Presentazione: ripartire dall’anima mediterranea, trasformando la leadership in arte della guida
Il contesto richiede forti cambiamenti
Non possiamo risolvere i nostri problemi con il pensiero
che avevamo quando li abbiamo creati (Albert Einstein)
Tutto scorre! Il detto eracliteo non è mai stato così attuale. Nella sua forma originale, citata da Plutarco, recitava però: “nello stesso fiume non è possibile entrare due volte”, ma è stata la volgarizzazione di Platone che ha preso piede mediatico per la sua sintesi e memorabilità: «Dice Eraclito “che tutto si muove e nulla sta fermo”» (Cratilo, 402a).
Nel tempo presente, il letto del fiume evocato da Eraclito sta ulteriormente restringendosi, accelerando ancora di più la velocità del cambiamento.
Alle drammatiche trasformazioni causate dal Covid che stiamo ancora comprendendo (una per tutte, gli impatti del “long CoVid” sulla salute), si sono sommate altre “piaghe” che la modernità sta causando alla natura e che non ci abbandoneranno presto: inquinamento, sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, monoculture agricole e allevamenti intensivi.
E poi c’è l’innovazione tecnologica continua e in particolare la rivoluzione digitale, dei dati e dell’IA, che tende a trasformare non solo il nostro agire ma anche come noi osserviamo e comprendiamo il mondo che ci circonda … e noi stessi.
Ma oltre a ciò cambia anche l’assetto geopolitico del mondo, si complica il commercio internazionale, aumentano i flussi migratori e la popolazione continua a invecchiare.
Emerge allora una vera e propria poli-crisi: alle trasformazioni sopra citate si affiancano anche il cambiamento climatico, la crisi energetica, l’emergenza sanitaria (oltre e a valle delle pandemie), e il progressivo depauperamento delle risorse idriche e alimentari… per non parlare del crescente disagio sociale e delle implicazioni delle guerre sotto casa.
E quindi cogliere il cambiamento non è più un’opzione: è una necessità.
La questione è piuttosto come cambiare: guidare il cambiamento o esserne travolti?
Lo dice bene il filosofo e sociologo Edgar Morin: «Ciò che non si ri-genera, de-genera». Anche stando fermi, non facendo nulla, cambiamo rispetto al contesto e rischiamo di degenerare.
Per questi motivi abbiamo pensato a questo libro, che nasce pertanto dal desiderio di riflettere sull'arte della guida: la capacità di intuire, ascoltare, comprendere, vedere, decidere, attivare.
Intendiamo mettere in discussione l’adeguatezza dei modelli di leadership prevalenti – soprattutto quelli anglosassoni, ormai consumati – e creare le condizioni per far emergere nuove modalità di pensiero e di azione, più adatte alle sfide che la trasformazione del contesto ci impone.
E il tema affrontato non si limita all’ambito aziendale della leadership e delle dimensioni della governance: ha un’aspirazione più alta, soprattutto in tempi di crisi e di metamorfosi problematiche. Orientare e accelerare la trasformazione della società stessa.
Juan Bonifacio, un gesuita della prima ora, nativo di Salamanca e uno dei più importanti educatori dell’ordine, aveva coniato una massima per il suo operato, diffondendola nel suo opuscolo sulla formazione del 1575: «Puerilis institutio est renovatio mundi», la formazione della gioventù trasforma il mondo.
L’educazione era infatti il modo più efficace e rapido (e forse l’unico) per nutrire la pianta di una nuova società e accelerarne il cambiamento.
In tempo di crisi e di profonde trasformazioni è necessario pertanto ripartire dalla formazione della (nuova) classe dirigente per metterla in condizione di affrontare le sfide. Gli strumenti utilizzati devono perciò essere adeguati alle sfide del tempo e adatti alle capacità dell’essere umano di assorbire e fare proprie le trasformazioni.
La cassetta degli attrezzi dei manager va pertanto riletta con una spinta progettuale, basata però su un solido spirito critico. Come ci ricordava Einstein in una delle massime citate, non si possono infatti risolvere i problemi con la stessa mentalità e capacità presenti quando sono stati creati … ma, nel contempo, l’innovazione-a-tutti-i-costi che esce dall’alveo della tradizione e dai processi di adozione non li risolve ma ne aumenta entità e complessità.
In Alaska ci saremo solo io e Putin (Donald Trump)
I miti creati dalle Business School di stampo anglosassone – alimentati dai valori della tradizione puritana – hanno oramai esaurito la loro potenza narrativa e la loro efficacia attuativa.
Il management scientifico e l’ossessione per il dato (che ha marginalizzato intuizione e fattori umani), il taylorismo (che ha sacralizzato standardizzazione ed efficienza), la crescita-dimensionale-a-tutti-i-costi (che non può adattarsi a tutti i contesti e tutte le tipologie aziendali), l’innovazione disruptive (che sconquassa, tagliando i ponti con il passato, e rischia di trasformarsi da mezzo in obiettivo fine a se stesso), l’internazionalizzazione sfrenata (non solo commerciale ma anche produttiva … che ha fatto riemergere l’orgoglio identitario e nuove forme di sovranismo), l’iper-finanziarizzazione (che ha promosso i dividendi a indicatore principale del valore di un’azienda) e la bellezza considerata lusso e spreco, stanno infatti mostrando il fianco e in molti casi stanno diventando svantaggi competitivi.
Non possiamo non constatare che viviamo in un’economia che trasforma ogni bisogno in merce. Il luogo di lavoro diventa un’anonima sommatoria di PdL (postazioni di lavoro) definite esclusivamente dalla loro metratura e dalla strumentazione necessaria; persino l’abitare è sottoposto a una trasformazione radicale di senso.
Se tutto è rendita, profitto, risultato, dato tangibile, cosa resta della creatività e dell’immaginazione umana?
Domina un’accezione di economia onnipotente, che può permettersi di non fare i conti con il limite, padrona di tecnologie in grado di mitigare gli effetti indesiderati e collaterali dello sviluppo. Un’economia che ha pensato di poter liberare l’uomo da ogni senso di responsabilità verso le risorse di cui egli stesso vive: suolo, acqua, aria.
Entro questa visione la crescita illimitata diventa l’obiettivo a cui tendere, senza curarsi del limite, del proprio impatto, dei costi sociali e ambientali. Un gigantismo che non perdona il piccolo (interdetta è la piccola dimensione, che va inglobata in quanto inutile al sistema), lo sperimentale, quello che si cura del contesto e della crescita anche delle persone.
E soprattutto, che non perdona il bello.
Sembra paradossale ma la bellezza (l’attenzione al luogo, al design, alla dimensione profondamente spirituale delle cose di cui vogliamo circondarci) è derubricata a vezzo intellettuale. Le forme più intransigenti del protestantesimo hanno anche fomentato un’ondata iconoclasta contro l’uso e il culto delle sacre immagini e questa osservazione non è nostra ma viene dall’Etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber, un libro tanto fondamentale quanto troppo spesso dimenticato.
Antonio Spadaro nella sua prefazione, riassume la questione con una sintesi perfetta: «Il Mediterraneo, dunque, non è un simbolo identitario da difendere. È un metodo. È un modo di stare al mondo generativo grazie alle differenze e alle opposizioni polari che generano questo spazio riconosciuto come “nostro”. Ed è il contrario del modello anglosassone dominante: performativo, astratto, accelerato, ossessionato dalla misurazione e dalla scalabilità. Il modello che ha colonizzato le business school, gli algoritmi, i manuali. E che oggi mostra tutti i suoi limiti. Perché quel modello è diventato disfunzionale. Produce disconnessione, non connessione. Produce ansia, non visione. È fondato su una concezione tecnocratica e puritana del potere che ignora la bellezza, il limite, il radicamento.»
A questa crisi fondativa delle business school e del modello implicito di leadership che viene da lì costruito e propagato, si sta aggiungendo – grazie alla nuova leadership americana (Trump, Vance, Hegseth, Musk, Bezos, Zuckerberg, Cook…) – il dissolvimento del soft power statunitense. Le evidenze sono numerosissime, ma forse la più autentica è la dichiarazione di Trump nel pieno della guerra dei dazi da lui scatenata nel mondo: «I’m telling you, these countries are calling us up, kissing my ass. They are. They are dying to make a deal.» Peraltro, anche gli attacchi al cuore del sistema accademico liberal e multi-culturale degli Stati Uniti sono emblematici: uno per tutti le “multe” di oltre 700 milioni di dollari imposte ad Harvard e Columbia University per la loro eccessiva indipendenza e tolleranza verso punti di vista non allineati con il pensiero di Trump.
Il Mediterraneo è un dispositivo per creare civiltà (Paul Valéry)
Osserva ancora Antonio Spadaro nella sua prefazione: «oggi la parola “leadership” è ovunque, ma la sostanza è introvabile. È diventata un mantra vuoto, una formula da keynote aziendale, una voce nei CV. Ma intanto, nella realtà, assistiamo alla dissoluzione della guida: nelle imprese, nelle istituzioni, nella scuola, nella politica. Abbiamo leader, ma non abbiamo più guide.»
Guide capaci di sfuggire alle gabbie delle opposizioni nette e di generare senso nei passaggi liminali; guide capaci di «assumere la complessità come materia prima. Riconoscere che la realtà non è riducibile a numeri o indicatori, che i contesti contano, che i corpi sentono, che le parole pesano»; guide che non precedono ma accompagnano, che non trascinano ma aprono sentieri; e che «non c’è guida senza un’etica della presenza, senza una politica dell’ascolto.»
Per rigenerare l’arte della guida bisogna innanzitutto rafforzare e soprattutto riorientare alcune competenze chiave, facendo leva sulla loro matrice mediterranea, processo che va visto come una integrazione e completamento delle competenze e attitudini previste dai modelli mainstream.
Sarebbe ingenuo pensare che queste competenze – da sole – rendano possibile l’arte della guida. D’altra parte, però, senza queste ulteriori capacità (intese anche – come nel caso della parola o dell’innovazione – come differenti modalità per definirle, coltivarle e usarle) l’arte della guida sarebbe incompleta, zoppa e quindi alla lunga inefficace.
Lo spazio dell’articolo non consente gli approfondimenti necessari, per i quali rimandiamo al libro. Può però essere utile una visione di sintesi che richiama i suoi pilastri e fondamenti e mette in luce le cinque competenze chiave.
RIPARTIRE DALLA SAPIENZA
Where is the life we have lost in living?
Where is the wisdom we have lost in knowledge?
Where is the knowledge we have lost in information?
(T. S. Eliot, The Rock, 1934)
Una delle ipotesi del libro è che la sapienza, soprattutto quella nata fra le sponde del Mare nostrum possa essere un antidoto – o meglio, un pharmakon – per riparare l’attuale arte del governo e proteggerla dalle derive tecnocratiche di una tecnologia sempre più potente e invadente.
Se vogliamo entrare un poco di più nei meandri della Sapienza, non possiamo prescindere dal primo libro a lei dedicato: il Libro della Sapienza attribuito a Salomone.
Efficace la riflessione che fanno due gesuiti, Sergio Corradino e Giancarlo Pani: «la ‘sapienza’ è l’arte di costruire la propria vita, detta i criteri che consentono agli uomini di fare della propria esistenza un’‘opera d’arte’. Pertanto, comporta l’intelligenza delle cose umane, la conoscenza dell’esperienza degli antichi, i consigli per vivere bene ed essere felici. Inoltre la ‘sapienza’ può essere un antidoto alla tecnica imperante, per fare in modo che lo sviluppo tecnico rimanga umano».
Vi è anche una dimensione corporea, quasi viscerale della sapienza. La sua etimologia, infatti, è legata al sapore: sapidus … Osserva a questo proposito Anselm Grün: «il sapiente ha sviluppato buon gusto per l’essenziale, ha gusto per il bene e il bello, per ciò che all’uomo fa veramente bene. Egli conosce anche il sapore del male. Per i Padri della chiesa il male ha sempre un sapore cattivo e amaro» (Leadership con valori). Una riproposizione moderna di una potente intuizione di Ignazio di Loyola presente nei suoi Esercizi Spirituali: «non è il molto sapere che sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e gustare le cose internamente».
Inoltre, la sapienza è la dote che generalmente accompagna l’operatore di pace; per questo può diventare l’antidoto più efficace contro l’intolleranza e l’odio. È qualcosa di più dell’intelligenza, che può sempre essere usata per compiere il male. Osserva infatti Robert Sternberg: «le persone intelligenti possono odiare, quelle sagge no. Persone come Gandhi, Martin Luther King, Madre Teresa e Nelson Mandela condividevano le nostre stesse passioni umane, ma grazie alla saggezza sono riuscite ad andare oltre l'odio per abbracciare l'amore e la pace».
Ma perché una civetta?
La civetta è nella cultura greca simbolo di sapienza e di saggezza: il suo volto rotondo con dei grandi occhi e un becco adunco fanno intravedere la forma della lettera phi, la prima della parola greca philosophia, la filosofia intesa come amore per la saggezza.
La sua forza, che deriva dal suo essere un uccello notturno, è il saper vedere prima degli altri, quella preveggenza che non deriva dal caso o dall’azzardo, né dallo scrutare artifici – siano essi gli astri, le interiora di alcuni animali, il volo degli uccelli o un semplice oroscopo – ma da una vera e propria arte di sondare le tenebre, sia quelle che ci circondano ma anche quelle che avvolgono l’animo umano, e di saperne trarne indicazioni e suggerimenti utili e applicabili. La forza di predire, ovvero capire e dire prima degli altri, mentre tutti dormono, o se ne stanno muti perché incapaci di comprendere. Questo è dunque il compito della civetta, il rapace che riesce a vedere ed agire anche nel buio della notte; e questo è il compito della filosofia, che ci ricorda che solo dal tramonto può sorgere la luce. Senza il buio la luce non può illuminarci.
La civetta richiama un sapere che va oltre la mera razionalità e il calcolo algoritmico; un sapere che attraversa l’ambiguità, che riconosce i limiti, che accetta la parzialità della conoscenza che talvolta si trasforma addirittura in contraddizione, coincidentia oppositorum. Un sapere che riporta l’essere umano al centro e le macchine e la potenza della tecnica a strumenti, seppur potentissimi, che si giustificano solo se al servizio del bene comune e dell’umanità.
È infatti l’uccello fedele di Atena/Minerva, dea della sapienza: una sorta di logo della sapienza mediterranea.
Ci ricorda Andrea Marcolongo nel suo Alla fonte delle parole. 99 etimologie che ci parlano di noi che «Atena aveva fiducia solo dei responsi della civetta, di cui conservava negli occhi lo sguardo trasparente (glaukos)»; uno sguardo capace di «accettare le tenebre della vita», senza fuggirle, e di rintracciarvi il senso profondo del nostro esistere. Non a caso glaukos (trasparente in greco) deriva dalla stessa radice di glaux (civetta in greco).
OLTRE LA CONOSCENZA, LA TECNOLOGIA E I DATI
Any sufficiently advanced technology is indistinguishable from magic
(Arthur C. Clarke, Le tre leggi della tecnologia)
Odisseo sconfigge la forza bruta di Polifemo con la sua metis, una serie di astuzie che rimandano agli elementi costitutivi della civiltà umana:
• il vino puro con cui l’eroe ubriaca il Ciclope;
• il bastone di olivo lavorato e appuntito al fuoco con cui lo acceca;
• l’astuzia verbale, che gli fa cambiare il suo nome in Nessuno.
È un esempio di applicazione potente della metis – il cui appellativo è anche intelligenza ritorta e mimetica – capace di generare nell’antagonista stupore inatteso, meraviglia, spiazzamento e talvolta arriva addirittura a stordirlo.
Non possiamo più, infatti, attingere solo dalla ragione, dal logos: la componente razionale e algoritmica non basta per cogliere la realtà nella sua pienezza e complessità. Serve altro. La complessità richiama la molteplicità – di competenze necessarie, di scenari possibili e di combinazioni generabili con quanto già sappiamo – e questo è il regno della metis.
Ma l’applicazione più potente della metis è il contrasto della forza bruta e della violenza selvaggia. Il mito greco lo descrive nello scontro fra il possente Amico, re Dei Bebrici, e Polluce. Violando le regole dell’ospitalità, Amico obbliga gli Argonauti appena sbarcati sulle sue terre a un incontro di lotta. Accetta il confronto Polluce, e il re dei Bebrici cerca subito di fargli paura, ma Polluce si prepara e scalda i muscoli secondo l’usanza greca, mentre Amico resta immobile a osservarlo e minacciarlo, sopraffatto dall’ira e dalla brama di vittoria.
Poi inizia ad attaccare senza sosta ma alla cieca, nell’intento di ucciderlo; Polluce gli contrappone invece tecnica e abilità – techne e metis – che gli permettono di schivare i colpi e di cogliere il momento opportuno (kairos) per agire: dopo aver infatti compreso le mosse del nemico, l’eroe riesce a colpirlo all’orecchio, spezzandogli il collo.
La metis è molto più che conoscenza codificata; è un’abilità divergente che va oltre la forza cieca della finanza, della potenza di calcolo, dei big data, dell’Intelligenza artificiale. E ciò grazie anche alla sua importante componente femminile.
La tessitura, l’attività femminile per antonomasia nella Grecia classica, deve essere eseguita con la metis, che consente alla tessitrice di intrecciare sapientemente il filo dell’ordito con quello della trama.
Nel caso di Penelope, il sapere femminile della tessitura diventa per lei strumento di azione, arma di inganno per fermare il tempo. Grazie alla metis, la tessitura esce quindi dai confini e dagli scopi assegnati dalla tradizione, diventa competenza da mettere in campo per difendere i valori propri del matrimonio e del focolare domestico.
La lavorazione dei tessuti prevede in realtà due operazioni: la filatura, vale a dire la separazione di un filo dal groviglio della lana, e poi la tessitura vera e propria, consistente nel tendere il filo nell’ordito e intrecciarlo quindi con la trama.
Si tratta di operazioni che seguono due differenti schemi mentali – prima separare e isolare, poi mettere insieme e assemblare – e che richiedono pertanto un’intelligenza composita e sofisticata.
E anche la codifica e l’uso della metis richiede forme più elaborate di comunicazione. La lingua padre è quella delle professioni, delle istituzioni, della scuola, della sfera pubblica. La lingua madre, invece, è la lingua affettiva, quella imparata in casa, quella che dice le sfumature del nostro sentire.
La madre, infatti, non insegna parole, ma comunica attraverso parole, che vengono accompagnate da inflessioni della voce e gesti, umori, tensioni differenti. Con le parole della lingua madre viene comunicata la storia familiare, l’origine, i tratti salienti del contesto in cui il bambino nasce e cresce e si possono esprimere e comunicare i contenuti emotivi più forti, quelli delle grandi gioie e dei grandi dolori, quelli delle passioni e degli eventi più significativi della vita.
Infine, la lingua madre – sia essa parlata o scritta – si aspetta una risposta. È una conversazione, che nella sua stessa radice contiene la possibilità di “trovarsi insieme”. La lingua madre è un linguaggio inteso non come mera comunicazione ma come relazione, come rapporto. Crea un legame.
NON UNA CONCLUSIONE MA UN INIZIO
Ritiratevi in voi, ma prima preparatevi a ricevervi:
sarebbe una pazzia affidarvi a voi stessi, se non vi sapete governare
(Michel de Montaigne, Saggi, I, xxxix)
Il percorso per affrontare il cambiamento è appena iniziato. Una cosa è certa: senza guide autentiche e rigenerate sarà molto difficile affrontare un contesto così differente, imprevedibile e in continua trasformazione, e non si tratterà solo di decidere, comandare e controllare, ma anche di rischiare, discernere, orientare, motivare, riparare, sperimentare.
E la rigenerazione non può che partire da un atto di consapevolezza del leader stesso e dal suo necessario e naturale senso di inadeguatezza rispetto alle sfide che dovrà affrontare.
Serve infatti un profilo del leader molto più ampio rispetto a quelli a cui siamo abituati: multi-disciplinare e multi-culturale, denso di valori, aperto anche alle novità spiazzanti e purpose-driven. Che richiede com-prensione ma anche accettazione dell’ambiguo, pacatezza ma anche coraggio, intransigenza ma anche tolleranza, sguardo fact-based ma anche intuizione e ispirazione.
Perché il cuore «ha delle ragioni che la ragione non ha» (Blaise Pascal, Pensieri, 477). Il cuore sa cioè ragionare mentre la ragione è senza cuore. Ma soprattutto perché è il grande segreto che la volpe comunica al piccolo principe: «Ecco il mio segreto. È molto semplice: si vede bene solo con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi.»
Elena Granata e Andrea Granelli
Il libro:
Elena Granata e Andrea Granelli, “Anima mediterranea. La leadership come arte della guida”, Luca Sossella Editore, 2025



