di Giovanni Zambito. Voce calda, intensa, profondamente evocativa: Badrya Razem è una delle interpreti più originali della scena musicale contemporanea. Italiana di origini algerine, ha scelto di mettere la propria voce e la propria anima al servizio di un testo tra i più potenti del Vangelo: il Magnificat. In questo progetto, accompagnata dal trombettista Giovanni Falzone e dall’organista Roberto Olzer, attraversa secoli e culture per restituire al pubblico un’esperienza musicale e spirituale fuori dal tempo, dove le radici cristiane e musulmane si fondono, in un gesto poetico di dialogo e riconciliazione. Appuntamento stasera per la rassegna Suoni Mobili alla Chiesa di S. Anastasia di Villasanta (MB). Nell'intervista a Fattitaliani racconta questo viaggio interiore e sonoro.
Come nasce il suo incontro con il Magnificat? Cosa l'ha colpita di questo testo così potente del Vangelo?
«Il mio incontro con il Magnificat nasce in un momento in cui sentivo il bisogno di ritrovare una connessione più profonda con la mia spiritualità. Il testo mi ha colpita per la sua forza rivoluzionaria: una donna, Maria, che canta la sua gratitudine e allo stesso tempo sovverte l’ordine del potere, dà voce agli umili e agli affamati. Mi ha parlato come donna, come madre e come artista. È un inno alla speranza e alla giustizia che trascende la religione e parla all’anima umana.»
Il suo intervento musicale attraversa mondi molto diversi: da Monteverdi a Philip Glass, da Pergolesi ad Alice Coltrane. Come ha costruito questo percorso?
«L’ho costruito come si costruisce una preghiera interiore, fatta di memorie e intuizioni. Ogni compositore rappresenta per me una vibrazione spirituale diversa: Pergolesi la devozione, Philip Glass la ciclicità della meditazione, Alice Coltrane l’estasi mistica, Allen Ginsberg la mistificazione. Il filo conduttore è la ricerca della sacralità nella musica, anche quando essa assume forme non convenzionali. È un viaggio attraverso epoche e culture che cercano, ciascuna a modo suo, il divino.»
In che modo le sue origini algerine e la sua formazione italiana influenzano la sua visione della musica sacra?
«Le mie origini algerine mi portano dentro un mondo sonoro ricco di spiritualità ancestrale, in cui il sacro si esprime attraverso il ritmo, la trance, il canto collettivo. La mia formazione italiana mi ha donato la struttura, il linguaggio musicale occidentale, la profondità della polifonia sacra. Vivo queste due anime come un unico corpo: quando interpreto un testo sacro, non lo canto mai solo con la tecnica, ma con la memoria ancestrale del mio mondo mediorientale e con il rispetto appreso nel repertorio liturgico occidentale.»
Interpretare il Magnificat, un testo cristiano, provenendo da una cultura musulmana: è stato per lei un ponte tra fedi?
«Assolutamente sì. Sono cresciuta in una cultura aperta: mio padre, di famiglia musulmana, e mia madre, che cantava nel coro parrocchiale. È lì che ho mosso i primi passi nella musica. Nella cultura musulmana, Maria – Maryam – è venerata profondamente, come simbolo di purezza e forza. Cantare il Magnificat da questa prospettiva è come unire due sponde dello stesso fiume. La spiritualità vera non ha confini rigidi: ogni parola può diventare universale, ogni nota una preghiera.»
Nel progetto l'affiancano due grandi musicisti: Giovanni Falzone e Roberto Olzer. Com’è stato lavorare con loro?
«È stato, ed è, un dono. Entrambi sono musicisti straordinari e persone profonde. Il nostro dialogo musicale è nato su un piano di ascolto autentico: con Giovanni abbiamo esplorato l’estro dell’improvvisazione, con Roberto la sacralità dell’armonia. È stato un incontro di anime prima ancora che di stili. Spero davvero possa portare ad altri progetti insieme.»
Secondo Lei, qual è oggi il ruolo della sacralità e della ritualità condivisa nella musica? Il pubblico ne ha ancora bisogno?
«Credo che oggi più che mai ci sia sete di sacralità. In un mondo che corre, la musica può fermare il tempo e creare uno spazio sacro, anche solo per pochi minuti. Non serve essere credenti per sentire il bisogno di un rito: basta essere umani. La musica, quando è autentica, ci riconnette al mistero, a noi stessi, all’altro. E questo è un atto profondamente spirituale. Noi artisti abbiamo il compito di donarci.»
Durante i concerti, accade mai che la musica superi la voce, le parole? Che diventi pura trascendenza?
«Sì, accade. Ma non si può forzare. È come se tutto – lo spazio, il suono, il pubblico – diventasse un unico respiro. In quei momenti la voce non è più “mia”, ma qualcosa che mi attraversa. A volte succede su una nota, o in un silenzio condiviso. È un momento fragile ma potente. Mostrarsi per quello che si è: credo che questa sia la vera faccia dell’Artista.»
E dopo questo viaggio, che direzione prenderà? Ci sono altre ispirazioni che vorrebbe seguire?
«Dopo questo percorso, sento il desiderio di esplorare ancora di più i confini tra culture e forme espressive. Sto lavorando a un progetto più personale, legato alle mie radici arabe e mediterranee, che intreccia jazz contemporaneo, elettronica e canto tradizionale. Non voglio più definire rigidamente ciò che faccio: mi interessa ciò che è autentico e ibrido. La spiritualità resterà sempre con me, ma non necessariamente in senso liturgico: a volte basta una parola o un silenzio per toccare il mistero.»