Oggi
si usa un’espressione molto diffusa: “di primo pelo”, per dire
“giovane”, “nuovo del mestiere”. L’espressione, infatti,
nella pratica comunicativa proprio questo significa; anche se il pelo
o la barba incipiente dell’adolescente non c’entrano proprio
niente.
Se
quando si parla di “primo pelo” ci si riferisce al “giovane”
o al “principiante”, lo è solo per traslato, cioè per via di
metafora. Si dice di una cosa ma ci si riferisce ad un’altra. È
questa la metafora. Parola sinonimo di traslato.
[Le
due parole sono - esattamente - dei “calchi”, cioè una è la
copia dell’altra, dal punto di vista della loro struttura
morfo-semantica.
Traslato
viene dal latino (trans
+ latum;
“latum” è il participio del verbo fero
[portare] e significa: portato. Traslato,
perciò, è portato
da una parte all’altra,
portato
di là.
Quindi: trasportato,
trasferito.
Metafora
è invece di origine greca (metà + phoréō) e significa la stessa
cosa: trasportato.
Il significato della parola che si dice, infatti, di una determinata sfera lessicale, è trasportato alla parola che contemporaneamente si pensa e vi si allude di una ben diversa sfera lessicale, proprio come indicato nella definizione di metafora. Il parlante che usa una determinata parola sposta, o in maniera autonoma ed originale, oppure, appoggiandosi ad una convenzione già esistente tra i parlanti, il significato ad un diverso referente che normalmente verrebbe indicato con un’altra parola (appartenente perciò ad una diversa sfera lessicale). La definizione della metafora, a parte la prolissità del mio parlare e le molte ridondanze, così come l’ho formulata, mi pare chiara e completa, e – spero – sufficientemente comprensibile. Elementi di ulteriore chiarimento ci saranno forniti dall’esame della espressione che stiamo esaminando, quindi dalle argomentazioni che seguiranno.]
Il significato della parola che si dice, infatti, di una determinata sfera lessicale, è trasportato alla parola che contemporaneamente si pensa e vi si allude di una ben diversa sfera lessicale, proprio come indicato nella definizione di metafora. Il parlante che usa una determinata parola sposta, o in maniera autonoma ed originale, oppure, appoggiandosi ad una convenzione già esistente tra i parlanti, il significato ad un diverso referente che normalmente verrebbe indicato con un’altra parola (appartenente perciò ad una diversa sfera lessicale). La definizione della metafora, a parte la prolissità del mio parlare e le molte ridondanze, così come l’ho formulata, mi pare chiara e completa, e – spero – sufficientemente comprensibile. Elementi di ulteriore chiarimento ci saranno forniti dall’esame della espressione che stiamo esaminando, quindi dalle argomentazioni che seguiranno.]
Se
il pelo di cui si parla qui fosse veramente il pelo della barba o
altra peluria adolescenziale (come si è portati a credere; e come
certamente lo è per chi usa la lingua in maniera poco trasparente),
il significato di “primo pelo” passando all’adolescente che
comincia a sperimentare la comparsa e la crescita della barba,
andrebbe a significare ugualmente “giovane” o “giovanile”, e
ci troveremmo nella stessa sfera lessicale (quella della gioventù).
[Ma
anche in questo caso potremmo parlare di una “mezza-metafora” in
quanto parleremmo del pelo per indicare la persona a cui il pelo
appartiene: anche questo tipo di comportamento è un modo di
esprimersi “per metafora”. Solo che in questo caso data la
vicinanza delle due sfere lessicali, la retorica definisce questo
processo come metonimia].
Però
si dà il caso che il nostro “pelo”, quello della espressione da
cui siamo partiti e che usiamo abitualmente, non è il pelo anatomico
della specie umana (al quale i più sono portati a pensare), il
quale, se riferito alla barba, indicherebbe l’individuo maschio
adulto. O anche, se riferito ad altro pelo, potrebbe indicare la
pubertà e perciò si potrebbe applicare sia al maschio che alla
femmina, nella sua fioritura preadolescenziale.
Il
“pelo”, di cui si parla, veramente (e qui entra la semantica
storica), è il “pilum”
dei Romani, cioè il giavellotto, una specie di lancia corta che
faceva parte della dotazione del soldato. È solo un caso che
anch’esso sia riferito all’uomo, maschio, adulto. In questo caso
– è il caso di dirlo – qui si tratta di un dato di cultura, non
di un dato di natura. Perché esso è esclusivo del soldato.
I
Romani chiamavano “primipìlus”
il soldato di prima fila, o il comandante di una unità militare,
com’era il centurione. Ma non è escluso neppure che con questa
espressione si potesse indicare il soldato appena arruolato; “alle
prime armi”, si direbbe oggi, come se i Romani avessero detto al
“primo giavellotto”. In latino: “primipìlus”.
E allora, solo per puro caso le due espressioni, quella antica e
quella moderna, quella trasparente e quella ancora opaca per molte
persone, coincidono.
Ma
se ci riferiamo a come usa Cesare, o altri autori, la parola
“primipìlus”
(per il quale essa significa il “centurione del primo manipolo dei
triarii”,
cioè i veterani con tre lustri di anzianità – e perciò alla
ferma, che era anche l’ultima – costui non sarà stato poi così
giovane essendo egli il comandante dei più anziani, quindi anziano
egli stesso.
A
conclusione di questa nostra conversazione possiamo notare come oggi
la recuperata trasparenza della lingua rischia di stravolgere
completamente il significato usuale dell’espressione, consolidato
da un equivoco. Comunque resta il fatto che è sempre meglio saperle
le cose, che non saperle. Conoscere è meglio di non-conoscere.
Luigi
Casale