L’AQUILA
- Il rientro nella propria città dopo due settimane all’estero è
sempre piacevole, quando la tua terra madre t’accoglie con il
profluvio delle chiome degli alberi dai cangianti colori
dell’autunno, impareggiabile tavolozza d’espressioni cromatiche.
E la tua città all’orizzonte, indorata dal tramonto incipiente e
trapuntata da innumerevoli sagome di gru all’opera. E poi la nostra
montagna, la maestà del Gran
Sasso d’Italia, che si
staglia con la sua mole possente già imbiancata di neve sull’azzurro
intenso e nitido del cielo. Ora però è tempo di raccontarle, queste
due straordinarie settimane di missione negli States, a New
York e Washington.
E cominceremo proprio da Washington
- doveroso rispetto alla Capitale - con le tre intense giornate del
13, 14 e 15 ottobre.
Il
13 ottobre, giovedì. E’ una bella giornata di sole, ma ancora
fresca quando alle 7 e mezza uscendo m’avvio in subway
nei pressi di Pennsylvania Station. Da là parte il bus Vaamose che
mi porterà a Washington.
Anzi nei pressi, a Bethesda.
Trovo gente che già aspetta. Bagagli ordinati in fila sul
marciapiede della 7^ Ave, un addetto che sul tablet spunta il nome
dei viaggiatori. Dieci minuti prima dell’orario di partenza arriva
l’autobus. Si sale. Alla guida un signore austero, barba fluente e
kippah
in capo. Lo zucchetto rivela le sue origini ebraiche. Prendo posto in
prima fila, ho tutta la strada sotto i miei occhi. Alle 8:30 in punto
si parte, scendendo lungo la Settima, con il sole che da sinistra
comincia a penetrare tra i profili dei grattacieli. All’incrocio
della 12^ Strada la svettante sagoma dell’One
WTC si para di fronte con i primi riverberi del sole sui suoi vetri.
Il grattacielo, il più alto della Grande Mela, è l’erede delle
Twin Towers,
il simbolo del coraggio, dell’orgoglio e della rinascita dopo la
tragedia dell’11 settembre 2001. Ancor giù, dopo il toro bronzeo
di Wall Street,
l’autobus infila l’Holland
Tunnel, passando sotto
l’Hudson River, per riemergere a Jersey
City, sull’altra riva del
fiume. Sulla sinistra, in lontananza, stende il braccio con la sua
torcia la Statua della
Libertà. Passato l’aeroporto
di Newark
già si corre sull’interstate
95, la lunga arteria che collega il nord e il sud dell’America.
Lasciati
i centri abitati si marcia spediti, a 65-70 miglia orarie, tra due
sponde rigogliose di alberi fronzuti, una lunga teoria di verde che
s’interrompe sul Deleware
Memorial Bridge, lungo ponte
di ferro che scavalca l’omonimo fiume. Scorrevole il traffico,
sebbene vi si snodi una serpentina di truck,
quei giganti delle strade americane. Trenton, Philadelphia, Atlantic
City, Wilmington, sfilano le uscite per quelle città. E già
s’annuncia Baltimore. Eccola da lontano, con i grattacieli della
City e il suo porto, mentre la strada s’insinua nell’Harbor
Tunnel. Manca ormai poca
strada per Bethesda.
Alle 12:30 l’arrivo, nel centro di questa graziosa città del
Maryland
che dista una manciata di chilometri da Washington.
Vi abita un’aquilana illustre, Laura
Benedetti, venuta qui, dopo
aver insegnato ad Harvard, per assumere la docenza di Letteratura
italiana presso la Georgetown
University. In questo
prestigioso ateneo della capitale federale ha poi diretto per sei
anni il dipartimento di studi italiani. Mi viene a prendere alla
fermata. Sono onorato, è un privilegio averla come guida, speciale e
premurosa, in questi tre giorni di missione a Washington.
Nel
primo pomeriggio subito una visita a Georgetown.
Ateneo privato prestigioso, è la più antica università cattolica
degli Stati Uniti, fondata nel 1789 dal gesuita Padre
John Carroll, la cui statua
bronzea si trova appena dopo l’ingresso centrale. Belle le spiccate
architetture dell’antico edificio in pietra squadrata, cui fanno da
pendant
le forme moderne dei nuovi edifici. Strutture sportive, parchi,
biblioteche, una cappella e perfino un piccolo cimitero dove riposano
i padri gesuiti, s’articolano nella mappa degli edifici destinati
all’insegnamento e allo studio. L’ateneo è una piccola città
autonoma, dove gli studenti esterni e quelli ammessi dopo rigorosa
selezione al Campus interno, circa 15.000, vivono i loro studi in una
dimensione di serenità, di benessere, d’efficienza nelle strutture
e d’eccellenza nei servizi. E ancora nella qualità
dell’insegnamento, che dell’ateneo è il vero prestigio.
Tranquilla, questa parte di capitale, perché l’università - che
prende il nome dell’antico borgo e poi quartiere -, è contornata
tuttora da piccole case monofamiliari dipinte in colori pastello,
protette dal vincolo architettonico che le tutela da invadenze
dell’edilizia moderna, che tuttavia a Washington ha i contorni
della moderazione e della gradevolezza delle forme.
Laura
Benedetti mi accompagna alla
scoperta dell’ateneo, guidandomi nel palazzo antico dove sono gli
uffici del Rettore, anzi del President
nella definizione americana.
A guidare la Georgetown dal 2001 è John
J. De Gioia, 48° presidente
e il primo “laico” nella storia dell’ateneo, sempre diretto da
un padre gesuita. Laura mi accompagna fin quasi alla soglia della
stanza del Presidente, chiedendo all’ossequiosa segretaria il
permesso di farmi visitare l’auditorium, la sala delle riunioni, la
storica biblioteca con volumi preziosissimi ed altri ambienti ricchi
di memoria. Quindi la visita al dipartimento italiano, attualmente
diretto dalla prof. Anna De
Fina, alla quale Laura mi
presenta e con lei teniamo un breve colloquio. Il dipartimento, e i
suoi docenti, sono una punta avanzata della cultura italiana a
Washington,
con importanti attività ed eventi, condotti sovente in stretta
collaborazione con l’Istituto italiano di Cultura e l’Ambasciata
d’Italia. Non posso qui non ricordare l’assiduità con la quale
la prof. Benedetti
ha promosso e organizzato negli anni passati numerose Summer
School in Italia - e nella
nostra città - in partnership con l’Università
dell’Aquila. E mi auguro
che questa consuetudine possa continuare proficuamente negli anni a
venire, trovando significativa e feconda la collaborazione tra le due
università. Infine, la visita si conclude nel moderno edificio della
Lauinger Library, nel salone dove si sta per tenere una seduta del
Senato accademico. Entriamo qualche minuto per godere dall’ampia
vetrata una davvero straordinaria vista sul Potomac
e sulla sponda da cui inizia il territorio della Virginia.
Alle
4 e mezza lasciamo l’ateneo per recarci proprio in Virginia, ad
Alexandria,
in casa di Omero Sabatini,
altro aquilano di vaglia. Diplomatico
in pensione del governo federale Usa, ministero dell’Agricoltura,
Omero ha una densa biografia di rappresentanze ufficiali all’estero
e di pubblicazioni scientifiche. Nella sua abitazione, in una
tranquilla zona residenziale della città, ci aspettano lui e sua
moglie Belinda,
ma anche Lucio D’Andrea
e signora Edvige,
e Nancy De Santi.
Lucio D’Andrea, molisano, ingegnere petrolifero, è stato promotore
nel giugno 2000, con Omero
Sabatini e altri, della
costituzione dell’Abruzzo
& Molise Heritage Society
(AMHS), l’associazione cui fanno capo gli abruzzesi e molisani del
District of Columbia,
l’area della capitale, e dei confinanti stati del Maryland
e Virginia.
Del sodalizio è attualmente presidente Maria
D’Andrea-Yothers, dirigente
del dipartimento per il Commercio del governo federale e già
componente del Segretariato dell’Organizzazione mondiale del
Commercio a Ginevra.
E’ figlia di Lucio, presidente emerito dell’AMHS insieme ad
Omero. Ho avuto possibilità di conoscere Omero nel 2008 a L’Aquila,
in casa del fratello Bruno
– medico, scrittore, pittore, amante della musica e della montagna
- con il quale ho un forte rapporto di amicizia. Con Omero
Sabatini parliamo anche di
un’interessante traduzione e riduzione del romanzo “I
promessi sposi” di A.
Manzoni, diventato “Promise
of Fidelity”, della quale
egli è autore, pubblicata nel 2002 negli Usa. Il volume ha
incontrato l’apprezzamento dei lettori americani, per l’agevole
comprensione della storia narrata nel romanzo manzoniano.
L’incontro
con i componenti del Consiglio direttivo dell’AMHS
si tiene in una sala riservata di un ottimo ristorante siciliano ad
Arlington.
Ho accettato volentieri, quest’anno, l’invito a visitare la
comunità abruzzese e molisana dell’area di Washington.
M’informo nel corso dell’incontro sull’associazione e sulle
numerose attività sociali e culturali che realizza. Poi parliamo
dell’Aquila, dello stato della ricostruzione della città dopo il
terremoto del 2009. Li rinfranco sui progressi della ricostruzione,
molto avanzata - oltre il 90 per cento - quella esterna alle zone
rosse, abbastanza avviata quella del centro storico del capoluogo,
mentre solo ora sta iniziando nei centri storici delle frazioni. La
ricostruzione a L’Aquila
sta restituendo un centro storico di straordinaria bellezza,
circondato dai 6 chilometri e mezzo delle antiche mura urbiche
anch’esse restituite, con le loro 12 porte, al loro splendore.
L’Aquila,
tra le più belle città d’arte d’Italia, sarà tra qualche anno
una vera meraviglia. Certo, ci sono anche ombre nella ricostruzione,
che la magistratura va accertando e censurando, ma nel complesso,
dopo i primi anni problematici, nel 2012, grazie al pluriennale
programma di finanziamenti assicurato dai governi Monti e Renzi, la
ricostruzione è finalmente decollata. Queste notizie li rinfrancano,
essendosi loro fatta un’idea diversa dalle notizie spesso inesatte
che sovente passano attraverso i mezzi d’informazione, prive di
attualità nei riscontri. Altri riferimenti fornisco sulla situazione
di Amatrice, Accumoli, Arquata
e
Pescara del Tronto, colpite
dal terremoto del 24 agosto 2016, per le quali popolazioni il
sodalizio sta raccogliendo aiuti.
La
riunione va volgendo al termine quando inopinatamente Lucio
D’Andrea, quale presidente
emerito dell’AMHS
- la presidente Maria
D’Andrea-Yothers aveva un
impegno in NIAF -, mi consegna una pergamena con la nomina a Socio
onorario. Sono commosso per questo gesto di considerazione, ancor più
sorpreso nell’apprendere che è stato finora riservato solo a
cinque personalità tra le quali il Giudice della Corte Suprema degli
Usa Antonin Scalia
e l’Ambasciatore Luigi
Einaudi, già Segretario
generale dell’Organizzazione degli Stati Americani presso le
Nazioni Unite. Esprimo la mia gratitudine con un intervento che
sottolinea il valore e il contributo dell’emigrazione italiana
nella scrittura della grande Storia del nostro Paese. Non sempre
questo viene affermato, come si dovrebbe, anche per la superficiale
conoscenza che si ha della storia delle migrazioni italiane nel
mondo, talvolta infarcita di stereotipi. Ancor più grave quando
questo limite si riscontra presso la classe politica. Il mio
ringraziamento va ai nostri emigrati non solo per il contributo reso
alla rinascita dell’Italia, specie nel secondo dopoguerra, ma sopra
tutto per aver testimoniato, con le loro capacità e il loro talento,
le vere qualità degli italiani in Paesi dove talvolta permangono
diffidenze e pregiudizi verso l’Italia. Qual è davvero l’Italia,
allora, si conosce proprio attraverso le testimonianze di vita degli
80 milioni d’italiani che vivono nel mondo, l’altra Italia, che
dovrebbe essere conosciuta e riconosciuta in Patria. Quindi la mia
gratitudine, espressa in forma comunitaria in ragione di un lungo
servizio che ho reso nelle istituzioni. Dunque, una bella serata
d’amicizia e d’emozioni condivise, nella comunanza delle nostre
radici d’origine e culturali.
La
mattinata di venerdì 14 la dedichiamo a Bethesda.
Prende il nome dall’omonima chiesa presbiteriana edificata nel 1820
e dalla biblica piscina in Gerusalemme.
Interessante la passeggiata con Laura, per conoscere da vicino la
città: 60mila abitanti circa, bella davvero, immersa nel verde.
Spesso alberi secolari s’incontrano nei suoi parchi, mentre piante
e fiori colorano le sue strade. Ma è l’immersione nel bosco, nel
Capital Crescent Trail,
che mi emoziona. Un sentiero dove si va in bici o per il footing, che
scende fino al fiume Potomac.
Ma è il sentiero che Alice,
protagonista del bel romanzo “Un
paese di carta” - la
prima incursione di Laura
Benedetti nella narrativa,
come autrice -, percorre nel racconto per andare a spirare sulla riva
del fiume. Il romanzo narra tre generazioni di donne. La prima è
quella di Alice,
emigrata dall’Abruzzo
nel secondo dopoguerra e bibliotecaria a Bethesda.
Le vicende del romanzo, nell’intreccio tra Alice,
sua figlia Jane
e la nipote Sara,
si svolgono tra Maryland,
Utah
e infine l’Abruzzo, a L’Aquila
devastata dal terremoto, dove Sara va a disperdere le ceneri della
nonna. Con le sorprendenti scoperte sulla vita antecedente di lei,
nei tragici giorni dell’occupazione tedesca e della sua partenza
improvvisa per gli Stati
Uniti, appena dopo la fine
della guerra.
All’una
del pomeriggio Laura
m’accompagna in macchina a Washington,
al Marriott Wardman Park hotel. Là si svolge il 41° Gala Weekend
della National Italian American Foundation (NIAF)
che dal 13 tira fino al 16 ottobre. M’incontro con Lucio
D’Andrea e con suo fratello
Joseph,
venuto da Pittsburgh
dove è stato Console onorario d’Italia e Consigliere comunale.
Molisano di Roccamandolfi,
nato nel 1930, emigrato in Usa nel ’48, lauree in Lingue ed
Economia, ha lavorato come interprete presso il ministero della
Giustizia. A lui si deve un forte impulso a far luce, a quasi un
secolo dall’evento, sulla tragedia di Monongah,
in West Virginia, nell’esplosione e l’incendio della miniera di
carbone avvenuta il 6 dicembre 1907, dove persero la vita quasi mille
persone, benché la cifra ufficiale fosse molto inferiore. Tra le
vittime 171 italiani, di cui 87 molisani ed una trentina di
abruzzesi. Nel 2007, ricorrenza centenaria della tragedia, a cura di
Joseph D’Andrea
veniva pubblicato il volume “Monongah
cent’anni d’oblio”,
una puntigliosa ricerca su quel terribile fatto e sulle vittime
molisane del disastro. Finalmente, proprio ad un secolo dalla
tragedia, anche l’Italia finalmente rendeva onore alle vittime di
Monongah,
il doveroso tributo del Paese a quei figli emigrati periti nella
miniera. Era stata necessaria un’intensa campagna di stampa
condotta dal direttore del quotidiano La
Gente d’Italia, Domenico
Porpiglia, a riaccendere
l’attenzione sul caso e finalmente a smuovere le istituzioni
italiane. Con Joseph abbiamo anche parlato dei due giovani
universitari che la comunità italiana di Pittsburgh
“adottò” nel 2009 dopo il terremoto dell’Aquila. Joseph mi
chiese i nomi di due studenti d’Ingegneria dell’Università
dell’Aquila, un abruzzese e un molisano, ai quali gli italiani di
Pittsburgh
avrebbero assicurato le spese d’ospitalità, mentre l’Università
di Pittsburgh li avrebbe
accolti nella medesima Facoltà. Mi rivolsi alla prof. Anna
Tozzi, responsabile dei
rapporti internazionali dell’Università
dell’Aquila, che provvide
celermente a scegliere i due studenti con un avviso pubblico. Quel
fatto ha portato fortuna a Luca,
molisano, e a Berardo,
abruzzese di Teramo. Il primo sta studiando a Pittsburgh per il
dottorato, Berardo invece già lavora in Olanda
per un’importante società multinazionale.
Mentre
parlo con Joseph si avvicina per salutarlo John
Viola, il giovane presidente
della NIAF.
Mi congratulo con lui per la sua tenace opera alla guida della
prestigiosa Fondazione degli italoamericani. Incontro e saluto poi il
prof. Anthony J. Tamburri,
direttore del Calandra Institute della City University di New York.
Tra l’altro mi annuncia che prossimamente verrà a L’Aquila
con una delegazione per consegnare alla Municipalità 10mila dollari
destinati ad un’iniziativa di ricostruzione nella città. Restiamo
d’intesa che mi comunicherà per tempo la data della visita,
volentieri darò ogni collaborazione. Altri incontri nel pomeriggio,
con Umberto Mucci
e Melo Cicala,
e un veloce saluto a Tony
Renis che nel concerto della
serata riproporrà alcuni celebri suoi brani. In macchina, con Joseph
e Lucio D’Andrea, Edvige e Luca, si va a visitare la National
Cathedral, il magnificente
duomo della capitale. Non solo una splendida chiesa cristiana, ma
anche un impareggiabile luogo di concerti e d’esposizioni d’arte.
Realizzato in pietra dell’Indiana, il tempio è a croce latina,
imponente, tra i primi sei al mondo per dimensioni, con una navata
centrale lunga 161 metri. Architettura gotica, svettante, con diversi
rosoni in pietra ornati da splendide vetrate e varie opere in ferro
battuto, vetro colorato e tessuti. Finemente lavorato il Coro ligneo
dietro l’altare centrale, suggestiva la cripta sottostante. I
lavori di costruzione della Cattedrale, dedicata ai Santi Pietro e
Paolo, iniziarono nel 1907 con la prima pietra posata dal presidente
Theodore Roosevelt.
Nel 1990 la posa dell’ultima pietra a cura del presidente George
H.W. Bush. Attualmente vi
sono lavori in corso per la riparazione dei danni del terremoto del
23 agosto 2012, magnitudo 5,9 della scala Richter, che danneggiò il
tetto e fece crollare alcuni pinnacoli, ancora non ricollocati e al
momento adagiati in un lato del sagrato. Completata la visita in
cattedrale facciamo un salto all’Ambasciata d’Italia, su
Whitehaven Street. Ammiro le bianche forme architettoniche e la
simbologia dell’opera, progettata dall’architetto Piero
Sartogo.
Alle
sei di sera si torna a casa di Laura. Al nostro rientro Brad
ha acceso il fuoco in camino e aperto una buona bottiglia di vino
rosso francese. Brad Marshall
è direttore del programma di Lingua francese presso la George
Washington University. L’ho
conosciuto qualche anno fa a L’Aquila,
venuto per una vacanza con sua moglie Laura e con Martina, la loro
figlia che ora studia a Georgetown, residente nel Campus
dell’università. Una bella serata, una buona cena, poi una visita
in notturna ai monumenti simbolici della Capitale, ai Memorials.
S’inizia dal Franklin Delano
Roosevelt Memorial, un
suggestivo percorso monumentale per ricordare uno dei più grandi
presidenti degli Stati Uniti d’America, cui si deve l’uscita
dalla grande depressione del 1929, l’unico ad essere eletto in
quattro mandati consecutivi, dal 1932 al 1945, e deceduto all’inizio
del suo ultimo mandato. Un presidente illuminato, che ispirò leggi
sociali importanti, dando peraltro avvio a quel grande piano
d’investimenti che va sotto il nome di New
Deal, oltre a guidare il
Paese negli anni difficili della seconda Guerra Mondiale. Nel granito
del Memorial sono incise le sue frasi più celebri e significative.
Commoventi. Seguono le visite al Jefferson Memorial, al Lincoln
Memorial, al National Mall, l’obelisco in memoria di George
Washington, al Capitol Hill, il Campidoglio, dove hanno sede il
Senato e il Congresso degli Stati Uniti. Ancora un giro per ammirare
velocemente gli esterni dei numerosi Musei che contornano l’area
dei Memorials e infine la Casa Bianca. Una breve ma intensa
immersione nei simboli della grande Storia degli Stati Uniti
d’America.
Ultimo
giorno a Washington,
sabato 15 ottobre. Arriviamo con Laura alle 11 di mattina al Marriott
per seguire un importante evento: la presentazione del progetto
multimediale “Grandparents
and Granchildren in Italian America”,
prodotto da i-Italy TV
e ANFE,
con il sostegno del Ministero
degli Affari Esteri –
Direzione generale per gli Italiani all’estero. Si tratta della
presentazione del primo gruppo d’interviste tra nonni e nipoti
nell’America italiana, in particolare le conversazioni tra Matilda
Raffa Cuomo e Amanda
Cole; Joseph
Tusiani e Paola
Tusiani; Aileen
Riotto Sirey ed Emma
Banker; Rosaria
Liuzzo e Mara
Sparacino; John
P. Calvelli e John
D. Calvelli. Nato da un’idea
di Gaetano Calà,
direttore generale ANFE, Letizia
Airos e Ottorino
Cappelli, rispettivamente
direttore ed editore del prestigioso network i-Italy
(Tv, testata on line inglese/italiano e magazine bimestrale in lingua
inglese), il progetto affronta il mondo dell’emigrazione italiana
in America attraverso interviste con le sue più affermate
personalità nei diversi campi d’impegno. Delle interviste in
progetto questa è solo una prima serie. Alle 11:30, dopo la
trasmissione d’un video con brani d’interviste, stupendi spot che
promuovono la lingua italiana ed altri contributi, Ottorino Cappelli
introduce l’evento, presentando il panel dei relatori composto da
Patricia De Stasi Harrison,
Linda Carlozzi,
Aileen Riotto Sirey.
Moderatore il giovane John D.
Calvelli. Il presidente della
NIAF John Viola
porta il saluto della Fondazione, sottolineando la qualità del
progetto e l’attenzione che NIAF riserva all’iniziativa.
Significativi gli interventi delle tre relatrici, brioso e frizzante
il moderatore. Qualificato il pubblico presente all’evento. Dopo la
presentazione il colloquio tra Letizia
Airos, Ottorino
Cappelli e Laura
Benedetti. La testata presto
aprirà una redazione a Washington,
successivamente anche in altre grandi città degli States. La
prelazione è verso giovani talenti che vogliano operare nel mondo
dell’informazione, con particolare cura del linguaggio della
comunicazione, cifra del network, rivolto alle giovani generazioni.
Dopo
l’evento, girando tra gli stand promozionali nell’ampio corridoio
che serve le varie sale dove si tengono i diversi eventi in agenda,
molti gli incontri. Il primo con Francesca
Alderisi, amica carissima e
volto tra i più noti e amati della Rai, nei programmi per gli
italiani nel mondo. Attualmente è impegnata in un programma
giornaliero tutto suo, “Pronto Francesca”, molto apprezzato. Poi
Maria D’Andrea-Yothers,
che abbraccio e ringrazio per la calorosa accoglienza ricevuta
dall’AMHS. E ancora Cristina
Fontanelli, bravissima
soprano che mi annuncia il suo concerto prenatalizio, invitandomi a
New York. Mi commiato da Joseph D’Andrea, suo fratello Lucio,
quindi da Letizia ed Ottorino con la loro splendida équipe di
operatori tv. E’ ora di avviarsi per ripartire. Laura mi accompagna
a Bethesda
a prendere l’autobus delle 14:50. Un abbraccio alla mia
straordinaria guida, la concittadina aquilana che ringrazio anche per
la concessione di una bella intervista, raccolta per un’elegante
rivista culturale abruzzese. Il viaggio di ritorno è spedito. Quando
arrivo nei pressi di Newark
un’enorme luna piena
torreggia sui grattacieli di Lower
Manhattan.
Goffredo Palmerini