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Portare Il Grande Gatsby in scena, soprattutto sotto forma di musical, è un'impresa tanto audace quanto rischiosa.
Il capolavoro di F. Scott Fitzgerald, pilastro della letteratura americana e icona del cinema, è un testo carico di simbolismi, atmosfere e malinconie difficilmente traducibili nei tempi e nei codici del teatro musicale. Eppure, al London Coliseum, uno dei palcoscenici più maestosi del West End, il regista Marc Bruni si lancia in questa sfida, con risultati che lasciano a bocca aperta – almeno sul piano visivo.Fresco di un’esperienza a Broadway, il musical arriva a Londra con grandi aspettative e una produzione che non bada a spese. Jamie Muscato veste i panni del misterioso e tormentato Jay Gatsby, mentre Frances Mayli McCann interpreta una Daisy Buchanan eterea e sfuggente. Insieme, danno vita a una relazione intrisa di desiderio, illusione e fragilità, ma che fatica talvolta a restituire la profondità psicologica dei personaggi originali.
A dominare la scena, però, è lo spettacolo visivo. Lo scenografo e projection designer Paul Tate DePoo III trasforma il gigantesco palcoscenico del Coliseum in un caleidoscopio art déco: la villa di Gatsby a West Egg prende forma con una grandiosità quasi cinematografica, i fuochi d’artificio sembrano cascate di diamanti, e l’occhio di T.J. Eckleburg scruta imponente la Valley of Ashes. È un'esperienza sensoriale che strabilia, sostenuta anche dalle coreografie di Dominique Kelley, tra jazz frenetico, atmosfere da cabaret e un ensemble che si muove come un’unica creatura d’altri tempi, sfrenata e scintillante.
Eppure, nonostante la perfezione formale, la sceneggiatura riesce solo in parte a restituire la sottile malinconia e il senso di perdita che permeano il romanzo. I dialoghi corrono veloci, e alcune svolte narrative risultano sacrificate sull'altare del ritmo e dello spettacolo.
Questo Gatsby, dunque, è davvero "great"? Sicuramente lo è in termini di ambizione e messa in scena. È un musical che incanta per l’estetica, che si concede il lusso dell’eccesso proprio come le feste del suo protagonista. Ma rimane, forse, un po’ distante dall’anima fragile e struggente del testo da cui nasce. Uno spettacolo da vedere, certo, ma da accompagnare con una riflessione su quanto sia difficile, oggi, catturare davvero il cuore di un classico senza smarrirne il silenzio. FGL.
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In English
Fresh off a Broadway run, the musical arrives in London with high expectations and a no-expense-spared production. Jamie Muscato steps into the shoes of the mysterious and tormented Jay Gatsby, while Frances Mayli McCann plays an ethereal, elusive Daisy Buchanan. Together, they portray a relationship steeped in desire, illusion, and fragility—though at times struggling to fully convey the psychological depth of the original characters.
What dominates the show, however, is the visual spectacle. Scenic and projection designer Paul Tate DePoo III transforms the colossal stage of the Coliseum into an Art Deco kaleidoscope: Gatsby’s West Egg mansion rises in cinematic grandeur, fireworks cascade like diamonds, and the all-seeing eyes of T.J. Eckleburg gaze solemnly over the Valley of Ashes. It’s a dazzling sensory experience, further energized by Dominique Kelley’s choreography—frenetic jazz, hints of cabaret, and an ensemble that moves like a wild, glittering creature from another era.
Yet, despite the formal perfection, the script only partially captures the quiet melancholy and profound sense of loss that permeate the novel. The dialogue moves swiftly, and some narrative turns feel sacrificed on the altar of pace and spectacle.
So, is this Gatsby truly “great”? In terms of ambition and staging, undoubtedly. It’s a musical that dazzles in its aesthetics and embraces extravagance, much like its protagonist’s legendary parties. But perhaps it stays a little removed from the novel’s fragile, aching soul. A show well worth seeing—yes—but one that invites reflection on how hard it is, today, to truly capture the heart of a classic without losing its silences.