Entrambi, guardando dentro se stessi come
allo specchio, si disprezzano e si commiserano. Piangono e ridono di sé. Entrambi
insomma sono espressione di grande umorismo.
La modernità e le sue contraddizioni, dunque, costituiscono un punto di incontro. Ma, se in Sir William Shakespeare, ti sei occupato dei suoi albori nell’Inghilterra elisabettiana, crocevia di tradizione e innovazioni, protagonista de L’ombra del passato è la Torino del secondo dopoguerra che nel tuo romanzo risulta non meno ambivalente.
Torino è una città, una grande città,
industriale e meccanica, e nel secondo dopoguerra lo era ancora più di oggi -
fatte naturalmente le debite proporzioni.
Nella Torino de L’ombra del passato, l'uomo
è costretto a fare i conti con l'automatismo disumano della vita moderna, in
cui gli individui agiscono, anzi funzionano, come le lancette di un orologio,
gli ingranaggi di un meccanismo.
Paradossalmente però Torino, nonostante il
caos, il dinamismo esasperato, l'efficienza produttiva, è anche la città
sospesa nello spazio e nel tempo delle prime piazze d’Italia di Giorgio de
Chirico. È dunque una città metafisica prossima alle atmosfere dei paesaggi
urbani di Edward Hopper, l'estetica e la poetica dei quali ha ispirato il
cinema nero hollywoodiano almeno quanto i dipinti di Grosz e Dix hanno condizionato
quello espressionista di Weimar in cui esso affonda le proprie radici.
Naturalmente trattandosi di una Torino
d'altri tempi ho cercato di descriverla attraverso foto d'epoca e il confronto
con le altre città italiane dei film neorealistici di Rossellini, De Sica,
Visconti, Lattuada.
Ma esiste anche un legame affetto e
famigliare, perché alcuni episodi del romanzo, alcuni ricordi di Artusio, sono
tratti dai racconti di due anziane prozie alle quali ho voluto molto bene:
hanno segnato la mia giovinezza e, evidentemente, continuano a vivere in me e a
parlare alla mia immaginazione.
In passato hai pubblicato uno studio di
critica cinematografica (e non solo), intitolato Prima e dopo il noir.
E, infatti, se non sbaglio, tieni a definire L’ombra del passato un
romanzo hard-boiled, riferendoti alla letteratura investigativa
statunitense dalla quale sono stati tratti numerosi film noir hollywoodiani.
Puoi parlarci del tuo rapporto con questo genere letterario e cinematografico?
Di quando e come è avvenuto questo incontro?
La passione per il cinema d'autore e il
cinema noir in particolare, un cinema polemico e militante, è in realtà l'esito
di un incontro piuttosto recente, avvenuto all’incirca una decina di anni fa, quando
cioè ero comunque già abbastanza maturo da poter lasciare che esso mi segnasse.
Quanto all'investigazione, l’incontro è, se
possibile, ancora successivo e risale al momento in cui ho iniziato a dedicarmi
alla scrittura: è evidente, infatti, che scrivere – di qualunque argomento si
tratti – implica investigare. La società, gli altri, se stessi.
Nell'indagine si ricorre alla lente di ingrandimento. La lente attraverso la quale osservo io il mondo, non solo nel caso de L'ombra del passato, è quella del dubbio e della disobbedienza rispetto alle mode, dell’inattualità, tipica del cinema noir che fu una spina nel fianco per l'establishment del Paese più compiaciuto e borghese del secolo scorso.
Il secolo
scorso. Ecco, appunto, potresti spiegare la scelta di ambientare il tuo romanzo
nel passato?
Al di là del desiderio di rendere un evidente
omaggio ai capolavori del noir americano – realizzati appunto tra gli anni ’40
e ’50 del XX secolo – potrei rispondere che si è trattato del bisogno di andare
alla ricerca e di trovare un briciolo di poesia e di umanità.
In un mondo già quasi del tutto
disumanizzato, all'essere umano, ad alcuni esseri umani almeno, restavano
ancora il tempo e la sensibilità necessari a riflettere sulla vita. E si sa, cogito
ergo sum. Nel momento in cui ragionavano su se stessi, costoro assumevano
consistenza. Non solo di personaggi, ma di vere e proprie persone. E io desidero
circondarmi di persone più che di personaggi, come del resto lo desidera anche
Michele Artusio. Egli anzi manifesta chiaramente la sua preferenza attraverso
una specifica battura verso la fine del proprio racconto.
Senza dubbio, quelli de L’ombra del passato erano
tempi duri, nei quali si moriva di fame e si toccò con mano ciò che oggi è ancora
più evidente davanti ai nostri occhi, ma che noi fingiamo di non vedere: che il
troppo benessere e che il progresso tecnologico spinto alle sue estreme
conseguenze (penso all'energia atomica applicata a scopi militari) non possono
che portare alla distruzione di quanto resta della nostra umanità, la quale va inevitabilmente
impoverendosi di pari passo con la crescita economica di una civiltà.
Tempi duri, in conclusione, ma nei quali alcuni aspetti poetici dell'uomo resistevano alla prosaicità della società borghese, tutta calcolo e utilità.
Il passato non riguarda solo la Storia collettiva ma anche il vissuto di ciascuna persona. A questo proposito, il romanzo compie un’associazione immediata tra passato e colpa. Qual è il tuo concetto di colpa?
Quello di nemesi, diffuso nell’antica
Grecia, allorché si riteneva che i padri trasmettessero le proprie colpe ai
figli, o invece quello tipicamente moderno di colpa individuale?
Innanzitutto, vorrei dire che l'idea del peso
insostenibile del passato è stato uno dei temi fondamentali della poetica esistenziale
noir, nella sua polemica nei confronti di un sistema di marginalizzazione dei
più umili ai quali l’ipocrisia e la spietatezza delle istituzioni borghesi non
rendevano possibile rimediare in alcun modo. È appunto per questo motivo
che nel mio romanzo ho attribuito rilevanza fondamentale, fin dal titolo, alla
relazione tra passato, colpa e incapacità di redimersi, di espiare, di
salvarsi.
Quanto alla mia concezione della colpa,
naturalmente, alla luce degli studi giuridici dai quali provengo, dovrei
rispondere di credere fermamente nella responsabilità personale che costituisce
un baluardo del moderno sistema penale.
L'idea opposta, però, secondo la quale le
colpe dei padri – o, meglio, le loro conseguenze – ricadrebbero sempre sui
figli, è dimostrata storicamente. In questo momento, ad esempio, mi sto
occupando, tra le altre cose, della Prima guerra mondiale: una generazione fu
massacrata come diretta conseguenza degli errori delle generazioni precedenti,
il sistema organizzato e messo in azione dalle quali esigeva addirittura di
soffocare nel sangue ogni forma di insofferenza e ribellione manifestata dalla
nuova gioventù. Parimenti uno dei miei peggiori assilli, specialmente da
quando sono diventato papà, riguarda lo stato di degrado e agonia del nostro
ecosistema, la cui rovina paghiamo oggi noi e appunto i nostri figli come
conseguenza diretta dello sfruttamento spregiudicato e sconsiderato da parte di
chi, in passato, ha guardato solo al proprio tornaconto immediato, senza alcuna
precauzione per l'avvenire del pianeta e dell'umanità.
È anche vero però che, se le colpe sono
collettive, la redenzione inizia sempre da un esame di coscienza individuale. È
sempre più difficile immaginarsi una catarsi pubblica come – per tornare alle
coordinate storiche della domanda – nel caso degli spettacoli tragici
dell'antica Grecia. Le occasioni di riflessione e di confronto sono sempre
meno, spazzate via dall’irresistibile frastuono della modernità, che romba
impazzita. Di fronte al Grande meccanismo della Storia che travolge tutti,
da una generazione all'altra, resta però all'individuo, a ciascun individuo,
per quanto affetto dal peccato originale, la possibilità di decidere se
adeguarsi allo stato delle cose o se, al contrario, provare nel proprio
piccolo, nella propria interiorità, a cambiare il sistema, ribellarsi a esso,
prenderne le distanze.
Almeno, questo è quanto alla fine del romanzo
pretendiamo d'aver capito io e il mio protagonista!