di Giovanni Zambito - Dopo il successo della tournée invernale, Cinzia Leone torna sul palco con lo spettacolo Mamma sei sempre nei miei pensieri… spostati!, in scena domenica 10 agosto 2025 alle ore 21.15 presso la suggestiva Fortezza Medicea di Siena e il 12 agosto a Calvi dell'Umbria. Scritto a quattro mani con Fabio Mureddu, lo spettacolo è un ironico e toccante monologo che intreccia comicità e introspezione, scavando nel legame più profondo (e ingombrante) che esista: quello tra madre e figlia. Tra battute fulminanti e confessioni personali, Cinzia Leone conduce il pubblico in un viaggio che parte dal cordone ombelicale per arrivare alla scoperta di sé, passando per gastriti, telefonate surreali e retaggi emotivi transgenerazionali. Il risultato è uno spettacolo dove si ride tanto, ma si riflette altrettanto, e dove la voce dell’amore materno convive con le sue nevrosi.
Fattitaliani ha intervistato l’attrice alla vigilia dello spettacolo senese per parlare di madri, teatro, ironia e identità.
C'è stato un episodio preciso che ha messo in moto questo spettacolo,
questo titolo? Una telefonata vera, autentica?
Sì,
sì. Non avrei mai capito il senso di quello che mi veniva detto in terapia, se
non fosse stato per quell'episodio. È proprio da lì che è partito tutto. Un
episodio preciso che mi fece ridere, e chiaramente quando uno ride è perché ha
capito, altrimenti non riderebbe.
Così
anche io ho capito, grazie a me stessa che me lo sono spiegata. Mi sono fatta
ridere da sola. Io ho vissuto con una mamma che arrivava alla paranoia per le
briciole e le gocce d'acqua per terra, soprattutto per queste ultime. Diceva
sempre: "Prendete un bicchiere, ma mettete un piatto sotto per non far
cadere l'acqua". Aveva delle teorie stranissime, tipo il lavandino
asciutto. Io sono stata talmente massacrata da questa cosa che ho sempre
pensato: quando andrò a vivere da sola, ci saranno per terra secchiate d'acqua,
come forma di libertà.
Ero
adulta, vivevo già da sola, un mio amico viene a cena e mentre stiamo mangiando
mi dice: "Cinzia, non ti preoccupare, poi i piatti li faccio io". Io
schizzai dalla sedia gridando: "No! Che poi fai tutte le gocce
d'acqua!". A quel punto, il mio amico, che sapeva della storia, si alzò,
mi mise le mani sulla testa come un esorcista e disse: "Mamma di Cinzia,
esci da questo corpo! Liberala!". Io scoppiai a ridere. Lui anche. E io
pensai: questo sarà il mio prossimo spettacolo.
Il
titolo non arrivò subito, lo cercai. Poi, una mattina, misi insieme tutta una
serie di pensieri, e venne fuori: Mamma sei sempre nei miei pensieri...
spostati!. Nel senso che non è "ti penso sempre, mamma", certo
che ti penso, sei la persona più importante, mi hai dato la vita. Ma proprio
per questo, non puoi occupare tutti i miei pensieri, devo capire chi sono io,
oltre te.
Quindi una forma di liberazione interiore?
Esatto.
Non è una ricerca di colpe. È consapevolezza. A un certo punto della vita
dobbiamo imparare a capire chi siamo veramente, al di là di quello che ci è
stato trasmesso. Mia madre era ossessionata dall'onestà. E io la ringrazio per
questo. Ma ci sono altre sue ossessioni che non erano mie. Io ho dovuto
affrontare un conflitto interiore per capirlo. E la risata mi ha aiutato a fare
un passo indietro e vedere le cose con lucidità.
Nel tono dello spettacolo si mescolano ironia e verità. Quanto c'è di
autobiografico?
Certo
che c'è tanto di mio. Attraverso la mia esperienza personale racconto un
passaggio che riguarda tutti. Molti dicono: "Io sono l'opposto di mia
madre". Ma non è vero. Siamo identici, ma non lo sappiamo. Viviamo in
opposizione, in reazione a loro, e così facendo ripetiamo i loro schemi senza
rendercene conto. Anche mia madre, che è stata abbandonata da piccola, mi ha
trasmesso, senza volerlo, i vuoti affettivi che lei ha subito. Non per
cattiveria, ma perché conosceva solo quello.
Quando parli di "mammità", cosa intendi esattamente?
È
tutto ciò che mamma rappresenta. Non solo l'amore assoluto. La mammità è il
bagaglio con cui entriamo nel mondo. Spesso più suo che nostro. Perché ancora
non sappiamo chi siamo. La mamma ci cresce con i pensieri che a sua volta ha
ricevuto. Mia madre è nata in un paesino della provincia di Cremona,
abbandonata da mia nonna che andò a farsi una famiglia regolare a Milano.
Questo lascia segni. Io l'ho persa da pochi giorni. E sto attraversando il
lutto. Il dolore va vissuto. Quando lo attraversi, lo riconosci, e diventa una
risorsa.
Attraverso la scena, hai portato questo bagaglio familiare e personale
a teatro. Che cosa hai scoperto, anche sul femminile, durante questo processo?
La
cosa più importante che ho scoperto è che il femminile agisce per
identificazione. Mia madre aveva con mio fratello un rapporto meno
conflittuale. Perché in me vedeva inconsciamente sé stessa, la figlia
abbandonata. E non era un processo razionale. Le sue indigestioni, per esempio,
erano un sintomo di dolore mai elaborato. Il mio compito è stato capire e, se
possibile, difendermi da quei vuoti affettivi.
La mamma che chiama in continuazione è reale o è un espediente
teatrale?
La
telefonata nello spettacolo è una scelta drammaturgica. Mia madre non mi
chiamava così. Ma quella voce registrata mi permette di dare corpo al rapporto,
di farlo vivere.
Come fare a trovare un equilibrio fra gli elementi che compongono lo spettacolo in termini di umorismo, riflessione, leggerezza, profondità?
L'ho
scritto con Fabio Mureddu, con cui ho condiviso altri spettacoli. La comicità è
il mio strumento. Senza di essa non so se sarei sopravvissuta ai miei dolori.
Ho una sensibilità altissima, patologica a volte. Se non avessi avuto l'ironia,
mi sarei persa nei dolori del mondo. La comicità mi salva, mi permette di
elaborare. L'espediente delle telefonate è stato fondamentale per raccontare
quella madre che mi entrava nella vita non per invaderla, ma per cercare un po'
di sicurezza. Non per egoismo, ma per bisogno.
Nello spettacolo si ride, ma ci si riconosce. È questa la chiave del
successo?
Sicuramente.
Mamma riguarda tutti. E alla fine, lo spettacolo è commovente. Il pubblico è
colpito soprattutto dal finale, dove c'è la rivelazione: scremare i pensieri
ricevuti, capire quali sono i tuoi. Mia madre era diffidente nei rapporti
umani. Io ho cercato di imparare a non esserlo. Perché quella diffidenza era la
sua storia, non la mia.
Questo spettacolo prosegue un percorso artistico in cui hai spesso dato voce a donne ironiche, feroci, vulnerabili. Ti ci riconosci?
Assolutamente
sì. Ho iniziato facendo parodie di personaggi femminili pubblici, ma non erano
caricature. Erano letture interiori. Anche Edwige Fenech, ad esempio, l'ho
ritratta come una donna che aveva trovato una nuova dimensione, lontana dal
passato dei film sexy. Le mie "imitazioni" erano sempre costruite su
un'idea forte, mai sulla sola voce.
I filmati di scena che ruolo hanno rispetto alla parola?
Sono
stati girati da Franco Bertini, ma sono ideati e scritti da me, insieme a Fabio
Mureddu. Servono a raccontare anche il lato commerciale e culturale della
figura materna: dal pannolino alla gastrite. È un modo per mostrare come
l'amore si tramanda anche attraverso le nevrosi.
Cosa ti aspetti che il pubblico si porti a casa?
Io
non mi aspetto nulla. Io mi do completamente. Voglio solo comunicare. Se
durante lo spettacolo cade una moneta, mi inginocchio con chi l'ha persa per
raccoglierla. Tutto è vita. Tutto è teatro. Io parto sempre dalla platea. Entro
da dove sta il pubblico. Non dall'alto.
Di recente Leopoldo Mastelloni è stato colpito da un ictus. Come vivi notizie così?
Sono
dispiaciutissima: speriamo si riprenda presto. Quando penso a quelli che non ce
l'hanno fatta mi sento in colpa. Terribilmente. E non è una colpa razionale, ma
è così. Come si può sopravvivere a una cosa del genere senza sentirsi in colpa
per chi non ce l'ha fatta? Per me è inconcepibile. Quando vedo chi soffre, io
lo sento. È una perdita d'identità. La malattia ti cambia, ti modifica. Ma io
ho ricostruito la mia identità, e grazie a questo ho capito molto di più.