“Raccontare la periferia è un modo per raccontare mondi altri”. A dirlo è lo scrittore e sceneggiatore Al Gallo, autore di “Indian Napoli”

 


di Francesca Ghezzani

Con Indian Napoli, uscito per Ugo Mursia Editore nella collana Giungla Gialla diretta da Fabrizio Carcano, Al Gallo ci trascina in un noir urbano teso, realistico, senza facile redenzione. Un rione periferico, un delitto mascherato da incidente, poliziotti disillusi e clan camorristici che operano come vere tribù. Dietro il crimine, però, pulsa la città vera, “quella lontana dai tour e dalle pizze perfette”, come ci racconta l’autore, napoletano, scrittore e sceneggiatore.

Lo abbiamo intervistato per comprendere meglio il mondo – narrativo e reale – che ha messo al centro del suo romanzo.

Al, partiamo dal titolo…

Ciao, Francesca. È legato all’idea che la città sia divisa in tribù indiane, appunto. Un arcipelago di clan, isole “camorristiche” che si contendono il territorio senza possedere l’onore dei nativi americani. Indian Napoli, è anche un gioco di parole, volendo. Mi sembrava così di mettere insieme, in due parole, un’identità molto immediata.

Il romanzo affonda le radici in un’idea nata nel 2003. Cosa ti ha spinto a riprenderla oggi?

Spesso ho bisogno di rileggermi, specie quando mi sento a secco (ride). Se ci sono dei momenti di vuoto, di stand-by, tornare a vecchi testi mi aiuta a ritrovare lo spirito, e la marcia, giusti.

Napoli è più un personaggio che un’ambientazione. Come hai lavorato sulla città nel romanzo?

Ho raccontato quella che conosco meglio: quella periferica. Lontana, come hai sottolineato tu all’inizio, dalla scintillante via Caracciolo. Ma quella è una Napoli a volte “turistica”, non sempre vera o verace. Raccontare la periferia è un modo per raccontare mondi altri; le persone sono sempre condizionate dai luoghi in cui vivono.

È una città che trova paragoni con altre italiane e non o, secondo te, è proprio unica nel suo genere?

Confesso di aver girato poco in vita mia. Spesso però il confronto con altre realtà è stato tosto, nel senso che ho visto modi di vivere molto diversi, pacati. Torno oggi da un mini-tour a Cittadella, Padova. Ritmi e persone bilanciati, esistenze a dimensione umana… da noi è tutto frenetico ed estremo: nel bene come nel male.


I protagonisti, l’ispettore Romano e il vice Ajello, sono imperfetti, spesso disillusi. Quanto c’è di autobiografico?

Tantissimo. Sasa’ Romano e Ajello non sono altro che mie proiezioni, calate – naturalmente – in un contesto estremo, quello della strada. A volte sono molto empatico, e mi lascio contagiare dagli eventi. Altre volte, “gioco” a fare il duro. I poliziotti della storia mi rappresentano, ma forse anche il cattivo, Peppe Del Gaudio, ha qualcosa di me. Soprattutto l’insofferenza alle regole, alquanto paradossale in una persona come me abbastanza ligia.

In chiusura, qual è il tuo approccio quando ti accingi a scrivere un libro rispetto a una sceneggiatura?

I due linguaggi, ormai, si intersecano nella mia mente. Il mio secondo romanzo, infatti, – attualmente in valutazione – nasce come romanzo, diventa una sceneggiatura, e poi ritorna modificato in toto come libro. Io punto a raccontare l’essenziale. Da ragazzo mi piacevano le storie che non lasciavano spazio all’intentato, all’insoluto. Oggi, invece, sono più criptico. Non esistono soluzioni perfette: la vita non è matematica, ma piuttosto sibillina. Grazie!

 


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