di Andrea Giostra - «La poesia per me è come la musica: amo tutto quello che mi fa emozionare, che sia un pezzo rock o un pezzo di musica classica … La poesia deve principalmente emozionare, coinvolgere tutti i sensi e guidarci in un percorso invisibile in cui potersi ritrovare e riconoscere.» (Valeria Tufariello)
Ciao Valeria,
benvenuta. Grazie per la tua disponibilità e per aver accettato il nostro
invito. Se volessi presentarti ai nostri lettori, cosa racconteresti di te
quale Valeria poetessa e scrittrice?
Sono una viaggiatrice del tempo, amo guardare intorno a me come fuori dal finestrino e cogliere ogni battito di vita e dargli forma, a volte i contorni sono un po’ confusi altre più chiari e nitidi come foto scattate a quello che ho intorno.
… chi è
invece Valeria donna che vive la sua quotidianità e cosa fa al di fuori
dell’arte dello scrivere che puoi raccontarci?
Sono una madre felice e questo ritengo sia la più grande espressione di poesia presente nella mia vita. Non vorrei sembrare retorica, ma io con i miei tre figli ho vissuto davvero uno stato di simbiotica beatitudine e riconoscenza, fatti di completamento, di ricerca e di crescita reciproca. Poi lavoro e sono (ancora) figlia… e non è poco!
Chi sono e chi sono stati i tuoi maestri
d’arte, se vogliamo usare questo termine? Qual è stato il tuo percorso
artistico/formativo ed esperienziale nel mondo della scrittura e della poesia?
La poesia per me è come la musica: amo tutto quello che mi fa emozionare, che sia un pezzo rock o un pezzo di musica classica. Così nella poesia spazio da autori classici a quelli più recenti (come Pessoa e Merini), attraverso le loro esperienze, che sono state la spinta che li ha guidati a trasformare quanto vissuto in parole, fino a farne un’opera d’arte.
Come definiresti il tuo stile poetico e la
tua poetica? C’è qualche poeta del passato o del presente al quale ti ispiri?
Raccontaci delle tue
poesie e dei tuoi libri. Quali sono che ami ricordare e di cui vuoi parlare ai
nostri lettori?
Forse la poesia a cui sono più legata è quella che mi ha dato la spinta per iniziare questo meraviglioso cammino ed è “Madre-perla”, dedicata a mia madre, alla fine di un percorso difficile in seguito ad una malattia. Poi quella dedicata all’autismo, ma anche l’ultima che mi ha vista vincitrice del secondo posto a gennaio, intitolata “Tre baci”.
So che hai vinto
tantissimi premi letterari e hai ricevuto tantissimi riconoscimenti per la tua
scrittura e per le tue opere poetiche. Ci racconti queste belle esperienze?
Cosa ti hanno lasciato e quali sono i riconoscimenti che ricordi con più
piacere e soddisfazione? E perché proprio quelli?
Difficile fare una selezione di quello che mi ha colpito di più, perché ogni poesia è un cammino importante ed ogni premiazione, che sia una segnalazione di merito o il premio del Presidente o un primo posto, mi ha riempito il cuore di emozione, perché penso al tempo dedicato a leggere i miei versi, a valutarli in assenza di sollecitazioni personali ed avere uno sguardo epurato da pregiudizi, mi fa sentire davvero una privilegiata. Voglio solo ricordare il primo posto ottenuto con la poesia su mia madre ma solo perché è stato il mio punto di partenza.
«Appartengo a
quella categoria di persone che ritiene che ogni azione debba essere portata a
termine. Non mi sono mai chiesto se dovevo affrontare o no un certo problema,
ma solo come affrontarlo.» (Giovanni Falcone, “Cose di cosa nostra”, VII ed., Rizzoli libri spa,
Milano, 2016, p. 25 | I edizione 1991). Tu a quale
categoria di persone appartieni, volendo rimanere nelle parole di Giovanni
Falcone? Sei una persona che punta un obiettivo e cerca in tutti i modi di
raggiungerlo con determinazione e impegno, oppure pensi che conti molto il fato
e la fortuna per avere successo nella vita e nelle cose che si fanno, al di là
dei talenti posseduti e dell’impegno e della disciplina che mettiamo in quello
che facciamo?
Parole di un grande Uomo. Sicuramente sono molto meno coraggiosa di lui, ma ho sempre sostenuto che se affrontassi la vita come faccio con la scrittura sarei capace di grandi cose… o forse no… ma l’approccio è di sicuro quello giusto: mi metto in gioco, non penso al dopo, butto fuori le emozioni, mi espongo e spesso mi “spoglio” e non temo i giudizi. Diversa cosa è la vita di tutti i giorni. Dico sempre che dovrei affrontarla con la forza che mi spinge a scrivere.
«Io vivo in una specie di fornace di affetti, amori, desideri,
invenzioni, creazioni, attività e sogni. Non posso descrivere la mia vita in
base ai fatti perché l’estasi non risiede nei fatti, in quello che succede o in
quello che faccio, ma in ciò che viene suscitato in me e in ciò che viene creato
grazie a tutto questo… Quello che voglio dire è che vivo una realtà al tempo
stesso fisica e metafisica…» (Anaïs Nin, “Fuoco”
in “Diari d’amore” terzo volume, 1986). Cosa pensi di queste parole
della grandissima scrittrice Anaïs Nin? E quando l’amore e i sentimenti così
poderosi incidono nella tua arte e nelle tue opere?
Come dico sempre: la scrittura, come la musica, mi ha salvato la vita. Trovo le parole della scrittrice Anaïs Nin altamente rappresentative della mia indole. L’amore, come tutti i sentimenti sono sempre presenti nelle mie opere, anzi sono loro che trovano posto nella mia scrittura. Per me scrivere è una vera e propria terapia, che mi consente di elaborare stati d’animo ed emozioni difficili da spiegare. La poesia mi permette di raccontare quello che mi emoziona e difficilmente fa parte del mondo tangibile, fino alla completa elaborazione di quello che ho dentro.
«…anche l’amore era fra le esperienze mistiche e pericolose, perché
toglie l’uomo dalle braccia della ragione e lo lascia letteralmente sospeso a
mezz’aria sopra un abisso senza fondo.» (Robert Musil, “L’uomo senza qualità”, Volume primo, p. 28,
Einaudi ed., 1996, Torino). Cosa pensi di questa frase di Robert Musil? Cos’è
l’amore per te e come secondo te è vissuto oggi l’amore nella nostra società
contemporanea, tecnologica e social?
Non mi rispecchia l’affermazione di Robert Musil. Senza amore non saprei vivere.
Paradossalmente riuscirei ad accontentarmi di un’esistenza senza sfarzi ma non
senza il lusso di poter amare… anche se implica sofferenza.
I social hanno un po’ devastato i rapporti. Ci si invaghisce di ologrammi. Si mette in gioco tutto per un’immagine che difficilmente corrisponde a dei contenuti tali da consentire un rapporto vero e si vive di illusioni, incapaci di toccarsi per timore di rovinare l’immagine statica che i social ci cuciono addosso…
«Direi che sono disgustato, o ancor meglio nauseato … C’è in giro un
sacco di poesia accademica. Mi arrivano libri o riviste da studenti che hanno
pochissima energia … non hanno fuoco o pazzia. La gente affabile non crea molto
bene. Questo non si applica soltanto ai giovani. Il poeta, più di tutti, deve
forgiarsi tra le fiamme degli stenti. Troppo latte materno non va bene. Se il
tipo di poesia è buona, io non ne ho vista. La teoria degli stenti e delle
privazioni può essere vecchia, ma è diventata vecchia perché era buona … Il mio
contributo è stato quello di rendere la poesia più libera e più semplificata,
l’ho resa più umana. L’ho resa più facile da seguire per gli altri. Ho
insegnato loro che si può scrivere una poesia allo stesso modo in cui si può
scrivere una lettera, che una poesia può perfino intrattenere, e che non ci
deve essere per forza qualcosa di sacro in essa.» (Intervista di William Childress, Charles
Bukowski, “Poetry Now, vol. 1, n.6, 1974, pp 1, 19, 21.). Tu da poeta cosa ne pensi
in proposito? Ha ragione Bukowski a dire queste cose? Cosa è oggi la poesia per
te, riprendendo il pensiero di Bukowski?
Concordo pienamente col pensiero del grande Bukowski. C’è l’assurda convinzione che la poesia debba necessariamente colpire attraverso l’utilizzo di termini ricercati, con l’intento di stupire. Secondo me è profondamente sbagliato. La poesia deve principalmente emozionare, coinvolgere tutti i sensi e guidarci in un percorso invisibile in cui potersi ritrovare e riconoscere. La funzione della scrittura è anche questa: dare voce a chi non sa trovare la strada per veicolare le proprie emozioni e riconoscersi e sentirsi capito e l’utilizzo di termini aulici, spesso scoraggia questi viaggi introspettivi.
«Il ruolo del poeta è pressoché nullo … tristemente nullo … il poeta, per definizione, è un mezzo uomo – un mollaccione, non è una persona reale, e non ha la forza di guidare uomini veri in questioni di sangue e coraggio.» (Intervista ad Arnold Kaye, Charles Bukowski Speaks Out, “Literary Times”, Chicaco, vol 2, n. 4, March 1963, pp. 1-7). Qual è la tua idea in proposito rispetto alle parole di Bukowski? Cosa pensi del ruolo del poeta nella società contemporanea, oggi social e tecnologica fino alla esasperazione? Oggi al poeta, secondo te, viene riconosciuto un ruolo sociale e culturale, oppure, come dice Bukowski, fa parte di una “élite” di intellettuali che si autoincensano reciprocamente, una sorta di “club” riservato ed esclusivo, senza incidere realmente nella società e nella cultura contemporanea?
Tristemente vera questa affermazione. Vivo sperando che qualcuno possa trovare un appiglio per sentirsi capito, nei versi di una poesia; che riesca attraverso la scrittura ad allontanare il senso di disperazione o – peggio – la depressione, male sempre più diffuso soprattutto fra i giovani, in una società basata più sull’apparire e non sull’essere.
«La lettura di buoni libri è una conversazione con i migliori uomini dei
secoli passati che ne sono stati gli autori, anzi come una conversazione
meditata, nella quale essi ci rivelano i loro pensieri migliori» (René Descartes in “Il discorso del metodo”, Leida, 1637).
Qualche secolo dopo Marcel Proust dice invece che: «La lettura, al contrario
della conversazione, consiste, per ciascuno di noi, nel ricevere un pensiero
nella solitudine, continuando cioè a godere dei poteri intellettuali che abbiamo
quando siamo soli con noi stessi e che invece la conversazione vanifica, a
poter essere stimolati, a lavorare su noi stessi nel pieno possesso delle
nostre facoltà spirituali.» (Marcel Proust, in “Sur la lecture”,
pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905 | In italiano,
Marcel Proust, “Del piacere di leggere”, Passigli ed., Firenze-Antella,
1998, p.30). Tu cosa ne pensi in proposito? Cos’è oggi leggere un libro? È
davvero una conversazione con chi lo ha scritto, come dice Cartesio, oppure è “ricevere
un pensiero nella solitudine” come dice Proust? Dicci il tuo pensiero…
Secondo me è più vicino a quello che dice Proust: “ricevere un pensiero nella solitudine”. Nella conversazione si rischia di essere distratti da elementi che poco hanno a che fare con il nostro spirito. Nell’interazione fatta di gestualità, di studio e di diretta osservazione del nostro interlocutore, siamo in grado di elaborare molto poco, perché incapaci, tra pensieri e impulsi, di ricevere quegli stimoli atti ad entrare in contatto con noi stessi; siamo “distolti” da ciò che appare e non da quello che realmente sentiamo.
«Ogni lettore,
quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di
strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere
quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso.» (Marcel Proust, in “Sur la lecture”, pubblicato su “La
Renaissance Latine”, 15 giugno 1905). Cosa ne pensi tu in proposito? Cosa
legge il lettore in uno scritto? Quello che ha nella testa “chi lo ha
scritto” oppure quello che gli appartiene e che altrimenti non vedrebbe?
È vero, spesso mi ritrovo immersa in letture alla ricerca di similitudini, o di esperienze che mi avvicinano al protagonista o versi che riescono a rappresentare il mio stato d’animo appieno; e quasi sempre mi scopro nascosta in qualche frase. Anche se, per me, esiste un confine sottilissimo tra quello che è scritto e che ci rappresenta davvero, e la necessità di riconoscersi in una storia per ottenere nuovi spunti o strumenti d’approccio che possano fornire nuovi strumenti per indagare meglio nel nostro spirito.
«I perdenti, come gli
autodidatti, hanno sempre conoscenze più vaste dei vincenti, se vuoi vincere
devi sapere una cosa sola e non perdere tempo a saperle tutte, il piacere
dell’erudizione è riservato ai perdenti.» (Umberto
Eco, “Numero Zero”, Bompiani ed., Milano, 2015). Cosa ne pensi di questa
frase del grande maestro Umberto Eco? In generale e nel mondo dell’arte, della
cultura, della letteratura contemporanea? Come secondo te va interpretata
considerato che oggi le TV, i mass media, i giornali, i social sono
popolati da “opinionisti-tuttologi” che si presentato come coloro che
sanno “tutto di tutto” ma poi non sanno “niente di niente”, ma
vengono subdolamente utilizzati per creare “opinione” nella gente comune
e, se vogliamo, nel “popolo” che magari di alcuni argomenti e temi sa
poco? Come mai secondo te oggi il mondo contemporaneo occidentale non si affida
più a chi le cose le sa veramente, dal punto di vista professionale,
accademico, scientifico, conoscitivo ed esperienziale, ma si affida e utilizza
esclusivamente personaggi che giustamente Umberto Eco definisce “autodidatti”
– e che io chiamo “tuttologi incompetenti” - ma che hanno assunto una
posizione di visibilità predominante che certamente influenza perversamente il
loro pubblico? Una posizione di predominio culturale all’insegna della
tuttologia e per certi versi di una sorta di disonestà intellettuale che da
questa prospettiva ha invaso il nostro Paese. Come ne escono l’Arte e la Cultura
da tutto questo secondo te?
La società in cui viviamo è, purtroppo, una fabbrica di cloni, di persone senza la minima percezione del se reale. Spiace dirlo perché in questo mondo viaggiano anche i nostri figli. I social hanno amplificato ed esasperato quelle dinamiche da cortile, che un tempo, appunto, restavano circoscritte in micro-realtà dei punti di ritrovo come il bar, il mercato o la piazza. Il sentito dire che viaggia alla velocità della luce e diventa il Verbo. Ho notato questo declino anche nel panorama musicale: è sufficiente condividere un brano musicale di scarso valore per farne la hit del momento, senza tener conto del vero valore del testo e della musica. Milioni e milioni di visualizzazioni fatte per la maggior parte da curiosi senza alcuna competenza, penalizzando così l’approfondimento tecnico. Come succede nelle dinamiche da tuttologi da cui siamo circondati che diffondono pareri non solo non richiesti, ma addirittura deleteri.
Quando parliamo di
bellezza, siamo così sicuri che quello che noi nati nel Novecento
intendiamo per bellezza sia lo stesso, per esempio, per i ragazzi delle Generazione
Z, Generazione Alpha o per i Millennial, per gli adolescenti
nati nel Ventunesimo secolo? E se questi canoni non sono uguali tra
loro, quando parliamo di bellezza che salverà il mondo, a quale bellezza ci
riferiamo?
Siamo ben lontani dall’idea bellezza come la intendiamo noi del secolo scorso. Oggi essere belli coincide con un canone estetico massificante che poco ha a che vedere con il rispetto delle caratteristiche di ognuno. Gli influencer sono un po’ il vero pericolo perché in quanto famosi possono creare tendenze senza tener conto dell’effettivo risvolto che può scaturirne. In alcuni video ho visto un’influencer che comunica alla madre di essere rimasta incinta e doveva ancora terminare il liceo. Sembrava tutto un gioco. La mia impressione è che manchi il senso di responsabilità. Nulla da dire, se la cosa non avesse conseguenze serie. Ho visto ragazze entrare in depressione o avere disturbi alimentari seri, per vestire qualche taglia in meno come visto nei video di tendenza. Troverei più utile se usassero la loro notorietà per sensibilizzare tematiche delicate, ma non tutti lo fanno.
Esiste oggi secondo te una
disciplina che educa alla bellezza? La cosiddetta estetica della cultura
dell'antica Grecia e della filosofia speculativa di fine Ottocento inizi
Novecento?
L’educazione alla bellezza, secondo me, è necessario che passi attraverso
il rispetto per se stessi. Comprendere ed accettarsi. Fare della propria
unicità un vanto e non uno scoglio da superare per assomigliare a qualcun
altro. L’educazione alla bellezza è una questione culturale che parte
dall’attribuire un valore a ciò che facciamo e siamo.
Un arricchimento che deve necessariamente partire da un approfondimento di tematiche e valori che forse si sono un po’ persi. Riscoprire la cultura del bello come sinonimo di unico. Esattamente come l’essere umano.
«C’è un
interesse in ciò che è nascosto e ciò che il visibile non ci mostra. Questo
interesse può assumere le forme di un sentimento decisamente intenso, una sorta
di conflitto, direi, tra visibile nascosto e visibile apparente.» (René Magritte, 1898-1967).
Cosa ne pensi di questa frase detta da Magritte? Nelle arti visive e nella
letteratura, qual è, secondo te, il messaggio più incisivo? Quello che è
visibile, esplicito e di immediata comprensione oppure quello che, pur non
essendo visibile, per associazione mentale e per meccanismi psicologici
proiettivi scatena nell’osservatore emozioni imprevedibili e intense?
Se parliamo di interesse, sicuramente questo nasce per un qualcosa che attrae e che difficilmente accade se è di evidente visibilità. Diversa cosa è trovarsi dinanzi a ciò che è celato; in noi si attiva un impegno “investigativo” spinto dalla curiosità che accentua le nostre capacità di ricerca. Non a caso nell’arte la simbologia era ben nascosta e il significato non saltava subito all’occhio. In un quadro di insieme apprezzi l’opera nella sua forma e nei colori, ma solo un occhio attento può cogliere ciò che era intenzione dell’autore trasmettere realmente.
Se casualmente
ti ritrovassi in ascensore con un grande editore quale Einaudi, Feltrinelli,
Rizzoli, Mondadori, tu e l’Amministratore Delegato di una di questa Case
Editrici importantissime, da soli, e avessi un minuto di tempo per sfruttare
quell’occasione incredibile e imprevedibile, presentarti e convincerlo a
pubblicare il tuo libro, cosa gli diresti di te quale poeta e autore?
Per trovare le giuste parole senza apparire invadente, proverei a spiegare che da piccola avrei dato qualsiasi cosa per leggere parole dove trovare rifugio e conforto e in cui potermi ritrovare, mi avrebbe fatto sentire meno sola ed incompresa e che vorrei dare la possibilità a qualcun altro di imparare a volare e ad amarsi per ciò che è, a conferma che bisogna inseguire i propri sogni per poterli toccare… e non c’è niente di più bello che stringere un libro fra le mani.
«Avere un
nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per
procuraci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e
mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro. Pertanto, quando il nemico non ci
sia, occorre costruirlo. (…) Ed ecco che in questa occasione non ci interessa
tanto il fenomeno quasi naturale di individuazione di un nemico che ci
minaccia, quando il processo di produzione e demonizzazione del nemico» (Umberto Eco, “Costruire il nemico”, La
nave di Teseo ed., Milano, 2021, p.7). Riprendendo le parole di Eco, qual è il
tuo nemico? Chi senti come nemico nella tua vita di oggi e chi è stato il tuo
nemico nel passato? In altre parole, da cosa ti sei sentito e oggi da cosa ti
senti minacciato, da un punto di vista più culturale, etico e morale, che
fisico ovviamente, e contro cosa combatti nella tua quotidianità?
Forse sono io il peggior nemico di me stessa. Non credo e poi si. Cammino e poi arretro. Mi metto in gioco e poi dubito. Fluttuo nell’incertezza di ciò che sono stata, che sono e che voglio essere. Nella scrittura per fortuna mi sento a mio agio, un po’ come nella poesia “L’Albatros” di Baudelaire: goffa, impacciata ed insicura nella vita, finché non ho l’opportunità di scoprire un nuovo verso, delle nuove rime o parole perfette legate tra loro, da permettermi di volare libera nel vento.
Sicuramente un grosso grazie lo devo a chi mi ha apprezzata e poi invogliata a percorrere questa strada. A chi ha creduto in me prima ancora che lo facessi io. C’è chi trovava del bello anche nei i miei commenti o nelle descrizioni che accompagnavano delle foto – sempre tramite social – ed i miei figli che mi hanno dato diversi spunti su cui riflettere e poi creare, osservandoli nel loro cammino.
Se dovessi consigliare ai nostri lettori tre film
da vedere quali consiglieresti e perché?
I film che mi emozionano e che rivedo ogni volta che passano in tv sono “Le ali della libertà” e “Il miglio verde”. Spesso mi sono sentita imprigionata o vincolata, in situazioni di difficile gestione, che mi hanno un po’ spinta a disegnare un mondo colorato cui appigliarmi, per sognare aldilà di quelle sbarre… un po’ come capita ai protagonisti di queste due straordinarie pellicole, dove cercano una ragione per vivere oltre quell’ingiusta oscurità.
E tre libri da leggere assolutamente nei
prossimi mesi? Quali e perché proprio quelli?
Sicuramente consiglierei di leggere il proprio diario, sempre che se ne abbia uno, così da vedere il cammino percorso fin qui. E poi amo molto il modo di scrivere di Gramellini. Infine le “Novelle brevi di Sicilia” dove ho trovato personaggi scolpiti a tuttotondo, così perfetti da poterli toccare. Caratteri personalità e dinamiche da sembrare visibili come in un film. Il tutto tenuto su da una sapiente capacità narrativa.
I tuoi prossimi progetti? Cosa ti aspetta nel tuo
futuro professionale e artistico che puoi raccontarci?
Sto cercando di raccogliere le poesie e i racconti che hanno ricevuto dei premi e provare a pubblicarli. Per ora sono stati solo pubblicati in raccolte antologiche Autori Vari.
Dove potranno seguirti i nostri lettori?
https://www.facebook.com/valeria.tufariello
https://www.instagram.com/valeria_tufariello/
Come vuoi concludere questa chiacchierata e cosa vuoi dire a chi
leggerà questa intervista?
Con un augurio, quello di riscoprire il valore del tempo. Il tempo
di leggere, quello di scrivere e quello di emozionarsi, godendo di ogni singolo
attimo nel momento esatto in cui tutto accade.