Oltre i confini dell’arte: quando l’Oriente guarda l’Occidente (e viceversa)

 

Carlo Carrà, Ragazzo a cavallo, 1936, Olio su tela, 70 x 90 cm, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma

“Il più profondo è l’universalmente umano. Solo attraverso le differenze si rivela ciò che ci unisce.” Octavio Paz

C’è qualcosa di straordinario e necessario in ciò che accade oggi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Qualcosa che non riguarda soltanto l’arte in sé, ma il modo in cui ci relazioniamo al mondo, all’altro, a ciò che non conosciamo — e, forse proprio per questo, ci spaventa o ci affascina. La mostra East and West: International Dialogue Exhibition – From Shanghai to Rome si presenta come un dispositivo critico, culturale ed estetico in grado di costruire ponti autentici tra due mondi solo apparentemente lontani: la Cina contemporanea e l’Italia del XX secolo.

Non siamo di fronte a un’esposizione tematica o didascalica. È piuttosto un paesaggio percettivo e simbolico, un tracciato che chiede al visitatore di lasciarsi alle spalle le proprie certezze e di accedere a un livello più profondo della fruizione artistica. Le oltre 70 opere di 40 artisti cinesi e italiani, scelte e organizzate con cura dai due curatori Gabriele Simongini e Zhang Xiaoling, creano un ambiente sospeso, uno spazio liminale in cui la differenza non divide, ma genera senso.

Le tre sezioni in cui si articola la mostra — Riflessi dello Spazio-TempoEspansione del PensieroGenerazione dell’Immaginario — non sono semplici categorie concettuali. Sono architetture invisibili, percorsi che permettono al pensiero di distendersi, di respirare, di riflettere su ciò che l’arte rappresenta oltre la forma visibile: una soglia tra l’esterno e l’interno, tra la memoria e la visione, tra il passato e ciò che ancora non è.

Come docente di Estetica e Simbologia al Master di Neuroestetica dell’Università di Roma Tor Vergata, sento che questa mostra possiede un valore che va ben oltre l’esposizione artistica: essa tocca direttamente le modalità con cui l’essere umano percepisce, codifica e attribuisce senso all’immagine. La neuroestetica ci ha insegnato che la bellezza — così come la tensione estetica — nasce dall’interazione tra strutture biologiche, memorie culturali e codici simbolici. In questa mostra, tale interazione è visibile, palpabile, quasi esperibile in forma pura.

Il confronto tra Oriente e Occidente è, da sempre, uno dei crocevia più fertili (e più delicati) del pensiero estetico. Non si tratta soltanto di linguaggi diversi, ma di visioni del mondo, di antropologie visive, di concezioni dell’essere. Dove l’Occidente ha cercato l’eccedenza, la forma piena, l’espressione del soggetto, l’Oriente ha privilegiato il vuoto significativo, l’armonia cosmica, la scrittura del gesto come manifestazione dell’universo più che dell’individuo.

In questa mostra, queste due tendenze — apparentemente inconciliabili — non si scontrano, ma si rifrangono l’una nell’altra. Il visitatore è chiamato a una doppia operazione: guardare e lasciarsi guardare, contemplare e farsi attraversare. L’opera d’arte non è più un oggetto da interpretare, ma un soggetto che interpella.

Basti osservare l’opera di Zhai Qingxi, che riprende il motivo del cavaliere in chiave contemporanea. La sua figura, forgiata in acciaio lucido, specchia lo spettatore e l’ambiente, suggerendo una metafisica della riflessione. Di fronte, il cavaliere di Marino Marini, ieratico e solenne, richiama una tensione arcaica, quasi sacrale. L’accostamento non è solo formale: è epistemico, perché ci parla di due modi diversi di intendere il tempo, il corpo, la presenza nel mondo.

Similmente, l’opera Sunday di Maurizio Cattelan — con i suoi pannelli dorati trafitti da proiettili — si pone in relazione con il gruppo scultoreo di Wei Kun, che ritrae grandi intellettuali della Cina del Novecento. Da una parte, la dissacrazione della sacralità; dall’altra, la sacralizzazione della memoria. È in questa tensione che nasce qualcosa di nuovo: una terza forma, una bellezza liminale.

Ma forse l’opera più emblematica dell’intero percorso è La grande perfezione sembra incompleta di Dong Yayuan. Il titolo, tratto da un’antica massima taoista, è già di per sé un manifesto estetico. La perfezione non è compiutezza, ma apertura al divenire. È nel vuoto, nell’incompiuto, nel gesto sospeso che si cela il massimo grado di verità estetica. Quest’opera, con i suoi riferimenti lunari, i cerchi imperfetti, i materiali che sembrano evaporare, rappresenta un punto d’incontro possibile tra la metafisica orientale e l’intuizione occidentale dell’infinito.

Dal punto di vista simbolico, ciò che colpisce maggiormente è la capacità della cultura visiva cinese di assorbire senza assimilare, di reinterpretare senza colonizzare. Gli artisti cinesi presenti in mostra non cercano di imitare l’arte occidentale: la studiano, la decostruiscono, la fanno propria in modo personale, radicato, critico. È un approccio profondo, che rivela una maturità estetica sorprendente e spesso sottovalutata in Europa.

Nel nostro contesto culturale, abituato alla novità come valore in sé, l’idea che l’arte possa nascere da altra arte è spesso guardata con sospetto. In Cina, invece, l’intertestualità è considerata una forma superiore di consapevolezza estetica. È questa, forse, la lezione più urgente che la mostra ci offre: la novità non nasce dalla rottura, ma dalla trasformazione lenta e profonda del senso.

Sul piano politico — inevitabilmente — East and West si inserisce anche in un discorso più ampio. In un momento storico in cui i rapporti tra Cina e Europa sono attraversati da tensioni, l’arte si fa spazio terzo, territorio neutro ma non neutrale, capace di proporre un dialogo autentico là dove i linguaggi istituzionali si inceppano. È il trionfo della soft diplomacy, della forza gentile della cultura.

La Galleria Nazionale si conferma così, sotto la guida di Renata Cristina Mazzantininon solo luogo di conservazione, ma laboratorio di trasformazione culturale. Una “galleria vivente”, dove il passato non viene esposto come reliquia, ma interrogato come orizzonte.

In definitiva, East and West non è soltanto una mostra. È un’esperienza, un viaggio percettivo e mentale, un invito a ripensare l’arte non come espressione di identità chiuse, ma come luogo di rivelazione reciproca. Dove l’altro non è più qualcosa da temere o da giudicare, ma un’occasione per scoprire ciò che di più profondo ci accomuna.

Come scriveva Paul Valéry, “l’arte è ciò che rende la vita più interessante dell’arte stessa.”
E in questo caso, la mostra riesce nell’intento più raro e difficile: fare dell’arte un luogo di pensiero vivo, di relazione umana, di possibilità condivisa. 

Carlo Di Stanislao

Fattitaliani

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