Il prossimo appuntamento della Stagione sinfonica – il 13, 17 e 20 gennaio – vede la Filarmonica della Scala impegnata sotto la direzione di Lorenzo Viotti nella Sinfonia n. 6 in la min. di Gustav Mahler.
La Sesta, conosciuta come "Tragica", è una delle opere più dense e drammatiche del compositore austriaco, che ne diresse la prima esecuzione nel 1906. La Sinfonia si distingue per la sua intensità emotiva e complessità formale. Mahler esplora in profondità la condizione umana, segnata dalla lotta tra la vita e la morte. La costante tensione tra la speranza e la disperazione è accentuata dal contrasto tra i momenti di lirismo e le potenti esplosioni orchestrali. La Sinfonia impiega una vasta gamma timbrica e un uso marcato delle percussioni, dando un forte impatto drammatico alla musica.
Lorenzo Viotti è uno dei direttori più interessanti e ricercati del panorama internazionale. Al Piermarini ha debuttato a 27 anni sul podio dell’Orchestra dell’Accademia, che ha nuovamente diretto nel 2020. Dal 2018 collabora regolarmente con la Filarmonica della Scala. Il debutto operistico è avvenuto nel 2020 con Roméo et Juliette di Gounod nell’allestimento di Bartlett Sher; è seguita nel 2022 una nuova produzione di Thaïs di Massenet con la regia di Olivier Py. Nel febbraio 2024 alla Scala Viotti ha diretto Simon Boccanegra per la regia di Daniele Abbado, nonché un concerto con la Filarmonica e il pianista David Fray.
Prezzi: da 110 a 20 euro
Infotel 02 72 00 37 44
www.teatroallascala.org
LORENZO VIOTTI
Nato a
Losanna nel 1990 in una famiglia franco-italiana, ha studiato pianoforte, canto
e percussioni a Lione. Ha poi frequentato il corso di direzione d’orchestra di
Georg Mark al Conservatorio di Vienna e parallelamente ha suonato come percussionista
in diverse importanti orchestre, tra cui i Wiener Philharmoniker,
perfezionandosi infine nella direzione con Nicolas Pasquet alla Hochschule für
Musik Franz Liszt di Weimar.
Dopo aver
vinto nel 2013 il Concorso Internazionale di Direzione dell’Orchestra di
Cadaques e quello della MDR di Lipsia, nel 2015 ha ottenuto il Nestle and
Salzburg Festival Young Conductors Award e due anni dopo, a Londra, è stato
nominato “Newcomer of the Year” agli International Opera Awards. Da allora ha
diretto molte delle più importanti orchestre del mondo, tra cui i Wiener e i
Berliner Philharmoniker, l’Orchestra del Royal Concertgebouw di Amsterdam, la
Staatskapelle di Dresda, l’Orchestra del Gewandhaus di Lipsia, la Cleveland Orchestra,
i Wiener e i Bamberger Symphoniker, la Royal Philharmonic Orchestra e
l’Orchestra Sinfonica della Radio Svedese. I suoi prossimi impegni in ambito
sinfonico vedranno il proseguimento dei suoi stretti rapporti di collaborazione
con i Münchner Philharmoniker e la Tokyo Symphony Orchestra.
Attualmente è
Direttore principale della Nederlands Philharmonisch Orkest e della Nationale
Opera di Amsterdam, dove nella Stagione 2024-2025 dirigerà due opere molto
attese: la prima olandese del celebre allestimento del Fledermaus di
Barrie Kosky e una nuova produzione del Peter Grimes di Benjamin Britten
per la regia di Barbora Horáková. Continua inoltre il suo rapporto con l’Opera
di Zurigo, con una nuova produzione della Tote Stadt di Korngold
per la regia di Dmitri Tcherniakov. Nella stagione in corso torna a dirigere la
Filarmonica della Scala, l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia,
la Gurzenich Orchestra, l’Orchestra della Deutsche Oper di Berlino e
l’Orchestra Gulbenkian di Lisbona, di cui è stato Direttore principale dal 2018
al 2021. Debutterà sul podio dell’Orchestre de la Suisse Romande e terminerà la
stagione dirigendo alcuni concerti con i Wiener Symphoniker. A conclusione del
suo mandato di Direttore musicale della Nederlands Philharmonisch Orkest,
dirigerà sei variegati programmi al Concertgebouw e fara una tournée nei Paesi
Bassi.
Nessun eroe stroncato dal fato
di Ernesto Napolitano
Non c’è forse sinfonia di Mahler più
controversa della Sesta. Anche se sistemata al cuore della sua produzione
sinfonica, giusto nel mezzo di quel blocco centrale di lavori che rinunciano
all’apporto della voce, la Sesta è potuta persino apparire estranea ai
caratteri più autentici del mondo espressivo del compositore, persa com’è in un
paesaggismo ottocentesco, alla Segantini, e quindi lontana da quel modo
interiore di ascoltare la natura che ne sapeva interpretare immagini e suoni in
accordo con una propria visione e con una propria morale (Ugo Duse). Quirino
Principe la considera vittima di un impulso autolesionistico: «Una bara di
tutti i suoi mali, delle sconfitte e dei terrori, destinata a contenerli e a
riassumerli per esorcismo, o a futura memoria». Per ricostruire la storia della
sua fortuna occorre risalire al versante viennese: a Schönberg che ne
apprezzava la logica e la costruzione interna, a Webern che la dirige e ne
conserva qualche eco nei brani sinfonici dell’op. 6 e dell’op. 10, a Berg che amava
definirla «l’unica Sesta». Ma soprattutto ad Adorno, che, un anno dopo
aver dato alle stampe il suo libro su Mahler, sentì il bisogno di tornare
sull’argomento, aggiungendo a quel saggio una sorta di appendice, un complemento
consacrato in gran parte proprio ad analizzare quel lavoro.
Mahler aveva iniziato a comporla durante l’estate del 1903, completando probabilmente in quel periodo l’abbozzo dei primi tre movimenti; vi ritorna nell’estate successiva e gli basta un mese per stendere l’immenso Finale, in uno slancio creativo che lascia spazio ulteriore ai due canti che completano la raccolta dei Kindertotenlieder e alle due Nachtmusiken della Settima.
Quanto alla strumentazione, che contiene
esempi fra i più alti dell’invenzione timbrica mahleriana, sarà portata
a termine all’inizio di maggio del 1905. Se questa ricostruzione dei
tempi compositivi corrispondesse alla realtà, essa dovrebbe già
suscitare qualche dubbio sulla divisione tradizionale della sinfonia,
che vede fronteggiarsi il primo e l’ultimo movimento, e, al centro,
quasi in funzione di intermezzi, lo Scherzo e l’Andante. Sono infatti
così numerose le relazioni fra i temi dell’Allegro e dello Scherzo da far
pensare a un legame fra i movimenti iniziali simile a quello già messo in atto
nella Quinta. A questo proposito vanno ricordate le incertezze di Mahler
sulla posizione dello Scherzo; mentre nella prima edizione della sinfonia,
uscita nel 1906, lo Scherzo precedeva l’Andante, la seconda e la terza,
comparse sempre nello stesso anno, prevedevano che l’ordine fosse invertito.
Tuttavia, per l’esecuzione viennese del 4 gennaio 1907 Mahler cambiò nuovamente
idea e ripristinò la successione originaria. Una testimonianza di Willem Mengelberg,
il grande direttore d’orchestra del Concertgebouw amico di Mahler,
confermerebbe quella come la scelta conclusiva. Non siamo obbligati a
credergli, naturalmente, e del resto, se la posizione dell’Andante come terzo movimento
sembra conferire al percorso della sinfonia la zona di rilassamento necessaria
al grande exploit del Finale, non sono pochi gli interpreti che preferiscono
anticipare la pausa di distensione dell’Andante fra l’Allegro e lo Scherzo,
visto che tutti e due sono sostenuti da una ritmica ugualmente feroce.
Tornando alla rete delle corrispondenze
fra i quattro movimenti, essa si allarga ancora se si considera che esistono
altrettante connessioni fra il primo movimento e il Finale: prima fra tutte, un
“motto” che risuona come una minacciosa “figura del destino”: un repentino
passaggio dei fiati dal maggiore al minore, fortissimo seguito da pianissimo,
su un inflessibile ritmo del timpano. E tuttavia il Finale sembra pretendere per
sé un posto esclusivo, proponendosi, se non altro per le sue dimensioni, di
riequilibrare il peso dei tre movimenti precedenti. Se aggiungiamo il fatto,
decisamente insolito, che Allegro iniziale, Scherzo e Finale sono tutti nella
stessa tonalità di la minore, ce n’è abbastanza per concludere che la classica
divisione in quattro movimenti, eccezionalmente ripresa per questa sinfonia, è
soltanto un involucro esteriore, poi travolto da una nuova e diversa
concezione.
«La mia Sesta proporrà enigmi coi
quali potrà cimentarsi solo una generazione che abbia accolto in sé e
assimilato le mie prime cinque sinfonie.» Ma a risolvere questi enigmi, di cui
Mahler era il primo a parlare, non aiutano molto né l’inutile appellativo di
“Tragica” che qualche volta ancora l’accompagna, né la cornice autobiografica
che le ha tracciato attorno una pagina famosa dei ricordi di Alma. Nel suo
racconto, la Sesta diventa un’opera dal carattere strettamente
personale, profetica, malaugurante. Mahler avrebbe detto che nello Scherzo sono
descritti «i giochi senza ritmo delle bambine che corrono traballando nella rena.
È spaventoso: le voci infantili diventano sempre più tragiche, e alla fine non
resta che una vocina lamentosa che va spegnendosi». Mentre «nell’ultimo tempo
descrive sé stesso e la sua fine o, come ha detto più tardi, quella del suo
eroe. L’eroe che viene colpito tre volte dal destino, il terzo colpo lo abbatte
come un albero». L’ultimo colpo fu poi cancellato dall’autore durante la revisione;
quanto a queste dichiarazioni, la cosa migliore non sta certo nel prenderle
alla lettera e intenderle come un programma, ma nel leggervi la traccia di una profonda
adesione emotiva, una partecipazione tuttavia non così sconvolgente da aver
impedito la straordinaria complessità di costruzione proprio del Finale.
L’opera si annuncia con cinque battute
introduttive in un energico ritmo di marcia; niente di funebre, ma un gesto
brusco e determinato che si propaga a un primo tema spigoloso, segnato da
ripetute cadute e balzi ascensionali, su grandi intervalli divaricati.
L’agitazione si placa solo per lasciar posto alla prima apparizione del “motto”,
quindi a un misterioso corale dei legni che serve a traghettare verso il
secondo tema, il cosiddetto tema di Alma: «Ho tentato di fissare il tuo
carattere in un tema – non so se mi è riuscito. Ma devi lasciarmi fare». Chissà
se Alma si è riconosciuta in quel motivo, che è una lunga frase piena di
slancio, non particolarmente dolce, ma vitalistica, carica di passione. Forse
la promessa di felicità che essa contiene, nel momento in cui tende a farsi
esplicita rinunciando a presentarsi come un sogno o un’utopia, e dunque nella
sfera di una sostanziale impossibilità, rischia di sembrare dettata da una
volontà che s’impone, più che da un irrefrenabile impulso interiore. Non è un caso
se nella sua interezza quella frase non tornerà più.
Nello sviluppo, dopo il ritornello dell’esposizione,
la sigla del motto e il corale trapassano all’improvviso in un rarefatto
paesaggio di natura: la visione di un mondo “altro”, dove al tremolo degli
archi all’acuto e agli accordi della celesta si unisce il suono remoto ed
evocativo dei campanacci. È un momento di sospensione: “La giornata è bella su
quelle alture”, per dirla con un verso dei Kindertotenlieder; ed è
tipico di Mahler che sia l’elemento inferiore, la sonorità umile e avulsa dei
campanacci, ad avere il potere di alludere a una sfera superiore. Bellissimo il
commento di Schönberg, che mette in guardia da un’interpretazione naturalistica
e avverte come il freddo conforto di quella visione «può udirlo solo chi
comprende ciò che mormorano voci più alte, senza calore animale».
Nel suo demonismo, lo Scherzo è un
movimento ossessivamente scandito sopra un ritmo rigido e ossificato, come il
suono dello xilofono che a tratti lo attraversa. Sprofondamenti grotteschi del
basso tuba, acciaccature sfrontate dei corni, nere ondate nibelungiche;
all’opposto, timidi staccati all’acuto di un violino solo emergono fra le
sonorità di un mondo diventato sinistro. Le differenti voci strumentali sembrano
provenire dalla superficie di una sfera cava, sistemate su punti lontani,
spesso diametralmente opposti, in un’orchestra che acquista volume e
profondità. I due Trii rappresentano solo in parte una parentesi serena; l’indicazione
del primo, altväterisch, “antiquato”, “all’antica”, suona già come una
previsione di fallimento. E infatti il minuetto che si vorrebbe evocare quasi
non ce la fa a farsi riconoscere, zoppicando nell’improbabile alternanza di una
misura a tre tempi e una a quattro.
La lunga melodia con cui apre l’Andante
moderato porta con sé un tono di consolazione e di rassegnata dolcezza, come un
canto senza parole che scivola con disinvoltura su timbri e registri
differenti, passando dai violini all’oboe e prolungandosi nei clarinetti:
pronti, poco più avanti, a raccogliere anche il secondo tema al corno inglese,
che si direbbe convocato con il compito di riportarci all’angosciata semplicità
dei Kindertotenlieder. Prima della lirica intensificazione a cui conduce
lo sviluppo, ancora un episodio di rarefatta visionarietà estende la rete delle
corrispondenze, suggerendo una connessione col primo movimento: il ritorno
della sonorità dei campanacci stabilisce un insospettabile legame anche fra i
poli opposti della sinfonia.
Ma la grande conquista della Sesta è
il Finale, brano vastissimo, in conseguenza dell’audacia costruttiva con cui è
concepito. Questa mirabile costruzione nasce dalla fusione di due forme, una
per così dire “poematica” e basata sul materiale dell’introduzione, l’altra
aderente alla forma sonata: due modi diversi e storicamente contrastanti di
concepire la natura della costruzione sinfonica. La musica a programma – il
poema sinfonico – e la musica assoluta – la classica forma sonata – vengono
messe a confronto e integrate in un disegno che trova le ragioni della sua
compattezza proprio nella loro fusione. Elemento di simmetria e punto di
riferimento essenziale è il periodico ritorno del materiale introduttivo: in
successione, il trascendente slancio di apertura prolungato all’acuto dai
violini, la ricomparsa del “motto”, le oscurità del basso tuba, un sontuoso
corale travestito da marcia funebre, infine gli appelli dei corni che
anticipano il primo tema della forma sonata. Una parte di questo materiale tornerà
a segnalare i punti di snodo della costruzione, anticipando il gigantesco
sviluppo in quattro parti – la seconda e la quarta annunciate dai colpi di
martello – e precedendo la ripresa, mentre la sua conclusiva apparizione nella
coda, raccogliendo gli ultimi frammenti tematici e rabbrividendo in un epilogo
spettrale privo del più piccolo spiraglio di luce, porterà a un’ultima,
raggelante esplosione dell’orchestra. Nel contenere la risoluzione delle sue
tensioni e dei suoi conflitti, il Finale rappresenta quello che potremmo
chiamare l’adempimento della Sinfonia; e che questo adempimento si compia nel
segno della desolazione delle ultime battute, in un clima che sa di sconfitta,
porterebbe a concludere per un esito negativo. E tuttavia non è detto che tutto
sia così chiaro e così semplice da interpretare, e non sia invece preferibile e
più giusto conservare un equilibrio di giudizio e non lasciarsi sfuggire quella
che è, quanto meno, un’ambiguità: perché, se da una parte la conclusione del
Finale ci è parsa iscriversi in un orizzonte negativo, dall’altra non dovremmo
dimenticare il valore affermativo della sua grandiosa concezione formale. Se,
come ha giustamente scritto Adorno, non c’è nessun eroe stroncato dal fato nel
Finale della Sesta, meglio tenersi fermi al conflitto fra l’accesa
vitalità della sua costruzione e un’espressione che ci è apparsa infine
declinare verso l’oscurità.