LO SCRITTORE STEFANO SCIACCA TRA WILLIAM SHAKESPEARE E MICHELE ARTUSIO. L'intervista

Dopo esserti occupato di Shakespeare in Sir William Shakespeare, buffone e profeta, eccoti a Michele Artusio, il protagonista de L’ombra del passato. Nella tua testa esiste continuità tra questi due personaggi?

Direi proprio di sì. Innanzitutto, si tratta di due personaggi ma, allo stesso tempo, anche di due persone. Meglio ancora, due personalità. Due sensibilità alle prese con le contraddizioni della modernità. Due individui insoddisfatti della società e di se stessi. Due uomini caduti nella trappola di un sistema che impone a ciascuno di non essere fino in fondo chi è. Due individui contraddittori come molti ma consapevoli quanto pochi, pochissimi altri della propria umana contraddittorietà. Shakespeare era ossessionato dal bisogno di riscattare, attraverso l'anoblissement, la vergogna legata all'attività di drammaturgo, attore e impresario sia pure di grande successo. Artusio è ossessionato dalla ricchezza, quella altrui e il miraggio della propria, ed è apparentemente disposto a tutto in cambio di un facile guadagno, persino a tacitare la sua coscienza.

Entrambi, guardando dentro se stessi come allo specchio, si disprezzano e si commiserano. Piangono e ridono di sé. Entrambi insomma sono espressione di grande umorismo. 

La modernità e le sue contraddizioni, dunque, costituiscono un punto di incontro. Ma, se in Sir William Shakespeare, ti sei occupato dei suoi albori nell’Inghilterra elisabettiana, crocevia di tradizione e innovazioni, protagonista de L’ombra del passato è la Torino del secondo dopoguerra che nel tuo romanzo risulta non meno ambivalente.  

Torino è una città, una grande città, industriale e meccanica, e nel secondo dopoguerra lo era ancora più di oggi - fatte naturalmente le debite proporzioni.

Nella Torino de L’ombra del passato, l'uomo è costretto a fare i conti con l'automatismo disumano della vita moderna, in cui gli individui agiscono, anzi funzionano, come le lancette di un orologio, gli ingranaggi di un meccanismo. 

Paradossalmente però Torino, nonostante il caos, il dinamismo esasperato, l'efficienza produttiva, è anche la città sospesa nello spazio e nel tempo delle prime piazze d’Italia di Giorgio de Chirico. È dunque una città metafisica prossima alle atmosfere dei paesaggi urbani di Edward Hopper, l'estetica e la poetica dei quali ha ispirato il cinema nero hollywoodiano almeno quanto i dipinti di Grosz e Dix hanno condizionato quello espressionista di Weimar in cui esso affonda le proprie radici. 

Naturalmente trattandosi di una Torino d'altri tempi ho cercato di descriverla attraverso foto d'epoca e il confronto con le altre città italiane dei film neorealistici di Rossellini, De Sica, Visconti, Lattuada.

Ma esiste anche un legame affetto e famigliare, perché alcuni episodi del romanzo, alcuni ricordi di Artusio, sono tratti dai racconti di due anziane prozie alle quali ho voluto molto bene: hanno segnato la mia giovinezza e, evidentemente, continuano a vivere in me e a parlare alla mia immaginazione.

 

In passato hai pubblicato uno studio di critica cinematografica (e non solo), intitolato Prima e dopo il noir. E, infatti, se non sbaglio, tieni a definire L’ombra del passato un romanzo hard-boiled, riferendoti alla letteratura investigativa statunitense dalla quale sono stati tratti numerosi film noir hollywoodiani. Puoi parlarci del tuo rapporto con questo genere letterario e cinematografico? Di quando e come è avvenuto questo incontro? 

 

La passione per il cinema d'autore e il cinema noir in particolare, un cinema polemico e militante, è in realtà l'esito di un incontro piuttosto recente, avvenuto all’incirca una decina di anni fa, quando cioè ero comunque già abbastanza maturo da poter lasciare che esso mi segnasse.

Quanto all'investigazione, l’incontro è, se possibile, ancora successivo e risale al momento in cui ho iniziato a dedicarmi alla scrittura: è evidente, infatti, che scrivere – di qualunque argomento si tratti – implica investigare. La società, gli altri, se stessi.

Nell'indagine si ricorre alla lente di ingrandimento. La lente attraverso la quale osservo io il mondo, non solo nel caso de L'ombra del passato, è quella del dubbio e della disobbedienza rispetto alle mode, dell’inattualità, tipica del cinema noir che fu una spina nel fianco per l'establishment del Paese più compiaciuto e borghese del secolo scorso.  

Il secolo scorso. Ecco, appunto, potresti spiegare la scelta di ambientare il tuo romanzo nel passato?

Al di là del desiderio di rendere un evidente omaggio ai capolavori del noir americano – realizzati appunto tra gli anni ’40 e ’50 del XX secolo – potrei rispondere che si è trattato del bisogno di andare alla ricerca e di trovare un briciolo di poesia e di umanità.

In un mondo già quasi del tutto disumanizzato, all'essere umano, ad alcuni esseri umani almeno, restavano ancora il tempo e la sensibilità necessari a riflettere sulla vita. E si sa, cogito ergo sum. Nel momento in cui ragionavano su se stessi, costoro assumevano consistenza. Non solo di personaggi, ma di vere e proprie persone. E io desidero circondarmi di persone più che di personaggi, come del resto lo desidera anche Michele Artusio. Egli anzi manifesta chiaramente la sua preferenza attraverso una specifica battura verso la fine del proprio racconto.

Senza dubbio, quelli de L’ombra del passato erano tempi duri, nei quali si moriva di fame e si toccò con mano ciò che oggi è ancora più evidente davanti ai nostri occhi, ma che noi fingiamo di non vedere: che il troppo benessere e che il progresso tecnologico spinto alle sue estreme conseguenze (penso all'energia atomica applicata a scopi militari) non possono che portare alla distruzione di quanto resta della nostra umanità, la quale va inevitabilmente impoverendosi di pari passo con la crescita economica di una civiltà.

Tempi duri, in conclusione, ma nei quali alcuni aspetti poetici dell'uomo resistevano alla prosaicità della società borghese, tutta calcolo e utilità. 

Il passato non riguarda solo la Storia collettiva ma anche il vissuto di ciascuna persona. A questo proposito, il romanzo compie un’associazione immediata tra passato e colpa. Qual è il tuo concetto di colpa?

Quello di nemesi, diffuso nell’antica Grecia, allorché si riteneva che i padri trasmettessero le proprie colpe ai figli, o invece quello tipicamente moderno di colpa individuale?

 

Innanzitutto, vorrei dire che l'idea del peso insostenibile del passato è stato uno dei temi fondamentali della poetica esistenziale noir, nella sua polemica nei confronti di un sistema di marginalizzazione dei più umili ai quali l’ipocrisia e la spietatezza delle istituzioni borghesi non rendevano possibile rimediare in alcun modo. È appunto per questo motivo che nel mio romanzo ho attribuito rilevanza fondamentale, fin dal titolo, alla relazione tra passato, colpa e incapacità di redimersi, di espiare, di salvarsi. 

Quanto alla mia concezione della colpa, naturalmente, alla luce degli studi giuridici dai quali provengo, dovrei rispondere di credere fermamente nella responsabilità personale che costituisce un baluardo del moderno sistema penale.

L'idea opposta, però, secondo la quale le colpe dei padri – o, meglio, le loro conseguenze – ricadrebbero sempre sui figli, è dimostrata storicamente. In questo momento, ad esempio, mi sto occupando, tra le altre cose, della Prima guerra mondiale: una generazione fu massacrata come diretta conseguenza degli errori delle generazioni precedenti, il sistema organizzato e messo in azione dalle quali esigeva addirittura di soffocare nel sangue ogni forma di insofferenza e ribellione manifestata dalla nuova gioventù. Parimenti uno dei miei peggiori assilli, specialmente da quando sono diventato papà, riguarda lo stato di degrado e agonia del nostro ecosistema, la cui rovina paghiamo oggi noi e appunto i nostri figli come conseguenza diretta dello sfruttamento spregiudicato e sconsiderato da parte di chi, in passato, ha guardato solo al proprio tornaconto immediato, senza alcuna precauzione per l'avvenire del pianeta e dell'umanità. 

È anche vero però che, se le colpe sono collettive, la redenzione inizia sempre da un esame di coscienza individuale. È sempre più difficile immaginarsi una catarsi pubblica come – per tornare alle coordinate storiche della domanda – nel caso degli spettacoli tragici dell'antica Grecia. Le occasioni di riflessione e di confronto sono sempre meno, spazzate via dall’irresistibile frastuono della modernità, che romba impazzita. Di fronte al Grande meccanismo della Storia che travolge tutti, da una generazione all'altra, resta però all'individuo, a ciascun individuo, per quanto affetto dal peccato originale, la possibilità di decidere se adeguarsi allo stato delle cose o se, al contrario, provare nel proprio piccolo, nella propria interiorità, a cambiare il sistema, ribellarsi a esso, prenderne le distanze.

Almeno, questo è quanto alla fine del romanzo pretendiamo d'aver capito io e il mio protagonista!  

Fattitaliani

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