Quando gli autori di un
sito internet dell’area napoletana, di quelli che con passione si
dedicano alla ricerca e alla salvaguardia della storia e delle
tradizioni delle piccole comunità di paese, mi sollecitarono una
ricerca etimologica sul termine “mambrucco” da essi ritenuto come
appartenente al lessico napoletano (e come tale usato abitualmente),
nell’accettare la sfida, rimanevo fermamente convinto che quella
parola non fosse napoletana.
Però, riconoscevo anche che il fatto di
non averla io mai sentita non poteva essere una prova sufficiente ad
avvalorare il mio convincimento. E con questa riserva accettai la
fatica. Eppure, in quella lingua ero cresciuto da sempre. Solo verso
i dodici anni, al tempo della gloriosa “scuola media”, ero
passato al regime bilingue napoletano-fiorentino scolastico,
attraverso il primo contatto con pagine di vera letteratura e grazie
alla lettura sistematica dell’epica classica (Iliade, Odissea,
Eneide) in traduzione italiana, rispettivamente di Vincenzo Monti, di
Ippolito Pindemonte, di Annibal Caro. E con la scrittura forzata dei
“temi in classe”.
Qualche anno dopo, sulla
falsariga della prosa manzoniana e mediante la pratica delle
traduzioni dal latino e dal greco di testi di autori classici quella
seconda lingua, acquisita in età adulta, cominciava a definirsi
anch’essa come lingua-materna. Mentre continuavano ancora i
temi-in-classe in rigorosa lingua italiana; questa volta su argomenti
di maggiore attualità, pertinenti e interessanti, che mettevano a
dura prova la capacità di esprimere autonomi giudizi critici.
Superati i trent’anni, prima il francese, in seguito anche il
tedesco, un po’ per necessità, un po’ per curiosità,
gradualmente, entrarono anch’esse nel patrimonio delle mie
conoscenze, senza rendermene tuttavia mai competente. Il napoletano
l’avevo appreso in famiglia, l’avevo praticato nei cortili, sulla
strada, nelle piazze e pei mercati, tra risse e baruffe, facendo code
agli sportelli e ascoltando e rimodulando canzoni; facendo il
pendolare di provincia sui treni locali e sulle autolinee
extraurbane, visitando fiere e partecipando a feste patronali nei
dintorni; e finanche frequentando aule universitarie tra lezioni di
glottologia e quelle di dialettologia. E nelle attigue stradine senza
sole dove si allineavano botteghe e bancarelle di vecchi libri. In
chiesa usava ancora il latino.
Mambrucco era estraneo al
mio lessico (napoletano); e non ricorreva, allora, neppure sul
vocabolario della lingua italiana. Qualsiasi tentativo di analisi,
senza avere chiara la denotazione (che cos’è un mambrucco?) della
parola, in mancanza di una storia circostanziata della struttura
morfologica della parola, e, soprattutto, senza poterne individuare
il referente (che cosa si può chiamare – a giusta ragione –
mambrucco ?), in qualche modo costituiva un alibi al rifiuto di
portare a termine l’impresa. Per cui sembrò che la cosa non
dovesse aver seguito. Sennonché, per volontà degli autori del
sito-internet, la parola cominciò a figurare in un elenco di parole
napoletane, di cui si davano le definizioni. Praticamente
anch’essa – come clandestina, secondo me – si era conquistato
il suo posto nella vetrina del sito internet, dove chiunque avrebbe
potuto incontrarla. Mentre tra la comunità dei “lettori”
parlanti napoletani a cui si rivolgeva il sito, a chi sembrava un
termine gergale giovanile, a chi, al contrario, un residuato di
parole in uso in altri tempi. Comunque passava sempre come una parola
usata in area ristretta. La sua spiegazione era quella suggerita
dall’uso stesso che ne facevano i pochi che presumevano di
riconoscerla. Il mambrucco, quindi, sarebbe stato, essenzialmente,
una persona; una persona particolare: tra l’imbranato e il cafone.
Praticamente una persona spregevole. Per dirla con linguaggio
tecnico, il termine veniva definito “una parola opaca
dall’etimologia incerta”. E la cosa poteva anche fermarsi lì.
Ma ad illuminare il buio
in cui eravamo piombati intervenne un lettore, che nel chiedere
conferma di una sua ipotesi, ci fornì, involontariamente una serie
di elementi. Primo: il lettore che ci interpellava era “veneto”.
Inoltre, confrontava la sua definizione di “mambrucco” con quella
che gli amici napoletani, senza alcun fondamento, avevano suggerito.
La questione passò a me, ritenuto l’esperto. Così cercai di
dipanarla nella maniera che vi racconto. In prima istanza considerai
che un’area di parlanti “ concreta e reale ”, la parola
“mambrucco” ce l’aveva, ormai; ed era collocata nel nordest
dell’Italia. Partendo da questo dato di fatto, allora, si poteva
anche considerare possibile che in certi ambiti limitati, la parola
la si potesse incontrare al sud dell’Italia, usata sia tra i
giovani che tra i più anziani. Infatti, per lunghi anni e in diverse
epoche, il nordest, per la quantità di caserme ivi dislocate, era
stata la destinazione dei coscritti nazionali arruolati per la ferma
di leva. Anche dei cittadini del Sud: tutti quelli che non fossero
assegnati alla Marina Militare. E perciò non era difficile
immaginare che la parola fosse importata al sud proprio dal
triveneto. Poiché esistono diverse situazioni, e sociologiche e
linguistiche, di come si rapportano (e si offendono reciprocamente) i
vicini geografici, i confinanti, sulla base della discriminante
linguistica, si insinuò in me il sospetto che anche il mambrucco
potesse rientrare nella casistica. Ora bisognava cercare di
dimostrarlo.
Prima di arrivare alla
conclusione, che non è lontana, vorrei presentare i precedenti
storici e linguistici (che abbiamo avuto modo di visitare anche in
questa rubrica). Mi limito qui a presentare il vero significato delle
parole esaminate, lasciando al lettore il compito di verificarne
l’accezione peggiorativa (o migliorativa) con cui esse sono usate
abitualmente.
Cafone (da cacofonos
= che parla male) è lo straniero che non parla la “nostra”
lingua.
Patrizio (patricius, da
patres = senatori) è chi appartiene ad una famiglia di
senatori.
Urbano (urbanus, da
urbs = città) è chi vive in città. Quindi “noi”.
Villano (villanus, da
villa = fattoria agricola) è chi vive in campagna: “diversi
da noi”.
Gentile (da gentes
= famiglie con cittadinanza romana): i pagani rispetto a “noi”
cristiani.
Pagano (da pagus
= villaggio) abitante delle città romane, diversi dalle comunità
ebraiche.
Volgare (da vulgus
= popolo) significa del popolo.
Rivale (da riva =
sponda del fiume) è chi risiede sulla riva opposta alla “nostra”.
Vicino (da vicus
= villaggio) è chi abita nel “nostro” casale.
E veniamo alla nostra
ipotesi. Il termine mambrucco nasce in una zona di contatto tra
un’area di parlanti italiani, e una di parlanti tedeschi (il
nordest dell’Italia, appunto). Molto probabilmente era il modo con
cui gli italofoni chiamavano i germanofoni, individuati dal loro modo
di parlare (in cui ricorreva frequentemente l’espressione “man
braucht”: bisogna, è necessario, si deve. Alla casistica dei
termini sopraelencati vanno aggiunte altre due situazioni. Quella di
barbaro con cui i Greci chiamavano i confinanti stranieri.
Anche qui gioca lo stesso meccanismo: li chiamavano “bar-bar” per
l’effetto che la lingua di quei popoli procurava ai loro orecchi.
La seconda è più seria, e più scientifica. Nel suo De vulgari
eloquio (trattatello sulla lingua, scritto in latino), Dante
Alighieri, indicando le tre parlate di derivazione dal latino, le
caratterizza col modo con cui i parlanti rispondevano “sì”:
lingua d’oil (illud est = è proprio quello); lingua d’oc (hoc
est = è questo); lingua
del sì (sic est = è
così).
Luigi Casale