre storie meritano di essere conosciute. Le riporta Antonio Muzi, storico camardese, in un libro dove il rigore storiografico e la poesia pura si fondono mirabilmente. C'è la storia di Franco Baglioni, l'unico graduato tra i quarantacinque caduti. Sottotenente di complemento non ancora ventenne, nelle trincee del Carso, il 27 ottobre 1916, qualche giorno prima dell'assalto che gli avrebbe costato la vita, scrive alla fidanzata, con tono enfatico, e affettuoso, la seguente frase: "Invio i miei più affettuosi saluti e baci dalla trincea di prima linea qualche momento prima dell'ora gloriosa. Tuo per sempre".
Lo scrittore americano Ernest Hemingway, arruolatosi
volontario a diciotto anni, nel suo celebre “Addio alle armi”, fa dialogare il
protagonista, l'ufficiale americano Henry, con un cappellano militare di
Capracotta, che gli parla della sua straordinaria regione, l'Abruzzo, del maestoso Gran Sasso e della bella città dell'Aquila, realizzando, come annota lo
storico Umberto
Dante, "forse l'immagine letteraria dell'Abruzzo più
stampata e diffusa nel Mondo...". E ci sono i figli dei contadini di Camarda e di Assergi, che sostituiscono i modesti
calzari con gli scarponi (e forse ci guadagnano, nel cambio), la zappa con il
moschetto, la "sarrecchia" con la baionetta.
Quarantacinque (diciannove nella sola frazione di Assergi)
furono i soldati morti in guerra nell'allora Comune di Camarda, che al tempo comprendeva anche Assergi, Aragno, Filetto e
Pescomaggiore. Quarantacinque vite spezzate nel fior degli anni,
quarantacinque persone che andrebbero onorate una ad una, giacché Dio, come
diceva un filosofo francese, sa contare solo fino a... uno. Ho serbato nella
memoria le immagini crude con le quali, ad Assergi, gli anziani che avevano
partecipato alla Grande Guerra, raccontavano la loro esperienza: fame,
sporcizia, fango, notti di paura.
Tre storie meritano di essere conosciute. Le riporta Antonio Muzi, storico camardese, in un libro dove il rigore storiografico e la poesia pura si fondono mirabilmente. C'è la storia di Franco Baglioni, l'unico graduato tra i quarantacinque caduti. Sottotenente di complemento non ancora ventenne, nelle trincee del Carso, il 27 ottobre 1916, qualche giorno prima dell'assalto che gli avrebbe costato la vita, scrive alla fidanzata, con tono enfatico, e affettuoso, la seguente frase: "Invio i miei più affettuosi saluti e baci dalla trincea di prima linea qualche momento prima dell'ora gloriosa. Tuo per sempre".
Franco Baglioni, "bruno
aquilotto del Gran Sasso", come lo definisce il poeta assergese Silvio Lalli
in una poesia a lui dedicata qualche anno dopo, unico
"intellettuale" tra le vittime, era perito elettrotecnico. Era figlio
di Romualdo
Raimondo, "capomastro appaltatore" assai noto e stimato
nell'alta valle del Raiale. Dobbiamo alla paziente ed appassionata ricerca di Antonio Muzi l'identificazione della destinataria
del biglietto. Si tratta di Marietta Casilli, che morirà di lì a poco, il 19
settembre 1921. La foto pervenutaci, ci mostra una donna ancor giovane, ma
prematuramente sfiorita: uno sguardo fiero e penetrante e al tempo stesso
rassegnato. Lo zio Nicola Felici, inquieto uomo di cultura che si divideva
tra Roma e Camarda, dedicherà alla prediletta nipote un libro nel terzo
anniversario del trapasso. Esiste ancora a Camarda un terreno recintato
denominato "l'orto del sor Nicola".
Ma ci sono altre due storie, all'apparenza meno poetiche, ma
non meno umane. Quella di Antonio Morelli. Nato nel 1883, era sposato con Berardina
Carrozzi. Era partito l'11 luglio 1916. La moglie, secondo
l'abitudine patriarcale del tempo, viveva nella stessa casa dei genitori del
marito. Un giorno, mentre erano riuniti attorno al focolare, sentirono bussare
all'uscio. Un uomo in divisa o un'autorità comunale veniva a comunicare ai
parenti la morte del loro congiunto. Lo sgomento che ne seguì fece sì che il
figlioletto Mario, di due anni, sfuggito
nello spavento al controllo dei grandi, cadesse nel focolare riportando una
grave ustione alla mano destra.
C'è infine il caso toccante di Giocondo Tramontelli. Partito
il 26 novembre 1915, già ferito nell'agosto del 1916, nella primavera del 1917
riportò delle ferite alle gambe a cui non si prestò la dovuta attenzione.
Dovettero in seguito amputargli una gamba per cancrena. Morì in seguito per
malattia, all'ospedale militare di Milano,
a soli vent'anni. Il padre, saputolo malato, benché fosse la stagione estiva,
non esitò ad abbandonare il lavoro dei campi, al tempo unica fonte di
sostentamento, per recarsi, dopo un viaggio lungo ed avventuroso, al capezzale
del figlio morente.
Il colloquio che si svolse tra padre e figlio, pur se tra due
persone dal carattere coriaceo come doveva essere quello dei nostri contadini,
vale da solo più di qualsiasi poesia. Sembra quasi di sentirli, nella tipica e
musicale inflessione dialettale camardese. Al figlio che gli chiedeva: " Tatà, chi tta portatu fin a eccu? "
(Papà, che ti ha condotto fin qui?), il padre rispose: " Tu me ccià portatu ..." (mi ha
portato il cuore di un padre, voleva dire…). Riferisce il Muzi che ogni volta
che il fratello di Giocondo raccontava l’episodio le lacrime prendevano il
sopravvento sulle parole. Come non capirlo...
Il comune di Camarda fu
prodigo di aiuti ai parenti delle vittime, cosa tanto più meritoria se si pensa
alle ristrettezze finanziarie dei piccoli municipi in quei tempi. Era sindaco
il notaio di origine assergese Tommaso Giacobbe, nobile figura di uomo
che di lì a poco avrebbe pagato duramente il suo non essersi piegato alla
dittatura fascista. La guerra costò all'Italia più di seicentomila morti (circa
altrettanti ne mieterà subito dopo “la spagnola”, l’ultima grande epidemia di
massa) e centinaia di migliaia di mutilati ed invalidi.
Sui camminamenti del Carso e sulle trincee dell'Isonzo si
conobbero Calabresi e Piemontesi, Siciliani e Lombardi, Campani e Veneti. Non è
retorica dire che si cementò, nel bene e nel male, la coscienza di una patria
comune. Ma non si deve sottacere che si trattò di un’immane tragedia: una
“inutile strage”, come l’aveva definita qualche anno prima Papa Benedetto XV. E fu anche un potente vettore dei totalitarismi
del secolo scorso. Alla Grande Guerra prese parte anche il poeta Giuseppe
Ungaretti. Celebre è la sua poesia “San Martino del Carso”.
Di
queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto.
Ma nel cuore
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto.
Ma nel cuore
nessuna
croce manca.
E’
il mio cuore
il
paese più straziato.