L’esame di maturità dovrebbe essere il momento culminante del percorso scolastico, la verifica autentica della crescita culturale, critica e personale di uno studente. Eppure, ogni anno, si presenta come un rituale sempre più svuotato di senso, dominato dalla forma, dalla finzione, dalla burocrazia.
Non è solo il colloquio orale ad apparire deludente e artificiale. Anche le prove scritte, e più in generale l’intero impianto dell’esame, risultano confusi, inutilmente farraginosi, lontani da qualsiasi logica educativa coerente.
Il dominio dell’inutile
Tutto, nell’attuale struttura dell’esame, sembra concepito per complicare senza approfondire, per controllare senza valutare, per imporre regole senza pensare agli effetti reali. La burocrazia, onnipresente e paralizzante, si insinua in ogni fase del processo: dalla scelta del materiale per l’orale, alla compilazione dei verbali, alla rigidità ossessiva dei punteggi e delle griglie di valutazione.
Si scrivono pagine su pagine di relazioni, verbali, quadri comparativi, indicatori, tabelle, codici, ma nessuno si interroga davvero su cosa viene valutato e a che scopo. L’impressione dominante è quella di una macchina amministrativa che lavora su sé stessa, disinteressata a ciò che dovrebbe essere il suo centro: gli studenti e il sapere.
Un colloquio irreale
L’orale dovrebbe essere il momento più dinamico e formativo dell’esame: un dialogo autentico, un confronto aperto, una verifica di maturità intellettuale. Ma nella realtà è una performance costruita a tavolino, fondata su connessioni arbitrarie e su un’abilità retorica che premia chi ha imparato a simulare coerenza, non chi sa pensare davvero.
La scelta del “materiale iniziale” — imposta da una prassi ministeriale che ha di fatto tradito lo spirito della legge — rende tutto innaturale, forzato, talvolta grottesco. Basta un’immagine, una citazione o una mappa per innescare collegamenti meccanici tra materie diverse, senza alcuna reale profondità. L’interdisciplinarità, così concepita, è una farsa, non un valore.
Le prove scritte? Sempre più vuote
Nemmeno le prove scritte riescono più a salvare la dignità dell’esame. Il tema di italiano, imbrigliato in format rigidi e prevedibili, diventa un’esercitazione burocratica più che una prova di pensiero. Le tracce, spesso mediocri o insignificanti, inducono a scrivere testi prudenti, anonimi, costruiti secondo schemi imparati a memoria.
La seconda prova, teoricamente pensata per verificare le competenze disciplinari, risulta spesso distante dai programmi reali, mal calibrata, e valutata con criteri standardizzati che annullano le differenze tra scuole, indirizzi, contesti. In molti casi, più che verificare l’apprendimento, la prova sembra servire solo a giustificare la sua esistenza.
Una macchina burocratica autoreferenziale
Il vero protagonista dell’esame, ormai, è l’apparato burocratico che lo sostiene. Un apparato opprimente, autoreferenziale, logorante, che impone procedure inutilmente complesse, obbliga i docenti a settimane di adempimenti formali, e costringe gli studenti a muoversi in un labirinto di regole e finzioni.
Tutto è normato, verbalizzato, tracciato. Ma nulla è davvero valutato con senso critico e pedagogico. La priorità sembra essere non quella di capire cosa sanno e sanno fare gli studenti, ma quella di difendersi da eventuali ricorsi, attacchi politici, ispezioni ministeriali.
Il risultato? Una scuola che non valuta ma simula, che non seleziona ma compiace, che non forma ma archivia.
Una legge tradita
Il decreto legislativo 62/2017 — per quanto imperfetto — aveva almeno delineato un’idea più seria: un colloquio che partisse da più materiali, selezionati da ogni commissario, e che valorizzasse i percorsi scolastici degli studenti. Era un tentativo di rendere l’esame un momento autentico di riflessione e confronto.
Ma quella visione è stata completamente disattesa. La prassi ministeriale ha scelto la via più semplice (e più dannosa): uniformare, irrigidire, sterilizzare. L’idea di costruire una valutazione viva, coerente con i percorsi svolti, è stata sacrificata sull’altare dell’uniformità amministrativa.
Cosa resta? Un esame inutile
Oggi l’esame è diventato una scatola vuota, che non misura nulla di ciò che conta davvero: capacità critica, profondità culturale, consapevolezza personale. È un atto dovuto, un passaggio burocratico da superare con il minor danno possibile, da parte di tutti: studenti, docenti, famiglie.
Il paradosso è evidente: un’istituzione nata per certificare la maturità intellettuale, finisce per alimentare il conformismo, la finzione, il sospetto.
Tre proposte per salvarlo — o abolirlo
Snellire la struttura e liberarla dalla burocrazia: meno griglie, meno moduli, meno circolari. Più spazio al giudizio professionale dei docenti, più fiducia nel loro ruolo valutativo.
Restituire serietà e senso al colloquio: far dialogare lo studente con i docenti delle singole materie, su testi o temi realmente significativi. Basta percorsi inventati, serve un confronto vero.
Ripensare le prove scritte: tracce meno banali, valutazioni più attente alla qualità del pensiero, meno omologazione. Si scrive per argomentare, non per compilare.
Altrimenti, meglio abolirlo. Un esame così, inutile, farraginoso, falsato dalla burocrazia e svuotato della sua funzione educativa, non serve a nessuno. Anzi, danneggia tutti.
Meglio nessun esame, che un esame così.
Carlo Di Stanislao
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