Un anno esatto dopo il tentato omicidio di Butler, che avrebbe potuto cambiare per sempre la storia degli Stati Uniti, Donald Trump sceglie di parlare alla nazione attraverso un'intervista concessa a un volto ormai di famiglia: la nuora Lara, figura in ascesa nella nuova generazione repubblicana e possibile candidata al Senato per il North Carolina. È un’intervista carica di simboli e di pathos, nella quale Trump ribadisce il suo mantra preferito da quando è tornato al centro del potere: «Sono stato risparmiato per salvare l’America».
Una narrazione fortemente spirituale, quasi provvidenziale, che si è consolidata nei mesi successivi all’attentato, alimentando una mistica del “prescelto”, sopravvissuto al male per compiere una missione superiore. Ma proprio mentre il presidente rafforza la sua immagine di uomo della Provvidenza, i numeri cominciano a raccontare una storia diversa. Meno mitica. Più concreta. E, per certi versi, più preoccupante.
Un recente sondaggio rivela che solo il 45% degli americani approva l’idea che il presidente possa imporre dazi doganali senza passare dal Congresso. Un dato che non riguarda solo la percezione del potere esecutivo, ma che mette in discussione uno dei fondamenti ideologici del trumpismo: il protezionismo economico come strumento di rinascita nazionale.
Il cuore stanco del trumpismo
Per capire la portata di questa inversione di tendenza, bisogna tornare alle origini. Quando Trump lanciò lo slogan “Make America Great Again” nel 2015, non si trattava solo di un claim elettorale, ma di un grido di guerra. Un appello diretto a milioni di americani disillusi, impoveriti dalla globalizzazione, traditi dalla politica tradizionale, ignorati dalle élite metropolitane.
Questi americani, arrabbiati e impauriti, vennero presto identificati con l’acronimo MAGA. Un’etichetta che si è trasformata in identità. Non un partito, non un movimento strutturato, ma una comunità emotiva e ideologica. I MAGA sono bianchi della classe media e bassa, operai disoccupati o sottooccupati, contadini e agricoltori del Midwest, veterani, cristiani evangelici, proprietari di piccole imprese soffocate dalla concorrenza globale, madri di periferia ossessionate dalla sicurezza dei figli e dall’identità culturale del Paese.
Sono cittadini spesso ignorati dai radar mediatici tradizionali. Persone che si sono sentite a lungo invisibili e che, attraverso Trump, hanno trovato una voce. O meglio: una rivolta.
Per anni, il legame tra Trump e i MAGA è sembrato infrangibile. Nessuno scandalo, nessuna gaffe, nessuna accusa giudiziaria ha mai scalfito la fedeltà di questa base. Nemmeno le rivelazioni più spinose — dalle tasse non pagate al ruolo nell’assalto a Capitol Hill — sono riuscite a spezzare quel vincolo quasi mistico.
Ma qualcosa oggi si muove
Eppure, oggi, quel fronte monolitico mostra le prime crepe visibili. E non si tratta solo di fluttuazioni elettorali: si tratta di una lenta erosione di fiducia. I dazi doganali — simbolo del nazionalismo economico trumpiano — stanno diventando il terreno su cui si consuma un primo, importante disincanto.
Nati per proteggere l’industria americana dalla concorrenza straniera, soprattutto cinese, i dazi hanno avuto effetti collaterali molto reali: aumento dei prezzi per le famiglie, carenza di componenti industriali, difficoltà nella filiera agroalimentare, ritorsioni commerciali da parte di Paesi alleati.
I MAGA — molti dei quali lavorano o vivono grazie a queste filiere — hanno iniziato a toccare con mano il costo delle scelte ideologiche.
E se nel 2016 erano disposti a pagare quel prezzo in nome del cambiamento, nel 2025, con l’inflazione che morde e l’insicurezza sociale in aumento, iniziano a chiedersi se davvero ne valga ancora la pena.
L’effetto “miracolo” si sbiadisce
Il ritorno di Trump alla Casa Bianca dopo l’attentato ha alimentato un’ondata emotiva senza precedenti. Per molti elettori — e anche per parte dell’opinione pubblica internazionale — Trump è apparso come un leader scampato alla morte, “unto” dalla storia per guidare l’America in un momento buio.
Lui stesso ha incoraggiato questa narrazione. Le sue parole, i suoi gesti, perfino le sue apparizioni pubbliche sono impregnate di riferimenti spirituali e salvifici. Ma la fede ha bisogno di risultati, e la lealtà, per restare in piedi, ha bisogno di conferme tangibili.
Gli annunci spettacolari non bastano più. Il populismo non vive di sola retorica, e anche l’elettore più appassionato, se costretto a scegliere tra la devozione e il frigorifero vuoto, finisce per voltarsi altrove.
I segnali d’allarme
Il caso Epstein, recentemente tornato al centro delle cronache con nuovi documenti e testimonianze, sta mettendo in imbarazzo anche le frange più fideiste del trumpismo. Non tanto per un coinvolgimento diretto del presidente, quanto per l’immagine ambigua di certi ambienti frequentati dalla sua cerchia più ristretta.
La narrazione dell’uomo “contro il sistema”, dell’outsider puro, si incrina se anche i tuoi alleati siedono ai tavoli del potere oscuro che dicevi di voler distruggere.
Nel frattempo, il partito repubblicano tradizionale osserva in silenzio, diviso tra chi spera in un crollo silenzioso della leadership trumpiana e chi tenta di imitarne i toni, senza mai eguagliarne il carisma.
Conclusione: e se il vero pericolo fosse l’indifferenza?
Lontano dai riflettori, nei bar del Texas, nei campi dell’Iowa, nelle fiere della Florida rurale, la risposta più diffusa non è più un “sì” entusiasta. È un “boh” sussurrato.
E in politica, il “boh” è spesso il preludio di un crollo.