di Daniela Piesco* - Le manovre legislative di Israele risalgono al 1951, quando nella Convenzione delle Nazioni Unite sullo Stato dei rifugiati ottenne di non riconoscere come rifugiati i Palestinesi costretti a lasciare quello che nel 1948 divenne Israele, purché ricevessero assistenza dall’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro. Un’esclusione ancora oggi in vigore. Da quella eccezione, Israele ha fatto tutto quanto è in suo potere per continuare a manipolare ed evitare di aderire a quelle convenzioni di diritto internazionale che disciplinano i rifugiati.
Negli anni ’50 e ’60, Israele mantenne i circa 160.000 Palestinesi che non erano fuggiti o non erano stati espulsi durante la guerra del 1948 sotto quello che equivaleva a un regime di legge marziale, dichiarando che il Paese era ancora in stato di emergenza e adottando quello che divenne noto come il “Defense Emergency Regulations”. Facendo così, Israele diede una connotazione razziale alla legge marziale per “spogliare, spostare e soprattutto contenere la sua popolazione nativa”.
Anche prima dell’eccezione del 1951, Israele aveva adottato misure legali per raggiungere questo obiettivo. Nel giugno del 1948 furono dati ordini per impedire “con ogni mezzo” il ritorno dei profughi palestinesi e si stima che tra i 3.000 ei 5.000 Palestinesi che tentarono di tornare furono uccisi dalle truppe israeliane lungo le linee dell’armistizio del 1949. Nel 1950 Israele approvò la legge sulle proprietà degli assenti, che ha effettivamente espropriato circa 750.000 rifugiati palestinesi a cui venne negato il diritto al rientro così da poter rivendicare le loro terre. Molti Palestinesi rimasti in Israele furono dichiarati “assenti presenti” e anche le loro terre furono confiscate.
Dopo la guerra del 1967, Israele si trovò di fronte a una nuova serie di convenzioni che doveva sconfiggere: quelle leggi internazionali che si applicano alla guerra e all’occupazione. Con l’occupazione di Gaza e della Cisgiordania (inclusa Gerusalemme Est), i leader israeliani dovettero sviluppare un approccio su vasta scala per legalizzare la loro occupazione di terra palestinese, che era in violazione del diritto internazionale che si applica a quegli Stati che hanno conquistato del territorio durante una guerra.
Tutte queste erano delle chiare violazioni dei principi contenuti ed espressi nella Quarta Convenzione di Ginevra, motivate con il fatto che la Giordania non aveva una legittima sovranità sulla Cisgiordania, e dunque il territorio che Israele ora controllava non era occupato, era un territorio sui generis senza paralleli giuridici; perciò a Israele fu concesso di esercitare la sua autorità.
Israele affermava inoltre che,
poiché i territori sequestrati non erano controllati legittimamente da un altro
Stato, non esistevano leggi internazionali a cui Israele potesse fare riferimento per governare un tale territorio e
dunque esercitava un atto sovrano generato da una circostanza unica.
La giustificazione ancora più eccezionale dello stato di eccezione: questi insediamenti erano necessari per la sicurezza di Israele. Inoltre fino a quando Israele aveva una Corte Suprema alla quale i Palestinesi potevano fare appello, la situazione non poteva essere così grave.
Col tempo, la giustificazione che gli insediamenti rafforzavano la sicurezza di Israele dimostrò di avere delle basi deboli, mentre la Corte Suprema, quando le si presentò l’opportunità di pronunciarsi sulla legalità degli insediamenti civili nei Territori Occupati, concluse che non era una questione legale, ma politica, quindi al di fuori delle competenze della Corte.
Con Yasser Arafat, “il comandante generale della rivoluzione palestinese”, la questione palestinese fu trasformata “da una crisi umanitaria, caratterizzata dalla schiacciante presenza di una popolazione di rifugiati in esilio in tutto il mondo arabo, in una crisi politica segnata dal fallimento delle attuali ed ex potenze coloniali nel consegnare la sovranità e l’indipendenza a un popolo colonizzato.” Ma il Movimento di Liberazione Palestinese si è dedicato alla creazione di uno Stato palestinese con Israele o al posto di Israele? Mentre i negoziatori palestinesi inizialmente cercarono di ottenere da Israele la promessa di cessare qualsiasi attività di insediamento, finirono per accettare qualcosa di molto meno: l’offerta di Israele di riconoscere l’OLP come rappresentanti del popolo palestinese.
In realtà l’Autorità palestinese interiorizzò la logica coloniale secondo la quale l’osservanza e il buon comportamento sarebbero stati premiati con indipendenza. Così, firmando un accordo del genere, l’OLP non minò solo le più ampie rivendicazioni legali dei Palestinesi, ma alterò gravemente il movimento nazionale palestinese post-1965 e lo trasformò in una parte critica dell’apparato coloniale israeliano, piuttosto che essere il principale ostacolo a quell’apparato. Spesso accade che la volontà politica tende a minare le norme legali. Così continuò ad essere anche con l’amministrazione Trump, che concesse a Israele ancora più impunità.
Quando durante la campagna di rielezione il Primo Ministro Benjamin Netanyahu promise di annettere gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, gli Stati Uniti non sollevarono dubbi sulla sua legalità - in realtà, l’amministrazione Trump aveva appena riconosciuto l’annessione israeliana delle alture del Golan siriano. Trump non si smentì e nella vicenda dimostrò ancora una volta di essere oltre: oltre la legge, oltre l’eccezione e oltre. Un trionfo dell’irregolarità e l’emersione del sommerso: la rivendicazione principale dei Palestinesi è l’appartenenza non il controllo.
La legge dovrebbe essere il meccanismo per raggiungere questo diritto di appartenenza. Quella stessa legge internazionale che non è riuscita a regolare o frenare il progetto coloniale di Israele. Ma Israele, anche se ha avuto successo nell’evitare l’applicazione del diritto internazionale e nell’ingannare la leadership palestinese, ha allo stesso tempo agito contro i propri interessi, precludendo la possibilità di pace. Per quanto limitata fosse stata la leadership di Arafat, questi era pronto a un compromesso con i suoi avversari. Rifiutando la sua disponibilità al compromesso, Israele ha perpetuato il conflitto.
La Lega araba ha definito “crimine di guerra” e “flagrante violazione” del diritto internazionale la volontà israelianadi avviare un piano di annessione di parte dei territori della Cisgiordania, chiedendo “alla comunità internazionale e all’Onu di assumersi le proprie responsabilità per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale”. In precedenza, anche il Commissario agli affari esteri dell’Ue aveva condannato ufficialmente l’annuncio di Netanyahu di voler annettere ad Israele parti dei territori occupati della Cisgiordania.
Saeb Erekat, segretario generale del Comitato esecutivo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), in videoconferenza con il Forward Thinking a Londra e la Harvard University negli Stati Uniti, invitò la comunità internazionale a non consentire al governo israeliano di proseguire nel piano di attuazione dell’apartheid e di quello di annessione della Cisgiordania, aggiungendo, che fosse indispensabile la necessità di convocare una conferenza di pace sulla base del diritto internazionale e delle risoluzioni delle Nazioni Unite allo scopo di porre fine all’occupazione israeliana, con il conseguente riconoscimento dello Stato indipendente della Palestina con Gerusalemme Est come capitale entro i confini del 1967.
Si potrebbe nutrire ancora qualche speranza di pace se ci fosse la concreta applicazione di un diritto internazionale. Se ci fosse la certezza che il diritto internazionale agisse da arbitro per risolvere i conflitti assolvendo proprio alla sua stessa funzione. Se così fosse sarebbe tanto vero da apparire strano e tanto strano da potersi avverare. Se così fosse continuerebbe a coesistere un Medio Oriente con il resto del mondo.
*Vice Direttore www.progetto-radici.it