Il
sole, in settembre, poco dopo l’alba a L’Aquila, rompe l’aria
tagliente, un po’ a destra del Gran Sasso, quando lo si guardi. Il
grigio della notte, e del silenzio della città, si spezza di
arancio, di rosa, e bordeggia le nuvole; e i raggi di sole, lasciano
una leggerissima traccia dorata sui fili d’erba che rompono
l’asfalto.
Ludovico
aveva parcheggiato l’automobile in uno spazio sterrato, a sinistra
della strada che risaliva verso l’Università. Era davvero freddo,
quel mattino. Intorno ai dieci gradi. Forse meno. Si strinse addosso
la giacca di lino che indossava, aumentando il passo, per sentire il
sangue che correva più velocemente, riscaldandolo, mentre si
sforzava di respirare solo con il naso. La sensazione di calore era
sfuggente. Poteva sentirla davvero, solo mettendo una mano nel
colletto della camicia, nell’incavo tra il collo e la spalla. E poi
infilando subito le mani in tasca, nei pantaloni, come per fermare il
suono del proprio corpo, e non farlo sfuggire via, rassicurandosi.
Si
dirigeva verso l’edificio centrale dell’Ospedale San Salvatore.
Sulla strada, l’assurdo disegno delle rotaie di ferro, interrotte
da monconi di cemento, da spartitraffico. Una linea di tram mai nato,
un forsennato spreco di denaro pubblico, rifletteva Ludovico, mentre
li oltrepassava; appetiti mai sazi di avvoltoi deformi. Sfregiavano
l’asfalto come una cicatrice purulenta.
Il
cantiere della ricostruzione ancora aperto e transennato. Le prime
persone del mattino camminavano a fianco delle barriere di plastica
arancione, indifferenti. Come se anche quella separazione, da sei
anni e mezzo, fosse divenuta parte del paesaggio. Muto, e polveroso e
rotto. Pesante delle complicità di silenzio e convenienza. Così
anche per Ludovico, che guardava tutto senza davvero vederlo, mentre
era attento a non scivolare, camminando.
Ludovico
salì la scala in pietra, e si ritrovò nei corridoi aperti
dell’Ospedale; il passaggio bloccato, a sinistra, dalle grate
metalliche, arrugginite di erbacce, e si diresse, verso il grande
corridoio centrale, a sinistra, fino alla sala Prelievi. Avrebbe
dovuto prendere un numeretto ed attendere le otto del mattino, quando
le infermiere avrebbero iniziato il loro lavoro. Guardò in alto, il
display luminoso, che segnava l’ultimo numero chiamato il giorno
prima. E lo confrontò col suo. Una trentina di numeri in più. Nella
sala, però, c’erano solo sei o sette persone, sedute, a guardare
dritto davanti a sé, in silenzio. Una coppia anziana parlottava
piano.
Ludovico
sapeva, come funzionava il sistema. Qualcuno, la sera prima, o il
mattino quando ancora la sala non era aperta, prelevava una serie di
numerini di carta che poi avrebbe consegnato agli interessati, che,
così, senza fare la fila, sarebbero stati tra i primi al prelievo
del sangue. Magari per amicizia, o per solidarietà. O, forse, per un
po’ di denaro.
Ancora
più di mezzora restava da aspettare, prima che le persone venissero
chiamate a consegnare copia del pagamento del ticket, e, in alcuni
casi, le provette con le prime urine del mattino. Ludovico perciò
uscì fuori dalla sala, guardò le panchine di pietra nuda, sistemate
fuori, circondate da container che ancora ospitavano servizi, o
piccoli sgabuzzini, da cui uscivano infermieri vestiti di verde.
Tornò indietro, verso l’ingresso dell’ospedale, all’esterno.
Ed entrò nell’edicola posta proprio sul culmine della strada che,
sotto le sbarre, si infilava poi dentro l’edificio dell’ospedale,
fino al pronto Soccorso.
Acquistò
un quotidiano; lo piegò, e se lo mise sotto il braccio. I passi
lenti, di nuovo, verso la sala Prelievi. Il sole iniziava ad
allargarsi sui parcheggi delle auto, preannunciando una giornata
limpida, senza nuvole. Azzurra.
L’interno
della sala Prelievi, visto da dietro il giornale aperto, cominciava
davvero ad affollarsi. Quasi tutti i posti a sedere erano ora
occupati. Qualcuno conversava con i vicini di sedia. A bassa voce.
Ma, il rumore delle parole, tutte insieme, suonava come un tuono
lontano. Crescente.
Ludovico
aveva salutato da lontano qualche conoscente. E guardava la folla
delle persone tenendosi in disparte, in un angolo, in piedi. Provava
ad immaginare, perché ciascuno fosse lì. Qualcuno per controlli
abituali. Altri per ipocondria. Qualcuno per verificare se le cure
andassero bene. Altri per individuare strani e inquietanti disturbi.
Una ragazza incinta, per rassicurarsi che tutto andasse per il verso
giusto.
Le
infermiere camminavano veloci, e Ludovico non riusciva ad immaginare
cosa, concretamente facessero, e perché. Sembravano misteriose
sacerdotesse di un culto soprannaturale e destinato a restargli
totalmente ignoto. Paurosamente, ignoto. Intanto, l’odore della
sala iniziava a cambiare. Si distingueva il pulsare alcoolico del
disinfettante e l’alito pesante dei vestiti troppo usati. E il
colore buio della paura. Una bimba piangeva.
L’infermiera,
con Ludovico, fu brava e veloce. Appena entrato, chiuse dietro di sé
la tenda dello stanzino, e tolse la giacca. Arrotolò le maniche
della camicia e porse il braccio sinistro. Lei guardò il testo
dell’impegnativa. Poi lo guardò negli occhi. Con uno sguardo
malinconico, veloce, e, senza parlare, gli avvolse intorno al
bicipite, il laccio emostatico, stringendolo. Prelevò il sangue,
usando un unico ago, cui attaccava, progressivamente, diverse
provette. Un sangue scuro, che scendeva piano, come un mare stanco,
le riempiva.
Ludovico
si ritrovò fuori, di nuovo nella sala Prelievi. Teneva un po’
d’ovatta premuta con forza nell’incavo del braccio, per far
coagulare il sangue. E fermarne l’uscita. L’aria era spezzata dai
campanelli che chiamavano nuove persone, a presentare le ricevute del
pagamento dei ticket, o a farsi prelevare il sangue, nella fila di
sgabuzzini, divisi tra loro da una serie di separè. Si sentiva più
leggero, ora. Era passato il tempo dell’attesa che, prima, aveva
immaginato interminabile. Ora la giornata, che dentro di sé aveva
sospeso, poteva iniziare. E sentiva anche un po’ di fame.
Entrò
nel bar, posto sotto il palazzo a sinistra dell’Ospedale. Immerso
nella confusione di un parcheggio colmo d’auto, e di un
supermercato. Era pieno di persone, a quell’ora del mattino. L’aria
era caffè, e cornetti. E una lontana traccia di vaniglia, dolce,
come una carezza antica.
Ludovico
prese il suo cappuccino e una pasta frolla, con dentro qualche
pezzetto di mela, e una crema liquida. E sedette, ad un tavolo, nei
pressi dell’ingresso. Da solo. Beveva lentamente e dava piccoli
morsi al dolce. Sentendosi scendere dentro il calore del latte. Si
guardava intorno, nel frattempo.
E fu
allora, che la vide. Seduta di fronte a lui, un paio di tavoli
distante. Parlava con due altre ragazze. E d’improvviso, a
Ludovico, sembrò che il bar fosse silenzio.
Lei
aveva i capelli biondi, quasi rossi. Pettinati lisci. Con una
frangetta leggera, che le incorniciava il viso. Gli occhi erano una
cascata limpida, che si gettava nelle sue labbra, rosse, piene e
morbide, passando per il naso, pronunciato, ma dritto, severo, che le
conferiva un volto rinascimentale, consapevole di sé. Attraversato
come lampi dal suo sorriso dolcissimo e incerto, timido, talvolta,
come se avesse timore a scoprirsi troppo, a sentirsi indifesa, anche
solo un istante. La figura era snella, come un giunco elegante;
indossava un maglioncino leggero, che quasi le nascondeva la dolcezza
del seno. Ludovico restò a guardarla. Come se fosse un sole
tenerissimo, appena velato dalle sue lacrime leggere.
Lei
era così bella. E giovane. Indossava i suoi trent’anni, forse,
come le gemme di primavera. Ludovico si guardava in cima ad uno
scoglio altissimo sul mare. Gli occhi incantati dal blu profondo, e
dalla paura di lasciarsi andare. Respirò, Ludovico, forte, come se
dovesse affrontare una lunga apnea. E sentì, distintamente, la forza
del sogno che gli stringeva il cuore smarrito.
Era
come se la lancetta dell’orologio, avesse smesso di girare in
tondo, ad un ritmo preciso ed eterno, e si fosse staccata, dal suo
perno, attirata da un corpo celeste fin dentro una nuvola, che
fermava lo scorrere degli attimi. E li poggiava sulle sue mani.
Lenti, docili. Arresi. Ludovico sentiva che, davvero, si stava
innamorando. Pur senza conoscerla.
Guardava
le proprie dita sgomento. Si osservava volar via; scavare con le
unghie le proprie mura, erette nel corso di anni interminabili, a
protezione del proprio fragilissimo desiderio di smarrirsi, e della
paura delle ferite, già subite, mai rimarginate. Non riusciva a
credere a quel che ascoltava di sé. A quel che voleva, ascoltare di
sé. Con un gesto della mano cercò di scacciare quei pensieri,
mischiati, confusi, dai propri occhi, perduti negli occhi di lei. Le
scintille del suo sguardo galleggiavano, nell’aria del bar, come
fosse un mattino terso dinanzi alla neve. Deglutì, Ludovico. E sentì
che il sapore della propria bocca desiderava quello dei suoi baci.
Un’acqua profumata, e ubriacante. Un volo scosceso, e affamato. Ad
occhi aperti, per riempirsi di lei, delle sue parole pronunciate di
notte; delle sue parole capaci di scatenare il giorno e le maree.
Ludovico
sapeva che nessuna, nessuna delle parole che aveva letto in centinaia
e centinaia di libri, sarebbe stata capace di raccontare l’immensa
vertigine di quegli istanti, che lo facevano tremare. Lo tornavano
bambino incantato davanti ad un fiore. Scopriva improvvisamente il
proprio mutismo, la propria impossibilità ad arrampicarsi su quel
cielo improvviso, di serenissima tempesta. E si sentì nudo, e
sconfitto, senza voler neppure combattere. Trapassato.
Sentì
che lei avrebbe potuto riempirgli la vita. Renderla colma di senso e
di miele. Squassando ogni dubbio. Come un vento potente cancellava le
tracce di sabbia e scirocco. Immaginava il suo giorno con lei, senza
pigrizie, senza mai smettere di cercare i gusti più fondi del
vivere. Immaginava che il tempo, con lei accanto, sarebbe stato un
infinito sorso d’acqua senza mai sete.
Lei si
voltò, verso di lui. Con un cenno repentino del capo. Una volta, e
poi ancora. E s’accorse che la stava fissando. E allora s’alzò.
E si diresse verso di lui.
Ludovico
tremava. Sudava.
- Professore !
Sono Anelli, Gianna… terza E… al liceo… quindici anni fa ! –
Ludovico,
si alzò, rigido, e pallidissimo. Le strinse la mano, sentendo le
proprie stesse dita fredde, esangui.
E,
senza dire una parola, le voltò le spalle uscendo dal bar, con passo
incerto, malfermo.
Fuori,
sulla rotonda davanti all’Ospedale, i primi studenti iniziavano a
sedersi con i propri libri sul manto erboso, mentre le auto intorno
giravano rabbiose in cerca di parcheggio.
Luigi
Fiammata