Era un
brivido di freddo. Un tremito.
Le
mani, le sentiva chiuse. E lontane. Aprì gli occhi, di colpo,
pensando che, il solo fatto di aprirli, gli avrebbe impedito di
riaddormentarsi.
Il
lampione sulla strada, dietro la finestra, lasciata con gli scuri
aperti, mandava una luce tenue. Lontana.
Si
girò verso il comodino, a sinistra della testata del letto. La
sveglia con i numeri fosforescenti, e il becco giallo di Paperino,
segnava le tre e mezzo.
Mattia
richiuse gli occhi. Era troppo presto, per svegliarsi davvero. E
doveva riposare ancora. Era necessario, dormire ancora un po’.
Cercò
di non pensare a nulla. Cercò di lasciarsi libero, dall’impegno
che sapeva di avere, al mattino. Si abbracciò, sotto le coperte. E
chiuse gli occhi ancora più forte. Sentì il calore del suo volto,
sul cuscino. E ci si abbandonò, come ad una dolcezza inattesa.
Dormì, ancora.
Il mattino era scurissimo, non c’era il sole, in cielo. Anzi, il
cielo si era abbassato tantissimo. Dai vetri entrava un chiarore
lento.
Mattia
guardava la montagna, in fondo alla piana, oltre le rotaie della
ferrovia. Grandi braccia, alte, che racchiudevano alberi smozzicati,
crudelmente potati sui bordi della strada, i rami nuovi, ricresciuti
piccolissimi, dal tronco invece possente, e case improvvisate,
sparse. La cima ancora bianca di neve, e ampi spazi di terra e roccia
che riemergevano sommessamente dall’inverno; una piccola curva di
celeste, scurito dal buio, e, subito, il cielo di nuvole, grigio
coltello. Grigio soffitto basso, polveroso. Pesante, cattivo.
Come
fosse tutto compatto e quasi mischiato. Dalla terra al cielo senza
luce.
Era
quasi contento, Mattia, di quel mattino. Temeva più il caldo, che il
freddo.
E,
correndo, si sarebbe riscaldato.
Guardò
di nuovo la sveglia, sul comodino. Adesso erano le sette, e mezzo,
più o meno.
E si
sentiva sveglio. Agile. Le mani calde. Le apriva e chiudeva,
ritmicamente. Con un solo gesto si tolse le coperte di dosso, e si
alzò. Stropicciandosi gli occhi con le dita. La sua stanza, sembrava
acquistare luminosità, ora, con gli occhi sempre più aperti.
Mattia
si alzò dal letto, mettendo i piedi nudi direttamente sulle
mattonelle della sua stanza. Il riscaldamento, che scorreva sotto il
pavimento, le rendeva tiepide. Come una sabbia d’estate.
S’abbassò,
immediatamente, a guardare sotto il letto.
La
sera prima, prima d’addormentarsi, ci aveva nascosto una borsa.
Nella borsa c’erano gli scarpini da calcio. I calzettoni, i
pantaloncini, la maglietta della sua squadra.
Quella
che si erano appena fatti fare. Per non andare sempre in campo con
tutti i colori diversi. Così, finalmente, sarebbe bastato vedere un
lampo rosso correre, per passare la palla quasi ad occhi chiusi.
Rosse, e con il bordo del colletto, bianco, così avevano scelto di
farsi fare le magliette. La maglietta di Mattia, era la numero sette.
La
borsa era ancora lì, sotto il letto, rassicurante, piena di
asciugamani, e di promesse. E dell’odore del grasso, che aveva
spalmato sul cuoio delle scarpette. Di nascosto, ieri, dopo cena.
L’acqua
fredda sulla faccia, il latte caldo. Qualche biscotto.
- Mammaaaaa !! Esco…. –
- Dove vai Mattia ? –
- Un giro, Mamma, mi faccio un giro, e poi torno. Va bene ? –
- Va bene…. Vai…. –
Nella
cucina dell’ abitazione di Mattia, al Progetto C.A.S.E. di
Sant’Elia, la finestra, collegava direttamente sul ballatoio,
fuori dalla porta d’ingresso. Mattia la aprì. Senza farsi vedere
dalla madre, e poggiò la borsa che aveva sotto il letto, fuori, sul
cemento nudo del pianerottolo. La richiuse, e si diresse verso la
camera da letto della madre, che stava spolverando i pochi mobili
della stanza.
- Ciao Mamma… -
Le
diede un bacio sulla guancia, stringendole le spalle con un
abbraccio. Veloce.
- Ciao, Mattia …-
Era
diventato alto quasi quanto lei.
La
madre si toccò la guancia, la pelle ancora consolata del bacio del
figlio, e del leggerissimo accenno di peluria sotto le sue labbra.
Mattia
usci di casa, e subito raccolse correndo la borsa; corse per le
scale, aggrappandosi alla ringhiera di legno scolorito, sentendo il
vento freddo del mattino che entrava dai ballatoi affacciati sul
vuoto.
Arrivò
rapidamente al cortile, e, col passo veloce, risalì la stradina che
costeggiava la piattaforma su cui era poggiata la sua abitazione. E
si trovò sulla strada principale, che infilò subito a destra.
Tenendosi
la borsa attaccata al petto, in modo che nessuno potesse vederla,
dall’alto, mentre lui si allontanava da casa.
La
strada che stava percorrendo, era leggermente in salita e curvava
verso sinistra. Si alternavano vecchie case in pietre, e piccole
villette solitarie. Qualcuna in ristrutturazione, con una gru leggera
nel giardino, il cantiere quasi terminato. L’intonaco giallo.
Mattia
camminava svelto, quasi senza guardare nulla. I suoi occhi si
poggiavano sempre, però, sui piccoli alberi appena in fiore, dietro
i cancelli delle case, e, sul grande albero, ancora spoglio invece,
sul ciglio della strada, come a segnare un confine invalicabile al
cemento.
Proseguendo,
si aprivano le altre piattaforme del Progetto C.A.S.E.
Le
mura bianche. Pallide. I camper parcheggiati dentro gli spazi
bianchi, come se dovessero ancora rifugiare le persone, e la siepe
che aveva inghiottito, crescendo, completamente la panchina di
legno, vicino alla fermata dell’autobus. Lì gli alberi, erano
finissimi, ancora inscatolati, dentro leggeri tralicci di legno, che
dovevano sostenerne una crescita, stenta e dimenticata.
E
finalmente, si apriva, davanti agli occhi di Mattia, il largo.
Un
cartello alto, piantato su un palo, indicava che quello era il “
Campo S. Elia “, chiuso da una staccionata di legno invecchiato e
sconnesso dal tempo.
Bastava
passarci accanto, scivolando al fianco di quel cancello in mezzo al
nulla, e si entrava in una vasta area, leggermente in pendenza,
designata ad essere un campo di accoglienza, in caso di terremoto.
Quasi
totalmente brulla, e segnata, in alto, da un container prefabbricato,
chiuso e abbandonato.
Era
lì, il campo di calcio.
Bisognava
avvicinarsi per capire che le pietre poggiate a terra, in equilibrio
instabile, le une quasi di fronte alle altre ad una distanza di una
cinquantina di metri tra loro, erano le porte. E quella specie di
curva spezzata, incisa nella terra, in mezzo ai ciuffi di erba
marrone d’inverno, era il cerchio del centrocampo.
La
linee laterali, e di fondo, erano immaginari segni, che tracciavano
l’aria, seguendo il bordo di alberi lontani, e di altre pietre
piatte, e biancastre, poggiate a terra, a segnare i punti, da dove si
battevano i calci d’angolo.
Ed era
lì, che, alle nove del mattino, sarebbe iniziata la finale del
torneo. Tra la squadra di Mattia, e quella dei ragazzi di Sant’Elia,
che non abitavano al Progetto C.A.S.E.
Iniziava
ad arrivare gente. Ragazzi, e qualche ragazza. Tutti si andavano a
mettere in alto, vicino al container, che un po’ proteggeva dal
vento che portava fin laggiù l’odore della neve del Gran Sasso, il
sapore del ghiaccio del frigo.
Erano
tutti insieme ora, i ragazzi della squadra di Mattia. In fondo al
prato. Vicino ad una delle porte.
Mattia
si sfilò i pantaloni della tuta, e rimase in calzoncini corti. Le
gambe nude, già rosse di freddo. Prese dalla borsa le scarpe coi
tacchetti e le mise ai piedi, alzandosi, subito, per calpestare il
terreno, sbattendo i piedi, forte, a terra. Per segnare la sua
presenza, e sentire quanto duro, sarebbe stato correre.
Erano
tutti insieme, in silenzio, e si guardavano. Per arrivare fin lì,
avevano vinto tre partite di seguito, e ora, volevano vincere anche
l’ultima, per togliersi il groppo che sentivano in gola. I denti
stretti, mentre guardavano dall’altra parte del campo, i loro
avversari. Che sembravano altissimi.
Otto
contro otto.
E
senza arbitro.
La
palla faceva rimbalzi strani sul terreno. Seguiva l’estro di sassi
e buche. E anche fermare la palla che arrivava rasoterra, era quasi
un’impresa.
Verso
la fine del primo tempo Ismail calciò una palla fortissimo,
respingendo un attacco in massa, dalla difesa verso la porta
avversaria, quasi nel deserto.
Mattia,
corse dietro la palla. Più correva, e più sentiva il petto
riempirsi di fatica, e mancare d’aria. Non c’era pensiero, in
quella corsa. Solo la bocca aperta ad ingoiare polvere e sudore.
Inseguito, Mattia, da uno dei ragazzi più forti della squadra
avversaria. La palla rimbalzava a terra, schizzando in avanti, mentre
si avvicinava alla porta degli altri.
Ci
arrivò, Mattia, alla palla. Il tempo di fermarla un istante col
piede sinistro, riportandola, indietro. Quasi innaturalmente, come un
fulmine che si fermi a mezza’aria. Il ragazzo della squadra
avversaria continuò a correre, verso il fondo della propria area,
quell’istante in più, in cui la palla tornava invece indietro, e
Mattia la colpiva, di destro, forte.
La
palla passò tra le mani del portiere della squadra avversaria.
Era
uno a zero.
Mattia
restò con la testa bassa, e quasi un’onda di lacrime, dentro.
Mentre tutti urlavano verso di lui. Non alzava, lo sguardo, Mattia,
per vedere se Daniela era lì, a guardare la partita.
Cambiarono
di campo, nella ripresa.
Mentre
il cielo iniziava a cadere qualche goccia d’acqua pesante.
Subivano l’attacco continuo degli altri, che però non riuscivano a
rendersi davvero pericolosi. Fin quando Mattia riprese un passaggio
sbagliato di quelli con le magliette e i pantaloncini tutti bianchi,
e si allargò un attimo a sinistra, giusto in tempo perché i tre
difensori che aveva davanti, seguissero il movimento della palla,
come uno stormo che si sposta attaccato da un falco. E Mattia vide
invece lo spazio che si era fatto, a destra, e lì calciò, forte.
La
palla colpì il palo fatto di pietre, facendole cadere in terra, ma
rimbalzò nettamente dentro la porta avversaria, senza che il
portiere potesse accennare un solo movimento. E senza che nessuno
potesse contestare la chiarezza del gol.
Negli
occhi di Mattia, rimaneva l’angolo, disegnato dalla palla
rimbalzando, fermo. Come una corsa di luce che aveva lavato la terra
nera.
Le
mani, alte, al cielo, correndo, tutti, insieme.
Quando
la partita finì. E i salti abbracciati, urlando, senza più fatica,
senza dolore sul sangue annerito, rappreso, delle ginocchia, o delle
mani, cadute correndo.
Il
campo, adesso, sembrava più piccolo, e faceva caldo. Mentre infilava
di nuovo i pantaloni della tuta, e le scarpe da ginnastica. E la sua
maglietta rossa, sporca, numero sette, la piegava dolcemente, per
riporla nella borsa. Nelle orecchie, il vento sembrava un toro che
passasse in mezzo ai rami, scuotendo i sassi intorno. Non riusciva a
dire una parola Mattia.
La
vittoria. Con due gol suoi.
Senza
accorgersene, si ritrovò davanti alla porta di casa, e suonò.
La
madre sorrise vedendolo. E lasciandolo rientrare, spostandosi.
Si
spense il sorriso, sul volto della madre di Mattia, guardandolo bene.
Scapigliato e sudato. La borsa in mano.
Senza
parlare, la madre strappò la borsa dalle mani di Mattia, la poggiò
sul tavolo della cucina e l’aprì. Dentro vide le scarpe infangate,
e la maglietta.
Mattia
sentì lo schiaffo sul volto. Forte. Che quasi gli fece girare la
testa. Il dolore, gli levava il fiato.
Andò
incontro alla madre, l’abbracciò. Con tutta la forza che aveva
addosso, bloccandole le braccia e unendo le mani, strette, forte,
dietro la schiena di lei. La fronte bassa, poggiata nell’incavo tra
il collo e la spalla e iniziò a parlare Mattia, piano.
Ingoiando
le lacrime, libere, dagli occhi.
- Mamma. Lo so.
Lo so che oggi sono sei anni che papà è morto. Quella notte.
Lo so.
Lo so che papà da quella notte, non c’è più. Ogni giorno, non
c’è più. E oggi sono proprio sei anni.
Io, per ricordarmi bene papà, devo guardare le sue foto. Lo sai,
mamma ?
E, siccome non me lo ricordo più, bene, mi sembra di trattarlo male.
Mi sembra di disobbedirgli. E sono triste, quando ci penso.
Però io ci giocavo, a calcio, con lui.
E io lo so che non s’arrabbia, se oggi ho giocato la finale.
Abbiamo vinto, mamma, e io ho segnato due gol. Mamma.
E c’eri anche tu, sul campo, con me, mamma. E mi davi forza, tu
mamma.
Io lo so.
Mamma. –
Luigi Fiammata