di Giovanni Zambito - Nel centenario della nascita di Flannery O’Connor, Romana Petri rende omaggio alla grande scrittrice americana con La ragazza di Savannah (Mondadori, 2024), un romanzo ispirato alla sua biografia, che ne restituisce la voce, lo sguardo, la forza. Una donna ironica, profonda, dalla spiritualità radicata, che considerava la scrittura la propria vocazione e pregava Dio affinché la rendesse una buona narratrice. Un ritratto appassionato e personale, in cui realtà e immaginazione si fondono.
Nell'intervista a Fattitaliani Romana Petri approfondisce il senso di questa “tallonatura” narrativa e ci fa scoprire quanto di Flannery O’Connor, e quanto di sé, vive in questo romanzo.
Com’è nata l’urgenza di raccontare Flannery O’Connor? C’è stato un momento preciso, un incontro con una sua frase o immagine, che ha fatto scattare la scintilla?
La stavo rileggendo da molto tempo. Una rilettura che non si fermava mai, andava sempre oltre. Poi mi sono messa a leggere tutto quello che è stato scritto su di lei. Un pomeriggio ho aperto un file e ho scritto tutto di seguito il primo capitolo. E non ho più smesso.
La ragazza di Savannah è un romanzo biografico, ma ha una forza romanzesca autentica. Quanto è stato difficile bilanciare il rispetto per i fatti con la libertà dell’immaginazione letteraria?
Onestamente lo considero solo un romanzo. Ho scritto libri basati sulla storia di persone sconosciute, quindi nessuno si è posto il problema. Ho scritto romanzi di pura invenzione, con personaggi nei quali mi sono identificata. E questo è un romanzo come gli altri. Solo che la protagonista è una scrittrice americana. E solo per questa ragione ecco che viene definito una biografia romanzata. No, lei è diventata un mio personaggio. Alla fine, come mi capita sempre, con lei mi sono fusa. C’è molto anche di me in questa storia.
Nel risvolto di copertina l'editor parla di questo libro come di una “tallonatura” di Flannery. In che senso?
Mi sembra una bella espressione. Vuol dire che le sono andata dietro, l’ho rincorsa, non le ho dato pace. E non ne ho data nemmeno a me.
Il dolore e la malattia segnano la sua esistenza. Ma lei ce la restituisce come una donna impavida, ironica, mai lamentosa. Cosa le ha insegnato questo modo di affrontare la sofferenza?
L’unico modo in cui bisognerebbe accettare il destino, quanto meno il proprio. Ma non è facile. In genere la disperazione ha il sopravvento, perché lasciare la vita è sempre molto doloroso. Lei ci pensava fino a un certo punto. Sapeva di non avere molto tempo davanti a sé, e si è dedicata solo alla scrittura. Il tempo, quello sì che la ossessionava. Aveva tanti progetti in testa. E poi un pudore immenso nell’esternare le sue paure. Era un’anglosassone in tutto, una pragmatica donna americana.
In Flannery la scrittura è una missione. Lei stessa la riconosce come dono divino. Si rispecchia in questa visione? Ha sentito un’affinità personale nella sua “chiamata”?
Gli scrittori, quando lo sono davvero e non si sforzano di esserlo, hanno un po’ tutti la sensazione di “dover” scrivere. Sì, in un certo senso una chiamata, che per lei era divina e per me no. Ma esiste, in lei come in me, l’idea che la scrittura domini la vita di chi la pratica.
C’è una frase che la definisce perfettamente: “ossessionata dalla frase perfetta”. È qualcosa che riguarda anche il suo lavoro di scrittrice?
Chi davvero ama la scrittura, questa ossessione ce l’ha. In fondo, una bella storia può venire in mente a tutti. Ma poi bisogna scriverla, trovare le parole giuste e mai banali. È necessario che la scrittura faccia da padrona su tutto.
Flannery non ha avuto una vita sentimentale realizzata, ma ha sublimato tutto nella parola scritta. È possibile, secondo lei, trasformare l’assenza d’amore in scrittura?
Le cose materiali che ci mancano non possiamo sostituirle con quelle spirituali. Infatti, lei ha sostituito l’amore con il cibo. La appagava mangiare molto e di gusto. Il cibo non può sostituire del tutto l’amore, ma è un buon surrogato. Lei era molto lucida e pragmatica. Lo sapeva benissimo.
Le galline, i pavoni, gli animali tornano spesso nel romanzo. Che ruolo hanno nell’immaginario di Flannery e nella sua scrittura?
I pavoni rappresentano la Chiesa: la coda del pavone è la trasfigurazione di Cristo. I polli li ha amati fin da bambina. Quando si chiudeva nel pollaio e dava loro il becchime era felice. Ma questo non le impediva, la sera, di mangiarne uno a tavola, ben cucinato. Non bisogna scandalizzarsi, erano altri tempi. Un pavone, però, sebbene le avessero detto che aveva lo stesso sapore del pollo, non lo avrebbe mai mangiato.
Il Sud degli Stati Uniti, la Georgia, la madre Regina, il ranch... Quanto è importante lo spazio, il luogo fisico, nel destino di questa “ragazza di Savannah”?
È stato importante come per tutti gli scrittori. Chi scrive è intriso delle sue origini. Per lei il legame era ancora più profondo, visto che la malattia, il lupus, le ha impedito quell’indipendenza che tanto avrebbe amato. Avrebbe voluto viaggiare, vivere altrove. Invece, a parte qualche spostamento prima di ammalarsi, è sempre rimasta nel ranch della madre. E, dato che accettava quel che il destino le offriva, ne ha fatto un ottimo uso.
Che cosa può insegnare oggi Flannery O’Connor ai lettori contemporanei, soprattutto ai giovani?
O’Connor è una scrittrice ancora tutta da scoprire. È nuovissima e senza eguali. Lei è la grande letteratura. Ha avuto la sfortuna di nascere donna, altrimenti sarebbe ormai un altro Faulkner. Per le donne la strada è ancora tutta in salita. Spero venga un giorno in cui il suo immenso valore sia universalmente riconosciuto. Cosa vuol dire? Essere conosciuta anche da chi non l’ha mai letta. Ora, invece, la conoscono solo i suoi fedeli lettori.
Romana Petri è nata a Roma. Esordisce nel 1990 con la raccolta di racconti Il Gambero blu, accolta con entusiasmo da Giorgio Manganelli. Da sempre divisa tra Italia e Portogallo, ha ambientato numerose opere nelle Azzorre e in altre località lusitane, tra cui Il Baleniere delle montagne (1993), La donna delle Azzorre (2001), Ovunque io sia (2008). Tra gli altri romanzi ricordiamo Alle Case Venie (1997), I padri degli altri (1999), Dagoberto Babilonio, un destino (2002), Ti spiego (2010), Tutta la vita (2011), Figli dello stesso padre (2013), Pranzi di famiglia (2019), Figlio del lupo (2020), Rubare la notte (2023) dedicato ad Antoine de Saint-Exupéry.