Damasco trema, Al Suwayda brucia. E il mondo? Sta zitto.
Il 16 luglio 2025, Israele ha lanciato uno dei più violenti attacchi sul suolo siriano degli ultimi anni. Missili hanno colpito la capitale Damasco e il Sud del Paese, tra cui la martoriata regione di Al Suwayda, già dilaniata da settimane di scontri tra milizie druse e fazioni beduine. Il Ministero della Difesa siriano, le zone limitrofe al Palazzo Presidenziale e centri strategici nella parte meridionale della Siria sono stati ridotti in macerie. Almeno 13 persone hanno perso la vita, decine risultano ferite, molte gravemente.
Eppure, mentre i palazzi crollano, i corpi vengono estratti dal cemento e le sirene riempiono il cielo nero sopra Damasco, il mondo resta impassibile. I governi osservano, prendono nota, stilano comunicati. E poi voltano lo sguardo. Ancora una volta.
Una guerra umanitaria? No, una scusa ben confezionata
Tel Aviv giustifica l’operazione con la necessità di "proteggere la comunità drusa", che in Al Suwayda è vittima e carnefice insieme, intrappolata in una guerra locale tra bande e corpi di sicurezza. Ma protezione non è mai significato radere al suolo edifici pubblici in una capitale, né lanciare raid preventivi in zone densamente popolate da civili.
La retorica della sicurezza è diventata una moneta rovesciata: serve a nascondere ogni crimine sotto il tappeto della legittimità. Israele si arroga il diritto di intervenire ovunque ritenga il suo "interesse nazionale" minacciato, e lo fa con ferocia chirurgica. Senza remore. Senza opposizione. Senza vergogna.
I droni israeliani sopra la capitale siriana non portano pace: portano la morte. E portano un messaggio chiaro: possiamo colpire chi vogliamo, quando vogliamo.
L’Occidente balbetta, l’umanità muore
Dove sono i governi democratici? Dove sono le diplomazie che si stracciano le vesti per le regole internazionali quando fa comodo? Il massimo che l’Europa ha saputo dire è “esortiamo alla calma” — come se un palazzo colpito da un missile fosse una scaramuccia tra vicini. Come se un attacco diretto a una capitale sovrana fosse solo un incidente da ridimensionare.
Gli Stati Uniti, per bocca del Segretario Marco Rubio, hanno espresso “preoccupazione”. Preoccupazione. Una parola sterile, inutile, ipocrita. Perché se davvero ci fosse preoccupazione, allora ci sarebbero sanzioni, pressioni, indignazione diplomatica. Ma non c’è nulla di tutto questo. Solo parole vuote in una stanza piena di fumo.
Il mondo finge di non vedere perché il sangue siriano, evidentemente, vale meno.
Il teatro della guerra come normalità
Questa ennesima escalation non è un evento isolato, ma il frutto di una logica rotta. Una logica in cui la Siria è diventata un laboratorio del caos, un luogo dove ogni potenza può intervenire impunemente, testare i suoi armamenti, mostrare i muscoli, difendere interessi che non hanno nulla a che fare con la popolazione che vive lì.
Damasco è diventata un bersaglio, non una capitale. Il Sud della Siria è un campo di battaglia permanente, non un territorio sovrano.
E il dramma è che questa normalizzazione del disastro non indigna più. I bambini che crescono sotto il suono dei caccia, le madri che non sanno se i figli torneranno da scuola, i medici che operano in ospedali colpiti... tutto questo non fa più notizia. Non smuove più le coscienze. Non scatena più proteste.
Abbiamo anestetizzato il dolore altrui. Abbiamo ingoiato così tante guerre da non distinguere più la pace dalla tregua.
Il silenzio come alleato dell’ingiustizia
Chi tace oggi, è complice. Chi minimizza, è parte del problema. Chi preferisce restare neutrale davanti a bombe che colpiscono civili, si schiera comunque: con i più forti, con gli aggressori.
Non si può invocare la giustizia solo quando conviene. Non si può pretendere diritto internazionale se non lo si difende ovunque. Se la Siria viene ignorata, se le sue città vengono ridotte in polvere sotto gli occhi di tutti, allora il diritto internazionale non esiste. Esiste solo il diritto del più forte.
Non è solo Damasco ad essere colpita: è l’idea stessa che la legge possa valere più del potere.
La storia giudicherà. Ma sarà tardi.
Quando le bombe tacciono, rimane la memoria. E quella sarà spietata. Perché chi oggi tace o si volta dall’altra parte sarà ricordato come chi ha lasciato che l’orrore si ripetesse. Ancora. Come chi ha reso possibile l’ingiustizia con la propria passività.
E allora a che serve la diplomazia, l’ONU, la comunità internazionale, se quando una capitale viene bombardata non si leva nemmeno una voce potente in sua difesa?
Questa non è geopolitica. È vigliaccheria. È complicità. È la morte del principio morale su cui dovrebbero poggiare i rapporti tra i popoli.
Perché quando le bombe cadono, non esistono più confini. Esiste solo un'umanità che soffre. E un'altra che guarda, e lascia fare.