Intervista a cura di Silvia
Gambadoro
Fino al 6
luglio 2025, Palazzo Merulana, sede della Fondazione Elena e Claudio Cerasi,
gestita e valorizzata da Coopculture ospita «Nelle tue mani», personale dello
scultore Matteo Pugliese, a cura di Carmen Sabbatini.
L’esposizione
è realizzata con il patrocinio di Roma
Capitale e con il
contributo di Zurich
Bank, sponsor
ufficiale.
Incontriamo
Matteo Pugliese tra le sue opere, nelle sale di Palazzo Merulana. Lo scultore,
già protagonista nella collezione permanente del palazzo con Gravitas, presenta la sua mostra
personale.
La mostra
raccoglie opere già esposte in molte città del mondo da New York a Hong Kong.
Il percorso espositivo si snoda in quattro sezioni: Extra Moenia, I Custodi,
Scarabei, Pachamama, quest’ultima dedicata all’archetipo della Grande Madre.
La mostra
attraversa vent’anni di lavoro e racconta un percorso umano prima ancora
che artistico. Scultura come memoria, libertà, denuncia e intuizione. Una
conversazione in cui forma e pensiero si intrecciano, esattamente come nel suo
lavoro.
Cominciamo dal principio.
Quando ha capito che l’arte sarebbe diventata la sua strada?
Ormai posso dirlo con chiarezza: l’arte è sempre un terreno ambiguo, fragile, e
vivere d’arte, ancora oggi, è qualcosa che per molti resta difficile da
concepire. Anche nel mio caso è andata così.
Da ragazzo desideravo iscrivermi all’Accademia di Belle Arti, volevo studiare,
formarmi. Ma i miei genitori mi dissero: “No, non è una strada. Trova un altro
lavoro, poi nel fine settimana potrai dedicarti a questa tua passione”. Così mi
sono laureato in Lettere Moderne. Una scelta diversa. Ma la verità è che l’arte
mi ha sempre richiamato. Una passione costante, ostinata, che mi ha riportato
sempre lì, nel mio mondo.
E oggi quel mondo prende
forma in una mostra personale. Che significato ha per lei questa esposizione?
Esporre in un luogo come Palazzo Merulana ha per
me un valore particolare. È un luogo ricco di storia, ma anche vivo,
accessibile. Vedere le mie opere accanto all’interesse di tante persone e
all’attenzione di una realtà importante come Zurich, che ha sostenuto la mostra, è qualcosa che mi emoziona profondamente.
Sento che questo percorso, iniziato quasi per necessità, oggi ha trovato un suo
spazio, una sua voce.
Lei non ama spiegare le sue opere.
Perché?
Perché credo che l’arte non vada spiegata. L’arte va percepita. Se un’opera non
trasmette qualcosa da sola, allora forse ho già fallito.
Mi viene in mente un episodio che ho sempre amato: Leonard Cohen, grande
poeta canadese, era stato invitato in radio per leggere una sua poesia. Quando
la conduttrice gli chiese cosa volesse dire con quei versi, lui alzò gli occhi
al cielo e la rilesse. Tutto era già lì. Nessuna spiegazione poteva
aggiungere qualcosa. Ecco, la mia visione è simile.
La mostra si articola in
quattro serie. Ci racconta come sono nate?
Ogni serie
corrisponde a un momento preciso della mia vita, non solo artistica, ma
esistenziale. La prima, Extramoenia
raccoglie sculture nate in un periodo piuttosto tormentato.
Le figure cercano una rinascita, si liberano da
qualcosa che le opprime. Ero in un momento in cui sentivo il bisogno urgente di
uscire da una realtà che non mi apparteneva. Le sculture sono diventate la mia
via d’uscita.
La seconda serie “I
custodi” invece sembra raccontare un momento nuovo…
Sì, è una fase diversa, più leggera. si tratta di figure che hanno una funzione
apotropaica, sono armate ma non vogliono essere violente, io le ho immaginate a
difesa della nostra casa, del nostro spazio sacro. Ogni religione ha delle
figure predisposte per allontanare gli spiriti maligni o proteggere i suoi
fedeli. La proporzione classica delle corporature è deformata per trasmettere
un’idea di sicurezza. E sono fatti di materiali diversi, ce n’è una
realizzata con migliaia di zip.
È una serie in cui emerge un equilibrio nuovo, una certa
serenità. E mi piace che possano convivere nella mia opera registri differenti.
Siamo esseri complessi, non lineari. Contraddittori. E l’arte, per me, è
proprio lo spazio dove questa complessità può trovare forma.
Poi arrivano gli scarabei. Un altro cambio di tono.
Una serie più giocosa, più ludica, ma non per
questo meno intensa. È anche una serie di grande sperimentazione, soprattutto
nei materiali. Bronzo, alluminio, argilla, ceramica, resina… Ogni materiale ha
un proprio linguaggio.
Lo scelgo non solo per un fatto tecnico, ma per
ciò che riesce a suggerire, a evocare. La libertà di cambiare materiali,
tecniche, approcci è una delle cose che amo di più del mio lavoro.
Una delle opere più forti della
mostra è ispirata all’Ultima Cena di Leonardo. Ma ha scelto di rappresentarla
solo con le mani. Perché?
Questa è forse l’opera di cui sono
più orgoglioso: le mani sono l’unica forma presente.
Abitando a Milano ho avuto la possibilità di vedere più volte il Cenacolo. E mi
ha colpito come tutta la drammaticità della scena sia affidata alle mani: mani
che si interrogano, si accusano, stringono denari, trattengono rabbia. Ho
voluto raccontare tutto questo solo attraverso le mani. È la mia personale
lettura di un capolavoro che mi ha sempre affascinato.
Alcune opere, invece, sembrano nate
per caso. È così?
C’è un’opera in particolare che è nata in modo del tutto spontaneo. In studio
si erano accatastate delle terre cotte, alcune culture incompiute e frammenti
di lavori lasciati lì nel tempo. Un giorno, guardandoli, ho sentito che
trasmetteva qualcosa. E’ nata così, spontaneamente, un’opera vera e propria,
senza pianificazione, una sorta di “creazione involontaria”.Questo mi ha
divertito molto: oggi si parla tanto di arte concettuale, ma a volte le cose più
interessanti nascono senza progetto, per forza propria.
C’è anche una scultura che affronta
un tema doloroso: la violenza sulle donne.
È un’opera volutamente disturbante. E’ una figura classica, sfigurata: il volto
è devastato, il corpo è spezzato. Ho voluto congelare quel momento di
violenza come fosse una fotografia. E’ una ferita che dobbiamo continuare a
guardare, a denunciare.
L’ultima sezione della mostra è
dedicata alla Madre Terra. Cosa rappresenta questo tema?
È il nucleo più recente del mio lavoro, e probabilmente il più personale, nasce
da una forte esigenza di riconnettermi con l’origine, con la natura, con
qualcosa di autentico. La “Grande Madre” è venerata in innumerevoli
culti, è simbolo di nascita crescita e rinnovamento. Per quest’opera Pacha Mama
(che in lingua Quechua significa Madre Terra) ho usato materiali
sostenibili, leggeri, scelti per quello che significano, non solo per come
appaiono.
Che ruolo ha la libertà nell’arte?L’espressione artistica per me nasce sempre dall’esigenza di liberare qualcosa.
La libertà di cambiare idea, di contraddirmi, di sbagliare. Di
abbandonare un’opera e poi riprenderla, oppure di lasciarla così com’è. L’arte
è un campo aperto, dove posso permettermi di essere incoerente, e proprio per
questo vero.