di Angela Casilli.
Il silenzio del diritto mentre la
guerra infuria in Ucraina, alle
porte dell’Europa, è il segno manifesto, ancora una volta, della sua difficoltà
a farsi ascoltare quando divampano gli incendi dei popoli e gli Stati entrano
in guerra, per uscirne vincitori o vinti e distruggere vecchi ordini e crearne
nuovi.
La voce del diritto mentre
infuria la guerra, è debole, sommessa, inascoltata, riemerge possente quando
gli uomini terminate le ostilità, le stragi, i bagni di sangue, si trovano a
dover progettare ordini diversi da quelli del passato e si accorgono che ci
sono conti da regolare, finzioni diplomatiche, ipocrisie politiche da
soddisfare, verità storiche da proporre come assolute.
I vincitori riscoprono allora il
diritto, che non è quello penale o civile che si studia nelle aule
universitarie, ma quello costituzionale e quello internazionale, quello che è
alla base della ripartenza dei popoli belligeranti e quello che cerca di
ridisegnare nuove forme di convivenza, dopo aver cercato l’impegno di tutti a
superare odi e diffidenze.
Dopo il processo di Norimberga,
lo sforzo più grande fu quello di creare un diritto internazionale e una Corte
di giustizia per giudicare e condannare i crimini di guerra, come appunto
quello dell’Aia, che non fosse un semplice tribunale dei vincitori, come fu
invece quello di Norimberga, su cui gravano ancora oggi gli interrogativi di
sempre, che sono l’anteriorità della norma violata, l’assoluta imparzialità,
soprattutto politica ed economica del terzo giudicante, chi vuole
intendere intenda, l’esecuzione troppo
spesso coercitiva della sentenza emessa
dalla Corte stessa.
Chi accusa, non può mai essere
oltre che accusatore anche giudice e quindi emanare sentenze o imporre
sanzioni, sarebbe in ogni caso la morte del diritto stesso, per questo è
necessario la figura di un “terzo” giudicante che sia al di sopra delle parti
in contesa e, ne possa accertare la colpevolezza o l’innocenza.
La guerra segna il tramonto e la
fine di vecchi ordini, di ceti dirigenti, di classi sociali, di altri promuove
la nascita e lo sviluppo, tenendo presenti, però, che nulla ritorna come prima
e che quello che nasce o si annuncia, è spesso fuori da ogni disegno di governi
e statisti, per una naturale eterogenesi dei fini, come il filosofo tedesco Wundt definisce il principio in
base al quale i fini che la storia persegue, non sono quelli che gli individui
o le comunità si propongono, bensì quelli risultanti dal rapporto o dal
contrasto esistente tra le volontà dei più e le condizioni oggettive
del’operare, in sintesi, dal farsi e determinarsi delle cose.
Ricostruire dalle macerie è
difficile e nulla sarà come prima; enormi saranno le difficoltà con cui i
governi dovranno misurarsi, con la speranza che alla guida degli Stati non più
belligeranti ci siano uomini veri, che sono poi quelli che costruiscono non
solo per se stessi ma soprattutto per gli altri e, pronti ad ascoltare la voce
del diritto.