di Pierfranco Bruni - Tra
Leonida e Ibico la cultura greca è dentro in modello letterario, filosofico e
antropologico che ha come riferimento il mare. Il mare della Magna Grecia o la
Magna Grecia come dimensione ontologica di un pensare che giu ge sino ad Ovidio
e oltre. Infatti sulle vie, rive sponde, della Magna Grecia camminano e
navigano i poeti del Mediterraneo. I poeti che racchiudono le lingue nelle
emozioni, la percezione della parola nella intuizione, il senso del viaggio
nella memoria che diventa viaggiante. Sono i poeti di una eredità greca,
romana, adriatica e in un Occidente che penetro l’Oriente e viceversa. Sono i
poeti della cesellatura del distico.
Un Progetto che porto avanti dal 2004 con l'antologia poetica
"Da una sponda all'altra" con il ministero della cultura. Andato
avanti nel 2008 con i poeti mediterranei in piazza e nel 2012 con "Sulle
sponde della Magna Grecia". Successivamente con il Novecento della poesia
tra mare e terra e poi con :Sulle rive dello Jonio". Una eredita che è
vibrante nel Novecento della poesia italiana tra Quasimodo, appunto, e Raffaele
Carrieri.
Quasimodo ha radici arabe. Pierro è arabo nel suo dialetto ma
anche nella sua canzone per “Metaponto”. Sinisgalli batte le monete rosse sui
gradini delle chiese e sembrano tocchi urlati dalle moschee. Gatto si riconosce
nella sua Salerno che riporta gli echi del padre che è radice. Alvaro cerca un
viaggio di mezzo tra il provenzale e il grecanico. Carrieri è un tuffo in una
grecità tarantina che ha il suono delle alchimie dei sufi.
Quanta cultura sufica c’è in Raffaele Carrieri? È una domanda
alla quale bisogna rispondere. La poesia islamica, poesia medievale a
cominciare da Rumi sino a tutta la tradizione dei dervisci danzanti, è dentro
il cadenzare di Raffaele Carrieri.
Scotellaro ritrova nel mondo contadino una antropologia delle
stagioni. Francesco Grisi calca il sentiero mesopotamico. C’è un Mediterraneo
dentro i dettagli della poesia moderna di ciò che è stata Magna Grecia. Uno dei
poeti che ha raccontato questo intreccio in termini sublimari è Stefano
D’Arrigo. Accanto a Stefano si legano Lucio Piccolo, Gesualdo Bufalino, Bartolo
Cattafi. Lorenzo Calogero incide il pianto della contemplazione. Franco
Costabile con la sua “rosa nel bicchiere” canta lo spaziare del tempo tra
la sua Calabria e i mari del Sud in un Oriente che custodisce orizzonti.
Credo che ci sia un legame significativo tra Raffaele Carrieri,
poeta della Taranto greco – musulmana (la metafora è nella letteratura del
binomio tra l’Oriente greco e il sufismo dei dervisci), Albino Pierro
(soprattutto quello della poesia in lingua italiana: la sua rabatana è un
rimando, con Sinisgalli, a un mondo prettamente arabo), Francesco Grisi (la cui
poesia ritrova nella cultura biblica i luoghi del deserto e dei viaggiatori del
deserto) e Gesualdo Bufalino (i cui echi sono intrecci di mediterranei
includenti tra la Sicilia e l’Oriente), Alfonso Gatto che ha fatto della
memoria una chiusa di nostalgie in una ricordanza che è estasi.
È su queste dimensioni che hanno dell’onirico, è su questi percorsi
che la Magna Grecia viene ad essere assorbita nella parola e nell’anima
che sono nel mito della mediterraneità. Perché tutto ha una coscienza dentro la
mediterraneità. Questi poeti sono linguaggi di terra e di acqua. Sono poeti che
non hanno mai smesso di confrontarsi con le civiltà perdute e con quelle
culture che superano notevolmente la parafrasi e lo schema semantico
civile-morale per soffermare l’attenzione su un maestro sufi qual è khayyam e
la tradizione endacasillabica-ermetica. Ma con questo maestro hanno dovuto fare
i conti sia Pascoli, senza il cui incontro sarebbe rimasto il poeta delle
geremie, come ho dimostrato in un libro di qualche anno fa, Cardarelli , il
poeta delle malinconie vitali, Ungaretti che lega la terra promessa al mondo
islamico-musulmano.
Siamo, dunque, a quella poesia che è Magna Grecia, ma riesce a
respirare l’onirico e il superamento della storia attraverso l’estetica e la
perforazione degli sguardi. Perforare uno sguardo. Un’espressione terribile. Ma
la poesia è terribile. Non è il riposo. Non è la dolcezza o il pianto
carducciano tardo ottocento.
La poesia è la ferita che penetra lo sguardo e tocca l’anima.
Carrieri, Pierro, Grisi, Bufalino, Gatto sono nella modernità del contemporaneo
perché hanno rischiato la parola dentro il mosaico del linguaggio. È certo che
sono soltanto alcuni dei poeti da me studiati dentro lo scenario
dell’oltre il suicidio della classicità atavica. Tracce. Ma di tracce e
dettagli è fatta la poesia. Perché di dettagli e tracce è fatta l’esistenza.
L’esistenza dei poeti. Di quelli che mai hanno ceduto al giudizio un loro
verso, convinti che il verso non va spiegato e tanto meno commentato.
La poesia è delirio, non esclamazione. La bellezza del delirio
in metafore fa delle civiltà delle lettere l'estetica permanente in estasi.
Forse una follia che si trova nell’estetica della parola che è musica nel suono
danzante dei dervisci, delle danzatrici arabe, del sale degli Oriente nel volto
della donna di Magdala che non chiede perdono e neppure di capire. Ma di
restare impressa nella nostra vita come un Cantico tra i Cantici. La Magna
Grecia è mito negli archetipi ma anche dei Cantici fa vibrare il canto tra una
"confessione come genere letterario" e la divina metafisica degli dei
in divino. Il Mediterraneo in poesia e in letteratura è un vocabolario
assorbito dalle pieghe tra attese ed espressioni in un intreccio di Orienti e
Occidenti. La Magna Grecia è un Provenza dell'anima oltre una geografia
antropologica e la poesia resta il riferimento smaterializzato. Il progetto da
qui è cominciato e continua nelle sue tappe tra identità e appartenenze nel
segno delle radici e del linguaggio.