Con il suo nuovo disco “Il Diavolo e l’Acqua Santa”, Christian Frosio dà voce a una visione matura e consapevole, dove l’intimità dell’anima si confronta con le tensioni del presente. Un lavoro che affonda le radici nella scrittura come strumento di conoscenza, e nella musica come spazio di resistenza alla superficialità del consumo rapido.
In questa intervista per Fattitaliani, l’artista si
racconta con lucidità e profondità: dal bisogno di autenticità alla fatica di
creare in un tempo distratto, dalla spiritualità dei nativi americani all’idea
di successo come coerenza artistica. Il suo è un percorso che non cerca
riflettori, ma verità. E che trova nella musica il mezzo più diretto per
interrogarci e, forse, riconoscerci.
“È tempo delle scorte” sembra un invito a
una vita più essenziale. È un ideale che segui anche fuori dalla musica?
Cerco di abbracciare una vita che possa esprimersi al di là del consumismo e dei suoi condizionamenti. Il brano l’ho scritto mentre studiavo la storia dei nativi del Nord America, che mi ha insegnato tantissimo anche nel decifrare le dinamiche della storia odierna.
In che modo il disco riflette una tua
evoluzione personale rispetto al tuo primo album?
In questo lavoro ho racchiuso ciò che ho maturato negli ultimi anni. Si cresce, si fanno esperienze, e questo si riflette anche nella musica. Nel primo disco guardavo ad un aspetto puramente esistenzialista, mentre qui affronto anche tematiche sociali. Ho spostato lo sguardo dal dentro al fuori, anche se ciò che sta fuori condiziona anche il dentro, facendo sorgere interrogativi. È un gioco di specchi.
Hai mai vissuto momenti in cui hai
pensato di smettere di scrivere?
Più volte. Sai dietro un disco c’è un lavoro enorme. A volte ti chiedi cosa ti spinge a farlo in una società che consuma tutto in maniera velocissima e in cui ad una canzone spesso si concede un unico ascolto disattento e di passaggio. Tuttavia l’amore per la musica mi spinge a continuare. A volte nasce un’idea e ti ritrovi punto a capo a dover ripartire. Come dice Chinaski in “Factotum”: “è l’unica battaglia buona che si sia”
In che misura la musica ti aiuta a
comprendere ciò che vivi?
La musica è ciò che definisco “conoscenza sensibile”. Durante la scrittura ti fai banda passante di qualcosa che arriva da un’altra parte, incanalando riflessioni e esperienze maturate in un periodo più o meno breve. E’ un modo per rivelare ciò che è nascosto e per mettersi meglio a fuoco verso se stessi e ciò che ci circonda.
Cos’è per te oggi il “successo”,
artisticamente parlando?
Il successo è avere la possibilità di veicolare
l’autenticità in musica, senza autocensurarsi e lontano da qualsiasi idea di
mercificazione.
“Non è il successo, non è la notorietà” è quello
che del resto canto in Supereroe, brano che chiude il disco. Il successo è
spesso confuso con la notorietà, ciò che erroneamente stabilisce agli occhi
delle persone il valore di quello che fai. Solo perchè qualcuno accende i
riflettori su di te, non vuol dire che tu prima non esistevi. Bisogna uscire da
questo falso modo di percepire il valore di quello che ci viene alla fine
propinato. Dobbiamo guardare oltre e restituire alla musica qualcosa che possa
creare un’autentica condivisione.