Padri vinti, padri fedeli: da Priamo ad Anchise, l’epica dell’onore silenzioso

 


«C’è una differenza tra gli sconfitti e i vinti: i primi possono rialzarsi, i secondi custodiscono nella sconfitta la dignità di chi non ha tradito se stesso.»  Marcello Veneziani, I vinti

Nel saggio Il padre sulle spalle. Debolezza del patriarcato in letteratura (Einaudi), Giorgio Ficara affronta una delle figure più inquiete e decisive della nostra tradizione culturale: il padre. E lo fa attraverso la lente più sensibile e rivelatrice — quella della letteratura. Lontano da ogni nostalgismo o rivendicazione patriarcale, Ficara compone un ritratto composito, fragile, e proprio per questo umano, dei padri che abitano la nostra memoria narrativa. Non i padri della legge, del comando, dell’autorità indiscussa. Ma i padri vinti, gli eroi spezzati, gli uomini piegati dalla storia o dal sentimento, e tuttavia non meno cruciali. Sono i padri della soglia: non più garanti del futuro, ma testimoni di un legame, presenze che, pur marginali, non si cancellano.

Sono figure come PriamoAnchiseEttoreUlisseTancrediLaio. Padri attraversati dal dolore, dalla perdita, dalla distanza. Ma anche padri che, in modi diversi, restano. Come nei quadri di Mario Lupo, in cui stormi di gabbiani fendono cieli aperti e indefiniti, e donne ferme sulla riva attendono chi forse non tornerà mai, così questi padri abitano una scena dell’attesa, del vuoto denso di memoria, della fedeltà senza garanzia. Sono come quelle figure dipinte in equilibrio tra cielo e mare, ferme ma non inerti, piene di un silenzio che parla.

Priamo, vecchio re di Troia, è il padre che si inginocchia. Non combatte, non urla, ma chiede pietà: entra nella tenda di Achille per ottenere il corpo del figlio ucciso, Ettore. È un gesto che spezza ogni retorica del potere: il padre che supplica il nemico, il re che si affida al dolore per affermare la dignità dell’umano. Priamo è un vinto nel senso più nobile del termine: perde tutto ma non rinuncia all'amore, e proprio in questo compie un gesto epico.

Anchise, padre di Enea, è fragile, anziano, cieco. Non ha più la forza di guidare, ma conserva il fuoco degli dèi domestici. Quando la città cade, è Enea a prenderlo sulle spalle: la scena in cui lo porta via da Troia è una delle più potenti del mito. Anchise non è più il centro, è memoria e radice. Non parla, ma resta. Come le donne di Lupo, ferme nel tempo, egli incarna la forza immobile della continuità.

Ettore, figlio di Priamo e padre di Astianatte, è il guerriero che sa di perdere. Prima della battaglia saluta il figlio e la moglie Andromaca: si toglie l’elmo che terrorizza il bambino, lo sorride, lo tiene in braccio. In quel gesto depone la guerra e assume la nudità dell’amore. Non promette nulla, ma offre tutto ciò che può: la sua presenza, un addio carico di premura. Anche lui è un vinto, ma con grazia, con onore, con tenerezza.

Ulisse, invece, è il padre che ritorna. Ma non si mostra subito: osserva, tace, attende. Il suo è un rientro enigmatico, prudente, quasi pedagogico. Ulisse non impone la sua identità, aspetta che Telemaco lo riconosca. È un padre che non dà ordini ma domande, che educa alla distanza, al discernimento. Come nei quadri di Mario Lupo, in cui il paesaggio si fa enigma, Ulisse è una figura da decifrare, più che da seguire.

Tancredi, dalla Gerusalemme liberata, è un padre solo in potenza. Uccide Clorinda, la donna che ama, senza sapere chi è. Solo dopo riconosce, e allora crolla. È il padre che non protegge, che non salva. È l’eroe del rimorso, colui che porta il lutto della propria distrazione. Tancredi è vinto dalla propria cecità, dalla logica della guerra che divora anche l’amore.

E infine Laio, il padre tragico per eccellenza. Padre di Edipo, ordina la sua uccisione alla nascita, temendo la profezia che lo vedrà morire per mano del figlio. Laio rifiuta la paternità, tenta di eluderla, e proprio così la scatena. Il suo non è un fallimento dolce, ma un fallimento per paura. È l’antitesi di Anchise: dove uno accoglie il figlio anche nella fuga, l’altro lo respinge già alla culla. In Laio la paternità si fa maledizione, e mostra quanto può distruggere il rifiuto del legame.


In tutte queste figure, Giorgio Ficara legge non la fine del padre, ma la sua trasformazione. Il padre non è più l’architrave della civiltà, ma una soglia fragile, un testimone silenzioso, una memoria che resta anche quando ha perso tutto. È proprio in questa fragilità che la letteratura lo salva.

Marcello Veneziani, nel suo libro I vinti, ci ricorda che essere vinti non è una condizione di debolezza, ma spesso una posizione più autentica, più fedele a sé stessi. I vinti sono coloro che, pur sconfitti, non hanno tradito. Così questi padri: non reggono il mondo, ma ci ricordano cosa significa appartenere, essere figli, accettare il tempo, lasciar andare.

Come nei dipinti sospesi di Mario Lupo, i padri del racconto occidentale non occupano più il centro, ma la cornice: una cornice che però ci contiene ancora, e dentro la quale la nostra stessa immagine di adulti, di figli, di genitori, continua a riflettersi.

«Il mondo spezza tutti, e poi molti sono forti nei punti spezzati.»  Ernest Hemingway

Questa forza spezzata è la vera eredità. Non ci resta da imitare questi padri, ma da ascoltarli. Non hanno più risposte, ma sono ancora domande aperte. E per questo continuano a parlarci.


Italo Nostromo — “Padre, nel tempo che resta”

Padre mio,
non fosti roccia, né scudo, né fiamma.
Fosti attesa, silenzio,
una porta che non si chiudeva mai del tutto.

Ti ho visto tremare davanti al tuo stesso riflesso,
non per paura,
ma per il peso del nome che portavi
e che non volevi impormi.

Mi hai insegnato a sbagliare senza vergogna,
a portare le mani in tasca
non per orgoglio,
ma per non colpire.

E ora che sono padre anch’io,
cerco tra le tue pieghe,
tra le cose non dette,
quel modo strano che avevi di restare,
anche quando non c’eri.

Non eri guida,
ma mappa nascosta nel mio stesso passo.

E se oggi inciampo,
se cado,
se mi fermo a guardare mio figlio dormire
come si guarda un dio che non si capisce,
è perché ti somiglio.

Non ti ho mai capito.
Eppure —
senza volerlo, senza saperlo —
sto scrivendo il tuo stesso errore,
nella mia calligrafia.

Fattitaliani

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