Il rito è tratto dal film omonimo di Ingmar Bergman del 1969. Tre artisti di varietà (i coniugi Hans e Thea, e Sebastian, amante della donna sono denunciati per l’oscenità presunta di un numero del loro ultimo spettacolo.
Il giudice Abrahmsson li interroga per decretarne l’eventuale condanna. Non riuscendo a farsi un’idea dai colloqui con gli artisti, l’uomo assiste alla performance allestita nel suo ufficio, subendone conseguenze inaspettate. Al centro del lavoro, il tema della censura e l’impossibilità di contenere la potenzialità destabilizzante dell’atto artistico.
Lo spettacolo
Il rito è tratto dall’omonimo film (in
originale, Riten) scritto e diretto da Ingmar Bergman nel 1968 e uscito l’anno
successivo, il primo da lui realizzato diretta- mente per la televisione,
l’ultimo girato interamente in bianco e nero. Bergman cominciò a scrivere
pensandolo come allestimento teatrale per il Dramaten di Stoccolma,
incoraggiato dal favore di Erland Josephson, suo sodale e consigliere. Ma il
regista-autore ci ripensò e lo dirottò verso una “partitura filmata per primi
piani”. Il film è una sorta di cinema da camera, girato in interni con soli
quattro personaggi, ed è incentrato sul rapporto, spesso conflittuale, tra
autorità costituita e azione artistica.
Nello specifico, lo spettacolo è tratto
dal testo originale integrale, da cui Bergman sviluppò in seguito la
sceneggiatura, costituendosi, dunque, come una sorta di inedito.
Tre attori di teatro di varietà (i
coniugi Hans e Thea, e Sebastian, amante della donna) sono stati denunciati per
l’oscenità presunta di un numero del loro ultimo spettacolo. Un giudice
incaricato, il Dott. Abrahmsson, li interroga per decretarne l’eventuale
condanna. Dai colloqui con gli artisti in cui si scoprono soprattutto le
ambigue articolazioni interpersonali, l’uomo non riesce a farsi una idea chiara
della faccenda e finisce per assistere alla performance allestita nel suo
stesso ufficio, con conseguenze fatali.
La performance dei tre artisti si rivela
una sorta di rito dionisiaco dalle chiare va- lenze simboliche, in cui la forza
della creazione artistica vince sui tentativi di censura e normalizzazione di
una qualsivoglia autorità, politica o sociale. E per ciò, il rito si configura
come una sorta di parodia delle Baccanti di Euripide, nel senso etimologico di
una loro ricantazione entro parametri estetici e sociali contemporanei. Il
giudice può corrispondere facilmente alla figura di Penteo, in aperta ostilità
nei confronti dei tre artisti, dietro i quali si celano identità e funzioni da
sacerdoti dionisiaci. Ma forse, nel finale, si paventa la presenza stessa del
Dio, sotto le spoglie dell’eterno femminino, fascinoso e perturbante, di Thea.
Oltre la censura subita spesso da
Bergman ai suoi tempi, ed oggi strisciante in maniera sempre meno latente tra
le pieghe più varie del nostro vivere sociale, nel testo è centrale il tema
della impossibilità di contenere la potenzialità destabilizzante dell’atto
artistico, votato a stanare le verità dell’essere umano, a rischio anche della
morte.
Si sviluppa in nove scene ambientate
esclusivamente in interni. I rapporti tra i personaggi sono tesi e affilati e
posseggono una forza interlocutoria che tiene desta l’attenzione fino
all’inaspettato finale.
L’impianto scenico si presenta come una
grande scatola bianca, indefinita, al centro della quale campeggia una
piattaforma sospesa, su cui è allestito, in nero, l’ufficio del giudice
Abrahmsson. L’uomo è rintanato lassù, rifugiato dal mondo, protetto dal suo
abito istituzionale. Non osa, forse non può, o non sa, allontanarsi dal suo
ambito. I tre artisti agiscono sul bianco ineffabile nelle loro intime
relazioni, quando non interrogati dall’autorità del magistrato, che li
accoglie, alternandoli, sulla piattaforma-ufficio. In realtà, il loro è una
sorta di assedio volontario, di assalto all’istituzione, di contagio artaudiano
con i germi della loro libertà artistica e del loro consapevole azzardo
esistenziale.
Il rito, teatralmente, è soprattutto una
partitura di parole e rapporti fisici tra i personaggi. La natura muscolare
delle fisionomie al centro della vicenda ne fanno materia per un moderno
kammerspiele. L’aggressività è evidente, nei confronti tra le parti, e risalta
la scontrosità delle identità in gioco.
Il giudice si mostra dapprima
cerimonioso, quasi adulatorio nei confronti dei tre artisti chiamati a dar
conto del loro spettacolo. I tre sono divi, famosi, privilegiati elementi umani
da preservare sul loro piedistallo, e lui è un semplice servitore della
comunità.
Ma già dopo la prima scena, il gioco si
fa più prepotente da parte del censore. L’azione scardinante dei vari
interrogatori comincia a mostrare i meccanismi che regolano i rapporti,
moralisticamente discutibili, del terzetto di artisti.
Le dichiarazioni diventano vere e
proprie confessioni, sempre più intime. Ci sembra quasi di sentire i miasmi e
avvertire i rumori interiori di queste individualità tenute insieme da
relazioni malate, sul filo dell’eccezione. L’atto confidente diventa liberatorio.
Tanto che vien quasi il sospetto che ci provino gusto a farsi umiliare. E
allora sotto un’inchiesta dai vaghi toni kafkiani, con l’accusa di oscenità ci
finisce la vita stessa, nel nostro caso quella di tre individui, troppo liberi
e creativi rispetto alla morale comune. E si dispiegano dunque la fragilità e
ipersensibilità nevrotica della bellissima Thea, la vanità violenta
dell’irresponsabile Sebastian, la razionalità noiosa di un più calcolatore
Hans.
Ma a poco a poco i piani iniziano a
ribaltarsi. Nel corso dell’istruttoria, anche il giudice svela le sue
frustrazioni e sgradevolezze, abbrutito da una disperata solitudine e ricattato
dalle debordanti umanità dei tre artisti.
Nell’ultima scena, dove c’è il rito per
antonomasia, quello dionisiaco della Eleva- zione, c’è il lasciarsi andare
definitivo, il consegnare il peso di una intera esistenza.
Il rito di cui forse ci parla davvero
Bergman è dunque quello dello svelarsi, raccontarsi, esibirsi continuamente e
sfacciatamente e così facendo consegnare le proprie colpe a qualcuno, fosse
anche la colpa ultima di vivere, rischiando anche di perderla, la vita.
Un atto catartico che afferma la
necessità, fin dalle notti dionisiache, dell’atto ineludibile della
(auto)rappresentazione.
Denunciare come osceno un rito accusando
l’arte e gli artisti di essere portatori (in)sani dell’atto misterico, ci
spinge a sospettare, ancora oggi, che l’unica sacralità possibile è contenuta,
prima ancora che nell’atto, nello sforzo artistico. E ciò, in un mondo che si
impegna a celebrare quotidianamente la lunga agonia dell’estinzione di Dio.
E dell’uomo.
Alfonso Postiglione
Alfonso Postiglione
Nasce a Napoli nel 1970. Attore e regista, si forma alla Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano.
Come attore teatrale lavora, tra gli
altri, con Marco Baliani, Gigi Dall’Aglio, Davide Iodice, Massimiliano Civica,
Giancarlo Sepe, Claudio Di Palma, Luca De Fusco, Leo Muscato, Ruggero
Cappuccio, Gabriele Russo e con gli stranieri Eimuntas Nekrosius, David Greig e
Graham Eatough.
Al cinema e nella fiction tv, lavora con
Paolo Sorrentino, Antonio Albanese, Alberto Sironi, Maurizio Zaccaro,
Alessandro Angelini, Stefano Sollima, Francesca Comen- cini, Mario Martone,
Lucio Pellegrini, Luca Miniero, Roberto Andò e con Terrence Malick e Xavier
Giannoli.
Nel 1995, è co-fondatore della compagnia Rossotiziano, tra le formazioni più ri- conosciute del nuovo teatro italiano degli anni ‘90 e attiva fino al 2005, per cui lavora come attore, regista e autore di nuova drammaturgia
Oltre venti le sue regie teatrali, e
dirige anche nell’audiovisivo diversi documentari, videoclip musicali e
cortometraggi, per cui vince vari festival, e nel 2009 il Globo d’Oro della
stampa estera in Italia.
Nel 2015 ha diretto a teatro La
riunificazione delle due Coree di Joël Pommerat prodotto da Ente Teatro
Cronaca. Tra le ultime regie, la biografia teatrale del pu- gile Patrizio
Oliva, Patrizio vs Oliva e diversi progetti per il Teatro di Napoli-Teatro Nazionale,
tra cui il dittico dell’autore americano Neil LaBute, Autobahn e Fat Pig.
Nel 2021, sempre per il Teatro di
Napoli, in coproduzione con Mad Entertainment e Mosaicon Film, dirige
l’esperimento tra teatro e cinema, La vita nuda filmdrama dalle novelle di
Luigi Pirandello.
Nell’inverno del 2025, debutterà la sua
nuova regia teatrale La ragione degli altri liberamente tratta dall’opera
omonima di Luigi Pirandello, con la drammaturgia di Linda Dalisi.
dal 21 al 26 gennaio dal martedì al venerdì h 21, sabato h 19 e domenica h 17
IL RITO
di Ingmar Bergman
traduzione di Gianluca Iumiento
con
Alice Arcuri (Thea Winkelmann)
Giampiero Judica (Sebastian Fischer)
Alfonso Postiglione (Giudice Ernst Abrahmsson)
Antonio Zavatteri (Hans Winkelmann)
adattamento e regia Alfonso Postiglione
scene Roberto Crea costumi Giuseppe Avallone musiche Paolo Coletta
disegno luci Luigi Della Monica partitura fisica Sara Lupoli aiuto regia Serena Marziale
produzione
Ente Teatro Cronaca
Teatro di Napoli – Teatro Nazionale
Fondazione Campania dei Festival – Campania Teatro Festival
durata 100’
guarda il trailer https://youtu.be/VJGDHVqaBd0 Elia Shilton nel ruolo del Giudice Abrahmsson, sarà sostituto da Alfonso Postiglione
foto e trailer Il rito • Ente Teatro Cronaca