L’avevamo
conosciuto a
Toronto
nel 2008
quando
l’avevamo intervistato, per il suo Un
barrage contre le Pacifique
che al Toronto
Film Festival
aveva riscosso molto successo. L’avevamo rivisto a Cannes 2013
quando, con The
Missing Picture,
aveva vinto a man bassa il premio Un Certain Regard, candidato poi
anche agli
Oscar come
miglior film straniero.
Stiamo
parlando del regista franco-cambogiano Rithy
Pahn
adesso a Cannes
sessantanove, con il suo bellissimo e poetico Exil.
E, ancora una volta, Pahn
esplora
il genocidio di cui la sua famiglia ed il suo popolo sono stati
vittime tra il 1975 e il 1979.
Un’opera
di introspezione così interessante da riuscire a dire l’indicibile, mostrando l’assenza nella sua devastante interezza. Il tratto
comune di tutti i genocidi è che un popolo, che hanno voluto
sterminare, rinasca poi senza parole per poter esternare quello che
ha passato, come nel caso degli ebrei o quello dei Cambogiani, Quando
nel 1975 tutto il mondo evocava la liberazione di Phnom-Penh, il
paese diventava contemporaneamente schiavo e aguzzino delle stesse
persone.
Rithy
Panh
ha undici anni quando il terrore invade il suo paese. Dopo quattro
anni passati nei campi di lavoro dei Khmers
rouges
riesce ad uscirne vivo, chance che purtroppo non tutta la sua
famiglia ha avuto. E, un anno dopo la caduta dei tiranni cacciati
dai vietnamiti, riesce ad arrivare in Francia. Diventato regista, non
ha mai smesso di cercare di far capire cosa hanno significato per lui
e per le altre vittime come lui quegli anni di terrore.
Tante
le sue pellicole e tutte perfettamente riuscite, ma, per
Pahn,
nessuna di queste era stato ancora in grado di soddisfare il suo
bisogno di ‘testimonianza’. Con Exil
però
lo scopo sembra raggiunto. Usando le parole di personaggi che non
hanno niente in comune, come Mao
Zedung,
Robespierre
o
René Claire, Pahn
ha costruito questo suo ultimo film mescolando perfettamente i generi
tra lavoro creativo, teatro, documentario e un’assolutamente
sublime coreografia. Tutto questo, come ci ha detto tra l’altro,
è stato per poter coinvolgere lo spettatore in un milionesimo di
quest’orrore da cui è uscito piu’ ‘morto
che vivo’.
Un
terrore questo così spaventosamente acuto, descritto facendo
rivivere il passato con vecchie immagini in bianco e nero e voci di
cantanti famose che da tempo non si sentono più, a significare
che i torturatori Pol
Pot, Khieu Samphân, e
Duch
hanno fallito. Non sono riusciti infatti ad uccidere il ricordo e la
memoria dei caduti.
Da un film all’altro Pahn
cerca di svolgere con dedizione, un fedele lavoro di conservazione
della memoria, pieno di un infinito amore per il suo popolo. Ma,
come dice lui stesso, “quando
si pronuncia la parola esilio
è già troppo tardi. Allora esiste solo la nostalgia…”
Mariangiola
Castrovilli