di Giuseppe Lalli -
L’AQUILA - Nelle elezioni comunali aquilane di domenica 12 giugno 2022, al di là dello straordinario risultato del sindaco uscente Pierluigi Biondi, superiore addirittura ai più ottimistici pronostici, e sul quale molto ci sarebbe da riflettere, c’è stato un indubbio successo di Americo Di Benedetto, successo in senso assoluto, non certo in relazione ai risultati effettivi, successo sostanziale, non formale, successo simbolico.
Ma in politica - si sa - i simboli contano, eccome. I suoi amici e sostenitori lunedì pomeriggio, nella sede in Corso Vittorio Emanuele II, non ne erano molto consapevoli, anzi sembravano in lutto, avevano visi lugubri. Che cosa mai si potevano aspettare? Se aveva perso cinque anni fa col 47%, perché mai avrebbe dovuto vincere, in un eventuale ballottaggio, questa volta con un sospirato 27-28% dei voti contro un probabile 48-49% di Biondi? C’è sempre nelle battaglie elettorali una retorica sulla vittoria finale che accende i cuori. È comprensibile, ma le bolle emotive è bene che si sgonfino e che il cuore ceda presto il passo alla testa.
C’è ragione di supporre che all’Aquila il centrosinistra, anche unito, sarebbe stato sconfitto da quella che fin dall’inizio è apparsa una invincibile armata. Ce lo ricorda la storia elettorale aquilana e nazionale: quando il centrodestra è unito difficilmente perde, soprattutto quando ha avuto a disposizione “la macchina” per cinque anni. Più in generale, il centrodestra, prima ancora che uno schieramento politico, è un blocco socio-culturale.
Indipendentemente dalla sua interna e fluttuante articolazione politica, rappresenta, piaccia o non piaccia, la pancia profonda della nazione: una sorta di coacervo di interessi e valori che per tanti aspetti lo fanno erede, sia pure in un contesto storico assai diverso e con un approccio culturale meno nobile, della vecchia Democrazia Cristiana, quella della diga anticomunista.
Il centrosinistra è invece un arcipelago politico, dove un sincero liberalismo ed europeismo convivono con la retorica dei diritti civili, ciò che nella sinistra post-comunista ha sostituito il mito della rivoluzione sociale. Tra i due elettorati, inoltre, non ci sono vasi comunicanti.
Quello che Di Benedetto sa bene, ma ha cercato di non darlo a vedere, è che la sua immagine è stata fin dall’inizio offuscata dall’essere stato presentato dalla stampa, locale e nazionale - e percepito dall’opinione pubblica - non come il candidato di un “terzo polo”, quale di fatto è apparso a molti potenziali elettori, ma come un dissidente del centro-sinistra, uno spezzone dell’area progressista che si accingeva a fare le “primarie” vere e magari a regolare qualche vecchio conto con il Partito Democratico, partito nel quale aveva militato.
Ciò - a ragione o a torto poco importa (in politica contano i simboli, come si diceva) - lo ha esposto e lo esporrà alle critiche mordaci degli esponenti locali del centrosinistra ufficiale e malamente soccombente, che gli imputeranno – qualcuno lo ha già fatto – la responsabilità della vittoria, anzi del trionfo, del centrodestra.
Se invece fin dall’inizio avesse potuto mettere in risalto il suo profilo autenticamente “liberal-sociale” e rivendicare di essere “altro” rispetto ad entrambi i poli, se non avesse polemizzato a senso unico contro Biondi, avrebbe potuto più agevolmente erodere consensi tra i moderati dello schieramento del sindaco uscente, che a conti fatti sono la maggioranza, ciò che gli avrebbe propiziato la possibilità di un ballottaggio con rapporti più equilibrati.
È questo un equivoco politico che l’ex sindaco di Acciano, attuale consigliere regionale, è chiamato a chiarire nei prossimi mesi. C’è ragione di credere che la straordinaria messe di “voto disgiunto” (elettori dei candidati a consigliere degli altri due schieramenti che lo hanno votato come sindaco) di cui Di Benedetto ha beneficiato esprime, oltre alla stima personale di cui gode tra gli Aquilani anche in virtù della sua competenza amministrativa, la voglia di moderazione, la voglia - diciamolo pure - di “centro” di molti elettori che non si ritrovano in un bipolarismo muscolare e contaminato, dall’una parte e dall’altra, da dosi massicce di populismo e di demagogia.
Ma c’è bisogno ancor più di un “centro dei valori”, quelli della democrazia liberale e dell’umanesimo cristiano, sia pure, questi ultimi, declinati laicamente, valori che pongano al centro la persona umana tutta intera: Benedetto Croce e Luigi Sturzo, per intenderci (se questi nomi dicono ancora qualcosa), insieme al pragmatismo delle cose concrete e all’attenzione quotidiana agli ultimi e verso chi produce e rischia in proprio.
Valori esaltati dal popolarismo, quella grande visione
politica del Novecento che una classe politica superficiale e impreparata,
negli ultimi decenni, ha dapprima richiamato e poi frettolosamente archiviato. Americo Di Benedetto, che da quella
tradizione politica proviene, aveva - ed ha - tutte le carte in regola per seguire
ed aggiornare la via tracciata negli anni scorsi all’Aquila da Attilio Cecchini
e Angelo De Nicola (è sempre bene cercare di riallacciare i fili
interrotti di una esperienza feconda). Servirebbe per L’Aquila, per l’Abruzzo
e per l’Italia un nuovo “appello
ai liberi e forti”.