Una donna, il rapporto con il suo corpo, la bulimia. La storia di Livia, il suo percorso che la porterà dal non volersi bene alla vittoria. Questo e molto di più "Ho amato anche la terra" (Hacca edizioni), nuovo libro di Maura Chiulli: Fattitaliani l'ha intervistata.
Chi vedevi in Livia durante la scrittura? Chi hai voluto rappresentare in lei?Livia ha quarant’anni ed è sola, o almeno crede di essere sola. Immagina di aver perso tutto, di non poter abitare nessun luogo del mondo, oltre il suo corpo: uno spazio piccolo e crudele nel quale si sente imprigionata. Ho visto Livia e il suo corpo e ho raccontato la condizione di una donna che non si sente autorizzata a desiderare, a volere. Per Livia, educata al sacrificio e alla rinuncia, non esiste lo spazio squilibrato e vivo dei desideri, della volontà. Per immaginare Livia ho dato retta a tante voci che provengono da dentro il mio corpo che non è il suo, ma che come il suo parla molto e si trasforma. Diventa bello quando desidero, diventa un mostro, quando mi faccio schiacciare dal dover essere.
È successo durante la
stesura che Livia abbia preso una strada narrativa differente dagli iniziali
propositi?
Quando scrivo, unico lungo momento in cui davvero sono in contatto con me, capita spesso che dall’idea che ho in testa, poi la storia prenda pieghe diverse. È accaduto anche per Livia. All’inizio avevo scelto la strada dei disturbi alimentari per esempio, poi l’ho abbandonata. Scrivendo, Livia mi ha raccontato un’altra storia, quella di Corpo, che è tutto pensiero, tutto linguaggio. Non lo so se Livia pesa davvero centoventi chili o trenta chili. Ma so per certo che lei diventa ogni volta i suoi pensieri. Così il romanzo è cambiato e il corpo di Livia è diventato il soggetto. Ha cominciato a parlare, a dirmi che si faceva grosso se i pensieri che lo schiacciavano erano grossi, che si faceva pelle o ossa se la paura era troppa e se per difendersi dal mondo ci volevano le spine, le ossa appuntite.
Che contesto la circonda?
Quanto la influenza?
La circonda una vita solitaria, senza amore, senza coinvolgimento. C’è un lavoro in banca che non ha mai desiderato, una città che lei detesta -Roma-, una madre anziana che vive ormai in una casa di riposo e con la quale non si è mai scambiata un abbraccio. Ma nel suo passato si agitano ricordi vividi, di emozioni forti, di cui lei è stata capace. Ed è Corpo che li custodisce, che li lascia andare, che ricorda a Livia che esiste una possibilità. Sono sufficientemente convinta che con i nostri pensieri determiniamo, oltre alla consistenza e al valore delle nostre anatomie, anche la bellezza o la desolazione del contesto in cui viviamo o facciamo finta di vivere.
Alla fine il tuo sguardo su
di lei qual è stato? Compassione, comprensione, complicità?
Livia l’ho vista, l’ho sentita e l’ho raccontata. Dando voce, come dicevo prima, un poco anche alle voci del mio corpo. Non sono lei e le nostre vite non si confondono mai. Tuttavia, parlo qualcuna delle sue lingue straniere. Il mio rapporto con lei è di complicità, di vicinanza, anzi, di sorellanza.
Che cosa speri che i lettori
possano provare alla lettura del romanzo?