Pasqua, la Chiesa e i cristiani in Iraq in Terra Santa, Iran, Nigeria, America Latina, Kenya

In Iraq, dove migliaia sono i cristiani rifugiati vittime della violenza del sedicente Stato Islamico (Is), il cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, ha celebrato oggi la Messa del giorno di Pasqua nella città di Suleijmanija, nel Kurdistan iracheno, portando loro la vicinanza di Papa Francesco. Ieri la Veglia Pasquale in una tenda in un campo profughi ad ErbilI. Lo segue nella missione mons. Giorgio Lingua, nunzio apostolico in Iraq. Michele Raviart ha raggiunto telefonicamente il porporato per un commento su questa giornata di festa, in una delle situazioni più difficili per i cristiani: 

R. – La celebrazione questa notte è stata molto bella, in una tenda, con oltre un migliaio di persone; la liturgia è stata in lingua caldea. Da parte mia, ho detto che non eravamo soli in questo momento così importante della nostra fede, così importante da un punto di vista spirituale per tutti coloro che si trovano in difficoltà. Questa mattina ho celebrato in Sulejmanija, dicendo queste stesse parole e naturalmente incoraggiando le oltre 400 famiglie che si trovano qui, rifugiate nella zona.
D. – Che situazione ha trovato lì a Sulejmanija ?
R. – C’è una situazione distesa. Le autorità che ho incontrato sono molto cooperative. Naturalmente i cristiani oggi sono in grande festa e credo anche che loro vivano questa Pasqua in modo unico. Mai prima d’ora, c’era stata per loro una celebrazione fuori dal proprio villaggio, fuori dalla propria terra. C’è anche la speranza che la prossima Pasqua possa essere celebrata di nuovo a casa e nei propri villaggi.
D. – Ieri invece nella tendopoli di Erbil come stavano i cristiani?
R. -  I cristiani che ho incontrato, soprattutto ad Erbil, nel campo che ho visitato, erano in una situazione abbastanza penosa. Vivono, infatti, in una struttura dove purtroppo i servizi e l’ambiente non sono proprio dei migliori. Abbiamo, però, ricevuto la certezza da parte delle autorità che subito dopo Pasqua saranno tutti trasferiti in un centro, dove vi sono delle roulotte, dei container adibiti a piccole case, dove credo, sotto tutti i punti di vista, la loro dignità, la loro collocazione, il loro ambiente sarà migliore. Certo, in queste strutture “rimediate” e in simili forme di convivenza, le malattie aumentano soprattutto per gli anziani. Le malattie hanno afflitto e affliggono ancora la popolazione.
D. – Papa Francesco ha chiesto nell’Urbi et Orbi pace per la Siria e per l’Iraq, perché cessi il fragore delle armi e si ristabilisca la buona convivenza fra i gruppi. C’è stato anche un appello alla comunità internazionale perché aiuti in questo momento di crisi, soprattutto per i rifugiati…
R. – Naturalmente la tragedia non riguarda solamente i cristiani, i cristiani sono solo una parte. Per esempio, a Sulejmanija, il governatore mi diceva che hanno oltre 220 mila rifugiati: ci sono persone che vengono dalla Siria, che vengono anche dalla zona di Falluja e che vengono dal nord. Non si tratta solo di cristiani naturalmente, ma anche di musulmani, che sono la grande maggioranza. E’ chiaro, quindi, che l’aiuto internazionale, che comunque finora non è mancato - ma si può sempre migliorare - è auspicabile, soprattutto nella speranza che il Paese, una volta liberato, possa permettere a tutta questa gente di ritrovare la propria vita nei luoghi, nei villaggi, nelle terre da cui proviene ed è originaria. 


La Terra Santa, per i cui abitanti il Papa nel messaggio Urbi et Orbi ha implorato la pace, vive anche questa Pasqua tra speranze e sofferenze. Lo ha ricordato pure il Patriarca latino di Gerusalemme, mons. Fouad Twal, nell’omelia pasquale. "Ogni giorno in Medio Oriente - ha detto - siamo testimoni dei tragici eventi che ci fanno anche contemporanei del Calvario". La piccola comunità cattolica ha già cantato ieri mattina l'Alleluja pasquale, per le norme sullo “statu quo” che stabiliscono i turni per le tre comunità cristiane (greco ortodossi, latini e armeni) che condividono la Basilica del Santo Sepolcro. Sul significato di questa Pasqua, ascoltiamo il custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa, al microfono di Amedeo Lomonaco: 
R. - Il significato della Pasqua è sempre lo stesso. Ma le circostanze lo rendono sempre un qualcosa di nuovo. Le difficoltà, purtroppo, in Terra Santa ma nel Medio Oriente in generale, le conosciamo. La presenza cristiana è sempre messa più a rischio in Medio Oriente - e penso a Siria e Iraq - da persecuzioni drammatiche e ingiustificabili e qui, in Terra Santa, da un assottigliarsi sempre maggiore della presenza del numero di cristiani.
D. - Cosa significa essere presenti in Terra Santa e vivere la Santa Pasqua proprio nella Terra di Gesù?
R. - Innanzitutto gli eventi pasquali, le celebrazioni vengono fatte nei luoghi che storicamente, secondo la tradizione, sono stati i luoghi che hanno vissuto la Pasqua originaria. Questo è già un aspetto molto importante che lega l’evento con il luogo e, quindi, con qualcosa di concreto che possiamo toccare. Detto questo, poi, non sono soltanto i luoghi ma, soprattutto, le comunità a fare Pasqua. E fare Pasqua significa per noi cristiani dare questa testimonianza: nonostante le paure e i tanti segni di morte, noi continuiamo, anche se siamo piccoli, fragili, con tanti limiti, divisi, a voler dare a tutti i costi una testimonianza di vita e di speranza.
D. - Qual è oggi la speranza più forte in Terra Santa?
R. - La speranza è già nello stare qui, è nelle piccole cose di tutti i giorni. Non è il momento per i grandi eventi, è il momento del chicco di grano che fa frutto ma senza fare chiasso e poco alla volta, lentamente. Le comunità cristiane in Terra Santa sono molto piccole - siamo non di più dell’uno per cento della popolazione -  ma molto attive, nelle scuole e nelle diverse attività. La speranza, la vita, la risurrezione è proprio in questo continuare caparbiamente a costruire le relazioni nelle comunità e anche con le altre, nonostante le tante difficoltà.

In Siria la Pasqua coincide con il quinto anno di guerra. Ieri i jihadisti del sedicente Stato Islamico (Is) e i miliziani del fronte Al-Nusra, legati ad Al-Qaeda, hanno preso il controllo della maggior parte del campo profughi palestinese di Yarmuk, nei pressi di Damasco. Il sito è stato bombardato nella notte dall'esercito di Assad. Almeno 13 i morti, secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani. Intanto 2 mila civili hanno evacuato questa mattina il campo. Alcune centinaia di palestinesi hanno manifestato nella Striscia di Gaza, per solidarietà contro l'occupazione di Yarmuk e hanno chiesto alla comunità internazionale di aiutare i civili. Intanto, le comunità cristiane, anche loro vittime della violenza dello Stato Islamico, vivono nella fede questo tempo di speranza. Ma qual è l’attuale situazione della Siria, sempre presente nei pensieri di Papa Francesco, e in particolare dei cristiani? Giancarlo La Vella lo ha chiesto a mons. Mario Zenari, nunzio apostolico a Damasco:
R. – Come si sa, la Siria è entrata – purtroppo – nel quinto anno di guerra civile e si sta vivendo una Via Crucis. Ora quello che pesa più di tutto è sapere a che punto siamo di questa Via Crucis: siamo all’ultima stazione, quella che precede la schiarita della Resurrezione, o siamo ancora magari alla quinta stazione della Via Crucis? C’è quest'aria che pesa e che ancora non fa intravedere la fine di questa Via Crucis.
D. – In questa situazione è possibile mantenere viva la speranza nella Resurrezione, ovvero in una pace che rappresenta ora il bene primario che porterebbe con sé – tra l’altro – una spinta per la soluzione di tutti gli altri problemi?
R. – I fedeli, qua, rinnovano la loro fede e, anche se diversi cristiani hanno preso la via dell’emigrazione, quelli che rimangono però dimostrano una fede forte: frequentano le chiese, frequentano in questi giorni le liturgie della Settimana Santa per invocare dal Signore il dono della pace, il dono della riconciliazione… Direi che la fede è sempre un grande conforto per i nostri fedeli e anche per il resto del Paese.

In Asia alcune comunità cristiane, come in Pakistan e India, celebrano la Santa Pasqua nel timore di attacchi e di attentati. In altri Stati, tra cui l’Iran, non è la sicurezza ad essere messa in discussione ma la libertà di evangelizzare, come sottolinea al microfono di Emanuela Campanile il direttore di AsiaNews, padre Bernardo Cervellera: 
R. - I cristiani in Iran vivono nella sicurezza. Non c’è terrorismo, non ci sono attacchi. Nelle loro chiese possono fare i loro riti. L’unico problema è che non hanno la libertà di evangelizzare. Diciamo che questo è il vero grande difetto e questo è il vero soffocamento di queste comunità. Però, devo dire che in confronto ad altri Paesi islamici dove i cristiani allo stesso modo non possono evangelizzare, però sono insicuri nelle loro chiese, la situazione iraniana non è così grave.
D. - Si registrano anche nuove aperture verso le comunità cristiane da parte del governo iraniano…
R. - Queste aperture e questa dialogicità con il cristianesimo da parte dell’islam sciita sta emergendo sempre di più adesso con Rohani. Ci sono stati periodi, invece, molto più difficili e molto più soffocanti. Tempi soffocanti non solo per i cristiani ma per tutta la popolazione iraniana.

Il tempo di Pasqua è segnato, in Africa, da situazioni profondamente diverse. In molti Paesi, il Continente africano offre esempi di convivenza pacifica che caratterizzano le diverse componenti della società. In altri Stati, tra cui - come ha ricordato il Papa nel messaggio Urbi et Urbi - la Nigeria, il Sudan, il Sud-Sudan e la Repubblica Democratica del Congo, la violenza sconvolge l’intero tessuto sociale, non solo le comunità cristiane. Ieri in Nigeria almeno quattro persone sono state uccise dai terroristi di Boko Haram in un villaggio vicino ai Maiduguri, nel nord-est del Paese. Ma come è vissuta la Pasqua in Nigeria e nel resto del Continente?  Emanuela Campanile  lo ha chiesto al direttore delle riviste delle Pontificie Opere Missionarie, padre Giulio Albanese:
R. - In Nigeria non è in atto una persecuzione contri i cristiani, anche perché i Boko Haram, numericamente parlando, hanno ucciso più musulmani che cristiani. I cristiani vengono colpiti in Nigeria, soprattutto nel nord est, ma anche in regioni più centrali come lo Stato del Plateau. Per quale motivo? Perché i Boko Haram sanno che quando colpiscono i cristiani è come se 'bucassero' lo schermo: quella notizia viene comunque ripresa dalle testate internazionali.
D. – C’è un'Africa che è di esempio o che ancora riesce a mantenere vive, con rispetto, minoranze religiose e cristiani?
R. – Ma c’è la stragrande maggioranza dei Paesi africani che, da questo punto di vista, ha la pagella in ordine. Io penso alla Tanzania, al Sudafrica, all'Angola, alla Sierra Leone, alla Liberia, alla Repubblica Democratica del Congo, nonostante le violenze in alcune zone. La lista è lunga. Devo dire che in Africa, da questo punto di vista almeno sul piano formale, non vi sono problemi di sorta. Certo, ci sono dei Paesi che sono purtroppo oggi target degli estremisti. Questo succede soprattutto nelle aree di crisi. Pensiamo alla regione settentrionale del Mali, l’Azawad, ma anche al Sudan e alla regione del Darfur, per non parlare della Repubblica Centrafricana, dove un certo jihadismo purtroppo ha seminato morte e distruzione.

In America Latina la Pasqua è anche l’occasione per riflettere sull’autentico significato della vita, sempre più minacciata da diverse forme di violenza. E’ quanto sottolinea al microfono di Amedeo Lomonaco il giornalista cileno della nostra emittente, Luis Badilla: 
R. – E’ una festa vissuta con grande allegria tant'è vero che nella tradizione nostra si dice che è la festa dell’allegria non solo perché è legata al Risorto ma perché è legata soprattutto al senso della vita. In America Latina, da tempo, da molti secoli, la festa di Pasqua di Risurrezione è vissuta appunto come la festa della vita, della vita che trionfa. E questo ha un grande significato perché un problema dell’America Latina negli ultimi decenni è che spesso il valore più offeso, per motivi diversi, è stata la vita, o per la tortura o per l’aborto, o per la fame…
D. – E quella di quest’anno è una Pasqua particolare soprattutto a Cuba…
R. – Quello che c’è di nuovo, di radicalmente diverso, è il clima che vive il Paese, dopo gli accordi fra il governo degli Stati Uniti e quello di Cuba in gran parte, per l’intervento di Papa Francesco. Accordi che hanno riaperto, con concretezza, molte speranze immediate e future, che consentiranno al Paese di cambiare soprattutto in meglio, lì dove i cubani negli ultimi anni hanno sofferto moltissimo. Parlo dell’economia, dei rapporti sociali interni, parlo in definitiva di un Paese, che nonostante Giovanni Paolo II aveva chiesto che si aprisse al mondo e che il mondo si aprisse a questo Paese, non era riuscito in concreto a trovare il cammino. Il cammino è stato trovato. Sono questi accordi e in questi accordi - che tanto voleva Giovanni Paolo II - è rilevante Papa Francesco.




Pasqua di dolore in Kenya, nel primo dei tre giorni di lutto nazionale per la strage di Garissa, dove giovedì scorso, come ha ricordato anche Papa Francesco nel messaggio Urbi et Orbi, i jihadisti di al Shabaab hanno ucciso 148 studenti, principalmente cristiani. Massima allerta in tutte le chiese del Paese, protette dalla polizia o da squadre di sicurezza private. La cattedrale della Santa Famiglia di Nairobi è difesa dai poliziotti  e sono stati installati dei metal detector. A Garissa la Pasqua è stata celebrata nella chiesa della Madonna della Consolazione, che era già stata colpita dai terroristi tre anni fa, quando morirono 17 persone. Centinaia i fedeli che hanno affollato la celebrazione, cantando e piangendo in ricordo di quanti hanno perso la vita. “Uniamo le sofferenze delle vittime e dei loro parenti alle sofferenze di Gesù. Le vittime risorgeranno con Cristo”, ha detto il vescovo coadiutore di Garissa Joseph Alessandro. “Non sappiamo chi sono i terroristi, potrebbero essere anche i nostri vicini”, ha commentato il presule. Un appello alle famiglie dei terroristi a collaborare con il governo per identificarli è arrivato ieri anche dal presidente kenyota Uhuru Kenyatta. In un messaggio rivolto alla Nazione, il presidente ha condannato il massacro di Garissa definendolo “un attacco contro l’umanità” e ha annunciato una caccia ai responsabili “non solo in Kenya, ma anche in Somalia”. Cinque gli arresti finora, mentre uno terroristi sarebbe figlio di un funzionario del governo. Al Shabaab ha fatto poi sapere su internet che “la guerra sarà lunga e terribile e i kenyoti saranno le prime vittime”. La strage, hanno detto i jihadisti legati ad al Qaeda, è stata un atto di ritorsione per i raid compiuti dalle truppe kenyane dell’Unione Africana in Somalia. Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha confermato il viaggio in Kenya per il prossimo luglio, mentre solidarietà è arrivata anche dal primo ministro britannico David Cameron. “E’ assurdo che nel 2015 ci siano ancora cristiani minacciati, torturati e perfino uccisi per la loro fede”, ha detto in un messaggio. (M.R.)Radio Vaticana, Radiogiornale del 5 aprile 2015.
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