Hanno un età compresa tra i 18 e i 28 anni, sono immigrati di seconda generazione o autoctoni convertiti e in migliaia combattono in Siria e Iraq tra le file del sedicente Stato islamico o di al Qaeda. Del fenomeno dei foreign fighters europei si occupa il volume “L’ultima utopia” di Renzo Guolo, docente di Sociologia dell’islam all’Università di Padova. Elvira Ragosta lo ha intervistato, chiedendogli cosa è cambiato nel panorama dei jihadisti europei dopo gli attentati di Parigi:
R. – E’ cambiato poco, nel senso che gli attentati di Parigi sono in qualche modo il risultato del lungo ciclo che è ormai avviato da anni, dopo il conflitto siriano, in cui sono comparsi questi attori politici e religiosi. Il loro reclutamento avviene per motivi vari: spesso sono alla ricerca di una identità ben specifica, che pensano di non trovare più nella cultura occidentale e che cercano di trovare attraverso una radicalizzazione.
D. – Chi sono i foreign fighters europei e perché partono?
R. – Il profilo è molto diverso, perché noi troviamo giovani che hanno avuto grossi problemi, che sono cresciuti in banlieue, passando attraverso insuccessi scolastici oppure attraverso la piccola criminalità che li ha portati poi al carcere; come pure giovani autoctoni convertiti che provengono da famiglie di ceto medio ed anche persone che sono musulmane di cultura e religione, che vivono in condizioni economiche e sociali dignitose e magari hanno concluso i loro studi con una laurea… Quindi non possiamo dire che ci sia un profilo tipico, anche se in taluni casi nazionali – il caso francese è tipico, come nelle banlieue e nelle grandi periferie urbane di Parigi e di altri grandi centri – c’è un percorso quasi specifico: il giovane di banlieue, che va alla ricerca di quell’identità di cui parlavo in precedenza, sicuramente è un profilo marcato. E questo lo abbiamo visto non solo ai tempi dell’attento a Charlie Hebdo, ma anche nel caso dell’attacco del Bataclan o nello Stadio di Francia, in cui – sebbene la cellula fosse prevalentemente belga – vi erano anche francesi che avevano queste stesse origini.
D. – Tra i foreign fighters europei ci sono anche delle donne, rappresentano il 10 per cento. Lei scrive nel suo libro: sono per lo più francesi, britanniche e tedesche; ma ci sono stati anche alcuni casi italiani. Che profilo sociologico hanno e perché decidono di raggiungere i combattenti?
R. – Valgono per loro fondamentalmente gli stessi motivi che inducono i loro coetanei maschi a cercare un elemento di questo tipo, ma vi è anche poi una specificità: è come se queste giovani donne cercassero una identità in un ruolo quasi certo. Entrando nelle file di formazioni di questo tipo sanno, infatti, che si consegnano ad un ruolo di subalternità: per loro è previsto un meccanismo quasi ancillare rispetto al jihad; la cura domestica di mariti che hanno conosciuto via web o che sono stati loro “assegnati”, ma anche una accettazione per cui il loro compito diventa quello educativo e familiare legato alla costruzione di nuovi militanti, come se la stessa famiglia che si forma dentro questo magma avesse in qualche modo una funzione pedagogica e politica: quella cioè di creare nuovi adepti allo Stato Islamico.
D. – Quali sono i luoghi di reclutamento e di radicalizzazione di questi foreign fighters europei?
R. – Sono diversi. Anzitutto c’è la rete, che è ovviamente il più grande attore di socializzazione islamista radicale attraverso i social-network, ma anche attraverso quella letteratura radicale che un tempo era patrimonio solo di pochi e interessati militanti o di chi andava in cerca specificatamente di un testo di quel tipo. Vi sono poi quartieri difficili – come le banlieue francesi o i suburbi – in cui queste persone affrontano il volto dello Stato, della società in cui vivono in una condizione sempre di disagio, che sfocia in un forte antagonismo. Vi sono poi le carceri, che sono un luogo di proselitismo non da poco; e poi anche i luoghi che possono essere di culto: anche se paradossalmente le moschee hanno perso quel posto che avevano fino a qualche anno fa, proprio perché a partire dagli attentati di Londra del 2005 nel panorama europeo c’è stato una forte stretta sui luoghi di culto in termini di monitoraggio e sorveglianza. Questo fa sì che non siano più, nella loro dimensione precedente, luoghi di reclutamento come in passato.
D. – Professore, cosa può dirci sui foreign fighters italiani?
R. – I foreign fighters italiani sono quasi una novantina: questo secondo i dati ufficiali. Si parla soprattutto di persone cresciute in Italia, alcune delle quali hanno cittadinanza italiana, alcune sono convertite: abbiamo i due casi famosi di Giuliano Del Nevo e di Maria Giulia Sergio. Ma sono casi riconducili alla media europea, nel senso che accade in Italia quello che accade negli altri Paesi. Certo, in termini di minore intensità: la “filiera” francese ha avuto 1.500 persone coinvolte negli ultimi anni; quella belga è molto elevata, così come quella britannica… In Italia, quindi, il numero è relativamente basso rispetto ad altri Paesi. Elvira Ragosta, Radio Vaticana, Radiogiornale del 17 gennaio 2016.