Comincio
da qui. Quasi all’incrocio con la strada per Pizzoli. In salita, da
Cansatessa verso L’Aquila.
Ho il sole negli occhi, che è già
alto; me la sono presa comoda, stamattina. Sono le otto e mezzo. Ma,
oggi, per me, è un giorno importante. L’hanno ridipinta di viola,
quella casa. Di sicuro è una scelta scaramantica. Non lo sapevo che,
tutta quella terra libera, l’avessero riempita di materiali per
l’edilizia. Sembra un accampamento sporco. Recintato. Dentro ci
sono anche i prefabbricati, come se già volessero iniziare a
costruire, anche qui, che ci giocavo col mio cane, prima.
Ci
devo riuscire. Stamattina, è la prima volta, che ci provo, dopo
sette anni, precisi. Sono venuta qui, ad iniziare da qui, perché ci
abitavo, qui. In quella casa dietro questa recinzione a maglie di
ferro, e pali. Anche da questa parte, un magazzino di materiali da
costruzione all’aperto; là, in alto, luccicano le cime dei camini,
che vanno a vento, per disperdere il fumo, in attesa d’essere
montate, da qualche parte. Sembra tutto provvisorio, qui. Da qui
sotto, se guardo in alto, vedo la collina, in controluce, quasi,
perché il sole è nato più a destra; e le case, a sinistra, delle
mie amiche. Case basse, con i cortili di pietra e asfalto, e i
garage.
Voglio
correre. Voglio provare a correre.
Sono
stata sette anni quasi ferma. E ho messo anche qualche chilo su. E lo
voglio perdere. Ho le mie scarpe da ginnastica nuove, i calzettoni
corti, che quasi non si vedono. I pantaloncini. E le mie gambe. La
cicatrice lunga, sul ginocchio sinistro. E quell’altra, dalla
caviglia destra per quasi tutto il polpaccio, dietro. Che sembra che
ho una gamba più magra dell’altra. Forse dovrei dire, meno grossa.
Il riverbero, della luce, mi annebbia lo sguardo. Ed è così, se mi
guardo indietro.
Quello
che mi resta addosso, è solo la voglia di cancellare via tutto.
Anzi, di farla finita proprio. Chi sa se, in fondo al tunnel, la luce
che si vede è proprio questa. Vorrei non ricordare più nulla.
Vorrei smettere di pensare a tutte le possibilità che non ci sono
più. Vorrei non avere avuto più nessun amico. Così non avrei
sofferto così tanto a vederli scivolare via, in questi anni, in
questi mesi. Così non mi sarei sentita più questo nodo in gola, per
il silenzio, perché nessuno più mi cercava. Perché ero sola, e
dimenticata. Qualcuno si ricordava di me una volta l’anno, più o
meno, al compleanno, o ieri. Adesso sono io, che voglio ricordarmi di
me, anzi, che voglio vedermi per la prima volta.
Adesso,
respiro forte e parto. Parto in salita, piano piano. Sembra un ponte
sospeso, questa strada. Che arriva fino in cima e poi si ferma, e si
perde tra le altre case, o, forse, tra gli alberi della collina, lì
davanti. Come quando, guardavo la collina di Pettino, dalla stanza
dell’Ospedale. Separata da me, lontana, inaccessibile. E ora invece
ho la strada sotto i miei piedi. Vado. Ecco, i primi passi. Le gambe
mi sostengono. I piedi mi sembrano abbastanza elastici. Anche se mi
pare quasi di correre sul posto. I muscoli mi sembrano sorpresi.
Sento subito la pressione sui glutei. No, non è l’elastico delle
mutandine. Mi sono messo le mutandine bianche di cotone della nonna,
stamattina, grandi, comode. No, sono proprio i muscoli. Dei glutei,
che si stringono. Come se camminassi col culo stretto. Le lamiere
degli spazi elettorali, sull’altro marciapiede. Riflettono il sole.
Vuote. Un manifesto solo c’è.
Il 17
aprile, vota Sì, al Referendum. Ammirevole, chi ce lo ha messo. Uno
solo nel deserto.
Ecco,
guarda. Sono arrivata all’incrocio. Sono su, e ancora non ho il
fiatone. Giro a destra. Lascio via Fleming. Sotto di me, la poca
strada che ho fatto, sembra lunghissima. C’è una balaustra
metallica, e le case sotto. Che schifo questo asfalto. Buche,
avvallamenti, tonfi, pezze, pietre sparse, brecciolino. Sembra il
fondo del Raio. Detriti ammucchiati. Il marciapiede, è peggio. Come
se sotto l’asfalto ci fosse l’acqua che bolle. In mezzo a queste
casette basse, col cancello sulla strada, e qualche alberello dentro.
Arbusti, e intonaco ocra. Mi fa un po’ male la schiena. Guarda. La
chiesa di Cansatessa, tutta di legno, rifatta, persino col campanile
di legno, qua sotto. E le tegole finte, di catrame sagomato, e le
finestre grandi per la luce.
Non
sentiva più i colpi del peso del mio corpo la schiena, da un sacco
di tempo, davvero. Piazza d’Armi non era ancora una tendopoli,
quando ci correvo io. E, pure la, le radici degli alberi gonfiavano
di bitorzoli la pista d’atletica. Qua alberi non ce ne sono più,
ma è tutto rigonfiamenti e vuoti, il terreno, che devo stare
attenta. Se metto il piede nel posto sbagliato mi rovino di nuovo i
tendini. Ci sono ancora spazi vuoti, tra le case. Pezzi incolti di
terra arruffata.Che non diventa ancora un palazzo, e non diventerà
mai un verde pubblico, Un poco di ossigeno. Devo bere il mio primo
sorso d’acqua. Ho le labbra secche, e anche il palato, e la lingua.
Quanto
tempo è che non bacio più nessuno?
Ci
aveva provato un pomeriggio, Matteo. Ma io non volevo che baciasse
una seduta su una sedia a rotelle. Neanche fossi Clara! Io non volevo
pietà. Mi sembrava che mi guardasse impaurito. Come se fossi un
mostro. Piangevo, poi dopo. Da sola. Dopo che lo avevo mandato via.
Sono belli quegli alberi con i fiori bianchi, dentro il sole,
sembrano scintille. Sembrano muoversi. Fanno talmente tanta luce che
non si vedono i rami, solo una polvere luminosa, lampi. Chi sa se
sono ciliegi, o mandorli. Sarebbero belli, degli alberi da frutto,
lì, in mezzo alla città dimenticata. Ci andrebbero uccelli e
bambini a raccoglierli, che bello.
Corro
in alto, rispetto al tetto delle case, a destra, in basso, il vento
lo sento. E guardo le erbacce che crescono sui bordi del marciapiede,
e lo sbriciolano. Si vede il profilo delle montagne, lontano.
Un’ombra più scura, sotto il cielo scaldato dal sole. Fa caldo,
stamattina. Il guardrail. Devo stare attenta a non inciampare, a
tenermi dritta. Qui è tutto arrugginito. Là sotto ci sono enormi
prati verdi. Tra la strada per Montereale, e quella della Guardia di
Finanza. Perché ancora non ci costruiscono? E’ strano. Ma sarebbe
pure bello, se restassero così. Magari ci coltivano qualcosa. O ci
si potrebbe passeggiare dentro.
Visti
da quassù sembrano una splendida possibilità. Di aria libera, e
giochi. E forse qualcuno ci farà un altro po’ di cemento sopra.
Che ce ne abbiamo bisogno. Ci manca. Il fiato, mi sembra ancora di
avercelo. Mi fa un po’ male, dentro la scarpa, l’alluce sinistro.
Come se fosse rigido, e facesse fatica a piegarsi. Però se non ci
penso, posso andare ancora. Una breve piazzola interrompe il
guardrail, c’è un ponteggio, che fa da balaustra, spezzato, tenuto
insieme da un telo bianco, che ne unisce due bracci. Se mi avvicino
li e mi appoggio, cado sul tetto della casa più vicina. Ancora
prato, e pezzi di Coppito, là giù in fondo, forse. Certo che ancora
non la imparo davvero questa città. La conosco solo camminandoci
dentro. Dall’alto non l’ho mai vista. Da sotto, sì, però.
La
prima gru. E’ bassa, rispetto alla strada dove sono, quasi corro
lungo il suo braccio trasversale, che, contro la luce del mattino, è
un’ombra di traliccio, che unisce due pali della luce, in
prospettiva sfalsata, lungo la strada che curva a sinistra. E cime
scompigliate di alberi polverosi, soffocati tra i muri perimetrali
delle case. Si riapre, la strada con una piccola curva a destra.
Sento un accenno di fiatone. Ma respiro con la pancia, profondamente,
anche se è difficile, correndo. Riprendo a respirare col naso, e la
bocca chiusa. Mi asciugo un po’ di sudore. Sì, col manico della
felpa. Nello zainetto, dovrei avere anche l’asciugamano. Ma,
magari, lo uso dopo. Me lo sento sbattere sulla schiena, lo zaino.
Non mi fa male, sulle spalle, non mi tira. L’ho messo bene.
Questo
enorme palazzo di cemento e mattoni grigi, visto attraverso questa
cancellata a quadretti metallici, sembra tutto storto. Ingabbiato
dentro i rettangoli dei ponteggi, fino al settimo piano. Sembra un
gioco con i mattoncini da bimbi. Per terra, le foglie secche si
mischiano con l’erba verde. Come le case nuove, quelle ricostruite,
e quelle ancora in cantiere si alternano alla vista.
E
corro, ancora. Incredibile. Ci passo sotto, a quest’albero, colmo
di fiori bianchi sui rami. Mi sembra di sentir scricchiolare la casa
a fianco. Metà in piedi, già fatta e finita, anche se vecchia, e
l’altra metà, fatta solo di travi di cemento armato, e piloni,
vuoti e aperti nel cielo, senza mattoni che ancora li chiudono.
Sospesi, come un disegno che nasce dal niente.
Passo
l’incrocio che scende giù al centro commerciale, e continuo a
correre. Lo so, che vado piano, ma io ieri, a quest’ora, ero ancora
in sala d’attesa in palestra, per la fisioterapia. Per fortuna che
le depilo le gambe. Così non dovevo nascondermi. E neanche ora.
Sull’asfalto le ombre vengono da sinistra, e fanno strani disegni,
per terra, che si mischiano coi profili delle buche. C’è una
edicola, sul muro. La Madonna. Un altarino di pietra e l’intonaco
scrostato. Chi sa quando l’hanno fatto, quel dipinto. E c’è
ancora verde, a sinistra, ma è recintato. E’ nudo. Perché non ci
fanno un boschetto qui?
Ci
piantano 309 alberi. Sarebbe un bel monumento, credo. Vivo.
Quella
casa laggiù sembra rossa, contro la collina. Il sole, quasi cancella
i colori, Sembra di guardare uno sfondo del Beato Angelico. Corri,
Luisetta. Corri. Corri ancora, che ce la fai. Ci sono alberi che sono
ancora solo corteccia e rami disegnati di nero contro il cielo e la
luce, da qui, non si vede, se ci nascono già foglie, o no. Se per
loro è ancora inverno, o già morte. Si sente una sirena d’allarme,
da qualche parte. E odore di automobili che corrono.
Ah, ma
l’hanno dipinta quasi rossa, arancio, e quella era la casa di via
Dante Alighieri, spezzata in due. Mi ricordo le foto, di quella casa.
Io non ci sono mai venuta, a vederla. Sembravano le mie ossa, uscite
dalla carne, i ferri del cemento piegati, che tenevano insieme
abbracciati i pilastri spezzati, che avevano inghiottito un piano di
quella casa. E ce ne erano altre di case così, lungo quella via. Mi
pare ricostruito qui. Anche se il verde intorno, sembra sempre una
terra abbandonata e schifata da tutti. Che peccato. E palazzi.
Mi
fanno male le costole. Ma non è come sette anni fa, che non
respiravo.
E’
un dolore più di muscoli, anche se è nelle ossa. Come se facessero
fatica a tenermi dritta. Sì lo so, che sono stata tanto seduta. Qui
prima c’era un negozio di divani, mi pare, e adesso, ci si mangia.
La gru, in cielo, sembra un indice puntato contro un orizzonte che
non si vede.
L’intonaco
di quella vecchia casa in pietra, tutta ingabbiata dentro pesanti
travi di ferro, sembra sangue sbiadito e rappreso che scolava tra le
ferite. Mi pare tutta storta, in pendenza, come la salita lieve di
via Antica Arischia che sto percorrendo. Adesso sì, che respiro un
po’ con la bocca. Ancora acqua. E là sotto, sta venendo su un
altro palazzo. Le impalcature mi sembrano celesti, e dentro, si
vedono le armature di legno dove si cola il cemento e il ferro.
Sporgono, in alto, i ferri. C’è un pino marittimo, qui a Pettino,
con i rami tutti tagliati lungo il fusto, e resta solo qualcosa in
cima. Li hanno tagliati tutti gli alberi qui. Lungo la strada sembra
che ci siano rimasti solo cespugli e arbusti disordinati, rovi. Neri
di gas di scarico.
Dai,
Luisetta, ancora un poco.
Qua è
pieno di prati recintati. C’è solo questa strada, in mezzo, e
qualche strada trasversale, ad angolo retto, e poi case, e palazzi,
circondati da mura e cancelli, e cortiletti smilzi. Non c’è
nessuna piazza. Quasi. Niente comunque, che somigli a piazza Duomo,
per esempio. La sotto, c’era il bar. Aveva riaperto subito, dopo il
terremoto. Aveva riaperto nella piazzetta lì vicino, mi ha
raccontato mio fratello, sotto dei gazebo. E dei prefabbricati.
Durante
il G8, a luglio del 2009, era l’unico bar aperto qui. Mi ha
raccontato, mio fratello, che fuori c’era un cartello che spiegava
che, dentro, era aperta la sala delle slot machines, con l’aria
condizionata. I palazzi, visti da qui, arrivano con i tetti sin quasi
sulla cima della collina, e la nascondono alla vista, che, col
riverbero del sole, la fa somigliare ad una specie di parrozzo mal
riuscito, tutto precipitato da un lato.
Sono
quasi arrivata. Forza.
Eccone
un altro, di scheletro in cemento armato. Sembra uno di quei disegni
di case che facevo da bambina alle elementari, quando non riuscivo
neanche bene a seguire, col pennarello, i bordi dei quadratini del
quaderno. Certo che costruiscono strano. Sotto è tutto aperto, e
sopra, c’è una specie di sottotetto, già chiuso di mattoni e
intonacato. Ma forse c’era una casa, prima, e la stanno allargando.
Non lo so.
Ancora
non incontro nessuno, che cammini a piedi. Chi sa che penserebbe se
mi vedesse correre così. Mi tira la gamba, dietro. Dove c’è la
cicatrice. Come se ci fosse una corda dura. E me la sento che mi fa
male anche all’inguine. Per dirla tutta, il ferretto del reggiseno
mi sega la pelle. Col sudore poi, me la sento tutta sfregata e rossa.
Quasi quasi me lo levo, il reggiseno. Tanto non c’è nessuno.
Ecco.
La mano dietro la schiena, lo slaccio. Alza il braccio, spostalo,
sfila la spallina, da sotto la maglietta, e l’altra. Via. Eccolo.
Lo appallottolo, lo infilo nello zaino, sono libera. Che bello. Mi
ballano, le tette, mentre corro. Fa’ niente. Il massimo che mi può
succedere è che qualcuno mi guardi. E’ da tanto, che non mi guarda
nessuno. “Monarvap” che vuol dire? Sta su quella plastica gialla
che avvolge un pezzo di casa, che cresce, sul fianco dell’altra.
Circondata da una recinzione di plastica arancione e metallo. Guarda
lì.
Lì,
prima, c’era una casa di pietra tutta diroccata. Ne sono sicura, me
lo ricordo. Adesso stanno costruendoci sopra una casa di due piani
almeno. Tutta di cemento. Ma si può? Ecco la scuola. Il cancello di
metallo chiuso. I mattoncini tutti ancora per terra. Crepata, la
scuola. Non credevo stesse ancora così. E’ rimasta in piedi, ma
sembra tutta scossa, per terra c’è di tutto. Meno male che non
c’erano bambini dentro. C’è un manifesto del Comune, a fianco,
magari inizierà un cantiere di ricostruzione. Non l’attraverso, la
strada, per andare a guardare. Penso solo che già avrebbe dovuto
essere stata ricostruita.
Ci
sono due gru, in quel cantiere, in alto a sinistra. Ecco, la prima
persona che vedo camminare, un signore coi capelli bianchi, vicino
alla fermata del bus. Pensa ai fatti suoi, non mi guarda. E, dietro,
un altro cantiere di un palazzo, enorme. Di ferro e legno. Le
impalcature quasi coprono il sole. Di fronte all’altra scuola, più
in alto. Tutta di cemento, gialla, rimasta in piedi. Le finestre sono
aperte, le lezioni sono già iniziate, sicuro. E’ tanto, che non ci
vado più a scuola, io. Quanti anni sono che ho finito lo
Scientifico? Dieci?
Quasi
ce l’ho fatta.
Ancora
un pezzetto, la salita è leggera, ma continua, sembra sempre tutto
in salita; faccio fatica. Mi fa male tutto adesso. E respiro forte,
con la bocca, che è secca, arsa. Lì, sull’angolo, c’era un
pezzo della chiesa. Adesso, hanno fatto un muro elegante, e due
grandi finestre, che danno luce, una per piano.
Lì
sotto c’era il call center, in quel palazzo. So che c’è ancora,
o forse ce ne sono due adesso, non so. Quando sono uscita
dall’Ospedale, però, ci sono passata, e c’era una enorme fessura
a terra, sull’asfalto. Aperto proprio. Uno squarcio lungo quasi
tutto il piazzale, e che piegava, ad un certo punto. Adesso non c’è
più, mi pare. E il palazzo di fronte è ancora lì, fermo, con
quella ferita che va da un angolo della parete, a quella opposta, per
tutti e due i lati. Disegnando quattro triangoli incerti, e assurdi,
uniti per la punta, lungo la parete. E’ ancora così. Chi sa che
fanno, le persone che ci abitavano. Sono arrivata. Basta. Mi fermo.
Proprio sull’incrocio. Con questa strada che scende giù. Bagnata
di sole. Ripida. Ci posso camminare, per riprendere fiato, in
discesa. Mentre mi asciugo col telo, di spugna.
E’
sette aprile, Luisetta, sette anni fa, oggi ti hanno estratto dalle
macerie di casa tua. E oggi, dopo sette anni, ti sei fatta la tua
prima corsa. Sette anni di ferite, e di fatica. Di ossa ricostruite,
e di solitudine. Anche il tendine, s’era rotto. Certe volte, i
numeri ci giocano, con la vita delle persone.
Dentro
il traffico, sento qualche passero cinguettare. Il sudore mi scola
dalla faccia. Forse qualche lacrima. Salata. Ciao, Luisetta.
Buongiorno.
Luigi
Fiammata