Quando la grande storia transitò per Assergi
di Giuseppe Lalli
Vincenzo Di Michele, giornalista e scrittore nato a Roma ma originario di Intermesoli, piccolo paese abbarbicato sulle pendici del versante teramano del Gran Sasso, già autore di successo di libri come Io, prigioniero in Russia, Mussolini finto prigioniero al Gran Sasso, L’ultimo segreto di Mussolini, Cefalonia, io e la mia storia, Alla ricerca dei dispersi in guerra, Le scomode verità nascoste nella II guerra mondiale, per citarne solo alcuni, non nuovo a trattare controverse questioni della storia italiana contemporanea, ci presenta la sua ultima fatica di ricercatore instancabile di episodi legati all’ultima guerra mondiale, dramma che ha segnato due generazioni di italiani, quella dei nostri padri e quella dei nostri nonni, e i cui echi terribili ancora non si spengono.
È uscito da qualche giorno, per le Edizioni Vincenzo Di Michele, “Campo Imperatore 1943 – Quel falso mito della liberazione del duce”, sottotitolo: “Gli accordi segreti dietro la leggendaria impresa di Skorzeny e dei paracadutisti tedeschi”.
Quest’ultimo
lavoro, risultato di una ricerca iniziata molti anni fa, ha la sua motivazione
più profonda nell’appassionato amore che l’autore nutre per la verità storica,
da perseguire al di là di ogni pigrizia mentale e di ogni accomodante
conformismo, e il pretesto in un colloquio avuto con un parente a proposito del
libro, sopra richiamato, Io, prigioniero
in Russia, scritto da Di Michele
sull’esperienza vissuta e raccontata da suo padre, giovane soldato nella
seconda guerra mondiale che aveva conosciuto l’inferno della guerra in Russia.
Il parente lo aveva
messo a parte di una notizia che Di
Michele ignorava e all’apparenza poco credibile. E cioè che un cugino di
suo padre, tale Alfonso Nisi, un
semplice pastore, sia pure proprietario di un gran numero di ovini, aveva
giocato a carte con Benito Mussolini
nei giorni in cui il Duce era prigioniero nell’albergo di Campo Imperatore sul
Gran Sasso e che era stato addirittura presente al momento della sua
liberazione da parte dei tedeschi.
Era mai possibile? Dunque il regime carcerario di Mussolini era stato tutt’altro che severo. Da qui un’incessante opera di demistificazione di quella “operazione Quercia” che la storiografia ufficiale ha sempre presentato come un’impresa leggendaria, da ascrivere al solo coraggio ed efficienza teutoniche, e che invece, a parere di Di Michele, non sarebbe potuta avvenire senza un accordo segreto tra il comando italiano e quello tedesco.
Molte sono, a tale
riguardo, le domande che l’autore pone e che fanno capire, a suo avviso, che, rispetto
alla versione che dell’impresa è stata data, i
conti non tornano. Si legge, tra il molto altro, nel libro:
A soli trenta minuti di marcia, c’era un altro rifugio, il “Duca degli Abruzzi”, ancor più strategico e affidabile, il quale era addirittura in uso all’Aeronautica Militare. Per non parlare di un’altra soluzione che non è stata per nulla presa in considerazione: c’era la possibilità di intraprendere la via di fuga verso il versante Teramano. Proprio al riguardo, c’erano persino delle persone, in grado di portare Mussolini verso luoghi sicuri.
Nel libro si parla di Fernando Soleti, il generale di polizia italiano che i tedeschi, con scelta spregiudicata, portarono in ostaggio a Campo Imperatore al fine di facilitare la liberazione di Mussolini e le cui dichiarazioni, negli anni successivi all’avvenimento, Di Michele ritiene contraddittorie.
C’è poi la testimonianza dell’anziano Ennio Pannuti, addetto alla sorveglianza del “prigioniero”, all’epoca appena ventenne ma che ricorda assai bene gli avvenimenti e che, ripensando a certe dinamiche che vide dipanarsi sotto i propri occhi, afferma senza mezzi termini che tutta la vicenda della liberazione del duce gli era parsa “un’perazione concordata”.
Si chiede poi l’autore con logica ineccepibile:
Perché nessuno degli agenti di custodia sparò un colpo? Perché erano presenti dei cineoperatori e la scena della liberazione fu ripresa con meticolosità in ogni frangente? Perché Badoglio, che si era impegnato a consegnare Mussolini agli anglo-americani, non lo fece? Quali furono le disposizioni impartite al Corpo di Guardia? […] Perché affidare la sorveglianza a un semplice tenente? Sarebbe stato preferibile avere in loco un ufficiale militare di grado più elevato, proprio per una miglior tutela del prigioniero, considerando l’importanza che l’ex capo di governo ancora rivestiva nello scacchiere politico.
Il lettore, a sua volta, può chiedersi: questi comportamenti sono da addebitare solo all’inettitudine dei responsabili della catena di comando politica e militare di una nazione allo sbando, qual era l’Italia dopo l’8 settembre 1943, o, come autorizza a pensare ciò che scrive Di Michele, pur in un quadro politico ed istituzionale di grande confusione, rispondono ad una precisa strategia, quella di un accordo tra il governo presieduto da Pietro Badoglio e il comando tedesco, che così consentiva, all’indomani dell’occupazione di Roma da parte dell’ex alleato, al convoglio del re e dei suoi ministri e generali di raggiungere indisturbato il porto di Ortona e imbarcarsi per Brindisi?
La caustica conclusione dello storico abruzzese è:
Si è sempre scritto nei manuali storici intorno alla liberazione di Mussolini al Gran Sasso che avvenne attraverso una prestigiosa operazione militare da parte dell’esercito tedesco. Alla stregua di quanto affermato nella presente opera, non si può parlare di liberazione ma di rilascio.
Il vuoto di potere,
se a Campo Imperatore fece sì che la mancata reazione dei militari italiani
(una ottantina circa, secondo quanto le cronache riferiscono), che si sia
trattato di una decisione dei comandanti in loco, o che sia stata
prudentemente consigliata dagli alti vertici romani, evitò un bagno di sangue
(anzi pare che si concluse a “tarallucci e vino” tra i soldati dei due eserciti
ex alleati), più in basso, ad Assergi, lasciò una scia di morte: un carabiniere,
Giovanni Natale, mandato allo
sbaraglio in un inutile posto di blocco, e una guardia forestale, un padre di
cinque figli, Pasquale Vitocco
(‘Vitocco’ e non ‘Di Tocco’ come erroneamente si legge nel libro), vittima, a
motivo della divisa grigioverde che indossava, del dissennato fuoco germanico.
Ammesso che si possa fare la storia con i ‘se’ (Benedetto Croce decisamente lo vietava), se Mussolini non fosse stato “liberato” e condotto in Germania, la storia avrebbe potuto avere un altro corso: non sarebbe nata la Repubblica Sociale e forse la guerra sarebbe finita molto prima.
Vincenzo Di Michele, con questo suo ultimo lavoro, si propone di riscrivere un’importante e ingloriosa pagina della nostra storia nazionale. Beninteso, la tesi di una complicità delle autorità politiche e militari italiane nella liberazione di Mussolini prigioniero del Gran Sasso (impresa che rimane, in ogni caso, oltre che spettacolare e temeraria, un esempio di grande efficienza militare) non era inedita. Di Michele stesso aveva già scritto sull’argomento e manifestato i suoi dubbi rispetto al racconto ufficiale della celebre impresa, ma con questo suo ultimo scritto porta argomentazioni plausibili e testimonianze convincenti.
E tuttavia quella dell’autore del libro, ancorché persuasiva, rimane un’ipotesi, non essendoci alcun documento che provi in maniera inoppugnabile che le autorità italiane e quelle dell’esercito tedesco occupante, che dopo l’armistizio di Cassibile era da considerare nemico, ci sia stato un accordo. D’altra parte, se accordo ci fu, come Di Michele è convinto che sia avvenuto, era nella natura stessa dell’intesa che non dovesse essere formalizzata. Tutto comunque potrebbe essere addebitato, come sopra accennato, all’inadeguatezza della classe politica e militare di uno stato disarticolato (finis patriae, come è stato scritto), preoccupata più di salvare se stessa che di servire gli interessi della nazione.
Ci sarà sempre, comunque, come uno storico attento non può non constatare, in ogni avvenimento, piccolo o grande che sia, una componente di mistero che nessun radar storiografico può cogliere fino in fondo. L’autore del libro, in ogni caso, appartiene a quella categoria di narratori del passato che non si accontentano delle verità confezionate ad uso dei libri di scuola, fatte per rassicurare o per celare verità inconfessabili.
Dire che la storia
la scrivono i vincitori è idea tanto ripetuta quanto, di fatto, ignorata. Di
Michele questa idea non solo la condivide, la pratica. Vale la pena di
leggere questa sua ultima fatica: è, oltretutto, storia nostra, della nostra
terra. Lo scritto è frutto di una ricerca certosina di fatti e documenti
condotta con lo stile che all’autore è congeniale: una prosa scarna ed efficace, aliena da ogni pedanteria, molto
vicina alla lingua parlata e con la preminente esigenza di farsi capire, anche
a costo di qualche ripetizione.