Salvatore
Requirez, il medico con la passione per i Florio e per l’automobilismo storico. L'intervista di Roberta Cannata e Andrea Giostra.
La Rubrica «Professionisti
Geniali» arrivata alla 4^
puntata delle 10 previste, oggi incontra Salvatore Requirez, medico e
manager sanitario della più grande azienda ospedaliera della Sicilia che da
anni coltiva la sua grande passione per la Famiglia Florio, per la Targa Florio
e per le auto d’epoca da corsa. Salvatore Requirez è il massimo esperto
siciliano dei Florio, della Targa Florio, del Giro di Sicilia, sui quali ha
scritto diversi romanzi e saggi, tra questi "Il Leone di
Palermo" (2012) e "Storia dei Florio" (2012),
ai quali testi diversi autori contemporanei si sono ispirati o hanno ricavato
informazioni e fatti storici familiari della famiglia Florio.
Con questa piccola produzione, «Professionisti
Geniali», abbiamo cercato di individuare 10 personalità che si distinguono
nella loro professione per le grandi capacità, competenza e talento, ma che al
contempo coltivano “passioni” e “genialità” delle quali parlare con
noi. Buona lettura e buon divertimento a tutti i lettori…
Roberta & Andrea
Ciao Salvatore,
benvenuto a “Professionisti Geniali” e grazie per aver accettato il
nostro invito. Nella vita professionale sei un “Manager e medico dirigente sanitario
della più grande azienda ospedaliera della Sicilia”. Ci racconti del tuo
lavoro?
Certo e con grande piacere.
Intanto porgo i miei saluti a tutti coloro che ci leggono. Del mio lavoro dico l’essenziale:
sono direttore sanitario dell’Azienda di Rilievo Nazionale Civico di Palermo
che comprende anche l’unico ospedale interamente pediatrico della regione. Sono
alla mia settima direzione di azienda sanitaria negli ultimi vent’anni, una
esperienza che mi ha portato a conoscere e curare aspetti sanitari e gestionali
da un angolo all’altro dell’isola. Nei precedenti dieci sono stato ispettore
sanitario (ex medico provinciale) all’Assessorato alla Salute. Il mio lavoro,
oggi, consiste nella gestione delle problematiche organizzative di un grosso
Ospedale. Mi occupo, soprattutto delle linee di indirizzo esecutivo, oltre che,
come prevede la legge, di esprimere parere sulle decisioni adottate con
delibera e formulare proposte migliorative e programmazione mirata. L’Ospedale Civico
ha ben 55 strutture complesse (reparti) e relativi direttori da coordinare tra
area di emergenza, area chirurgica, area oncologica, area dei servizi e
laboratori e area della Medicina oltre a quella, delicatissima, del Materno
Infantile. Trovo molto interessante il quotidiano confronto con i vari primari
che sono mossi dalla stessa, unanime, tensione: riuscire a far sempre meglio il
loro lavoro al servizio dei pazienti. Vivo come un mio obbligo professionale
cercare di aiutarli mettendo a disposizione la mia esperienza ancorché in un
momento storico fortemente caratterizzato da limitazioni di risorse quale
quello con cui ci misuriamo da anni.
Come li hai vissuti questi mesi da Pandemia da Covid-19
da un punto di vista umano e professionale?
Personalmente
posso dire freddamente preoccupato avendo consapevole percezione del
rischio corso dalla popolazione. Avere contatti quotidiani con operatori
sanitari porta ad allargare la soglia di attenzione, ad innalzare il livello di
guardia rispetto alla possibile trasmissione infettiva di cui tutti possiamo
essere inconsapevoli vettori. Professionalmente, invece, si è trattato di un
super lavoro condotto con estrema attenzione e grandissima collaborazione da
parte dell’unità di crisi che abbiamo costituito in azienda. Ci ha impegnato a
fondo tutti: medici, operatori professionali, e tecnici. E si sono impegnati
tutti. Anche ultra petita venendo al lavoro con me il sabato e la
domenica per mesi. Proprio una domenica abbiamo convocato presso la nostra
azienda una conferenza tra tutti i direttori della provincia: era il tempo in
cui le mascherine non arrivavano…
Abbiamo riconvertito reparti lavorando nottetempo, soprattutto nelle
aree di rianimazione, con grande abnegazione da parte del personale che ha
conseguito risultati encomiabili. Rimettere in vita i pazienti che ci sono
giunti in precarie condizioni da Bergamo, servire i nostri degenti, a diverse
decine, e soprattutto proteggere dal virus tutti gli altri ricoverati (centinaia)
e il personale che li assiste (migliaia). Operazione non facile e che richiede
un alto tasso di responsabilità operativa e direttiva. Se siamo usciti dalla
fase critica dell’epidemia Covid lo dobbiamo soprattutto all’impegno massimo
profuso da medici e operatori sanitari. Dobbiamo essere orgogliosi di queste
persone.
Chi è
invece Salvatore Requirez nella quotidianità, nella vita al di fuori del
lavoro?
Un uomo di 62 anni, con due figli di 31
e 29 anni, che, come tutti, ama coltivare le proprie passioni: leggere, fare
sport, vedere buoni film, frequentare gli amici, quando possibile viaggiare,
passeggiare nel centro storico, seguire i raduni e le gare della specialità che
mi appassiona e … scrivere.
Come ben sai Noi
siamo alla ricerca di “Professionisti Geniali” e Tu lo sei al 100%. Sei
un appassionato e grande conoscitore della storia della Targa Florio, della
Famiglia Florio, del Giro Automobilistico di Sicilia e di auto d’epoca da corsa.
Ci racconti come sono nate queste tue passioni e come le hai coltivate negli
anni?
Tutto nasce dalla passione per l’automobilismo concepita in epoca
pre-adolescenziale. Avevo 10 anni e la morte di Lorenzo Bandini bruciato al
G.P. di Montecarlo nel 1967 mi colpì. Perché un uomo, pur di primeggiare nello
sport che ama, non ha alcun timore di sfidare la morte? Ancor prima di
diventare professionisti e quindi correre in cambio di milioni, quali dovevano
essere le sensazioni di chi va a 300 km/h? Intuii subito che oltre allo
spettacolo esterno quello sport ne assicurava a chi lo pratica uno interno
fatto di emozioni, scariche adrenaliniche, senso di sfida delle leggi fisiche,
sensazioni di profondo appagamento nella perenne lotta contro il cronometro e
via discorrendo... Cominciai, anno dopo anno, ad assistere alla Targa Florio e
ad altre corse siciliane (allora ce n’erano tante …). Approfondii, prima per
curiosità, la storia di questa famiglia cominciando a raccogliere libri e
riviste che ancora oggi tengo cari. Una decina di anni dopo sostenni l’esame di
maturità classica all’Umberto I. Portavo all’orale le materie di Italiano e
Storia. Cominciammo con quest’ultima e il presidente della commissione mi disse:
parliamo della Questione Meridionale! Ma
non degli aspetti politici o del brigantaggio, come hanno già fatto i tuoi
compagni, parliamo degli aspetti economici dove e quando si scava questo
divario tra Nord e Sud? Ci pensai un attimo e partii. Cinque minuti dopo mi
giocai la carta dei Florio e delle loro imprese. Il presidente, che fino a quel
momento era stato a testa china sul giornale, inforcò gli occhiali e mi disse
fissandomi negli occhi: Beh… in effetti,
però, l’unica industria del sud che reggeva il paragone con quelle del nord era
la Cirio… Io restai per tre secondi interdetto: quanto poteva già allora il
potere della pubblicità in televisione? Ancora oggi ringrazio il cielo di aver
distolto, imbarazzato, lo sguardo dai suoi occhi e di aver incrociato quelli
del membro interno in commissione che mi invitava a smorzare ogni polemica: non
è mai igienico entrare in contrasto, apertis verbis, con chi, in sede di
esame ti deve giudicare… Ma soprattutto ringrazio il cielo, avendo cominciato a
snocciolare le imprese guidate dai Florio in tutta Italia, compresa l’unica
compagnia della marina mercantile allora operante in regime di monopolio, la
Navigazione Generale Italiana, di non aver detto a chiare lettere che la
ottocentesca Cirio era un’azienda piemontese … L’esame andò bene ma una convinzione
si radicò in me: bisognava mettere ordine nelle fuorvianti informazioni che
circolavano intorno ai Florio. Eravamo nel 1976. Da allora presi a raccogliere
e a trascrivere ogni riferimento bibliografico riportando, in extenso,
il relativo testo. Oggi credo di possedere uno dei data base documentativi più ricchi
fatto di oltre 6000 pagine prima dattiloscritte e poi digitalizzate. Un lavoro
che mi è tornato utilissimo negli anni e che mi ha permesso di scrivere sui
Florio con accuratezza di riscontro e anche in forma diaristica dove la
precisione di data ha una importanza fondamentale.
Sulla famiglia Florio e sulla Targa Florio hai
pubblicato diversi libri e saggi. Qual è stata la tua prima pubblicazione, come
è nata, quali le ricerche e gli studi che hai fatto?
La mia prima pubblicazione non riguarda i Florio
né la Targa Florio, ma rappresenta bene, credo, il mio approccio con il mondo
della scrittura. Io faccio un altro mestiere. Dedico allo scrivere ritagli del
tempo libero, quelli sottratti alla famiglia e ad altre cose che tutti fanno
per svago. Quando scrivo io voglio divertirmi. Tratto, quindi, di cose che mi
appassionano e solo di quelle. Si tratta di ambiti che lasciano ampi spazi all’approfondimento,
alla ricerca, al confronto, alla metodologia competente, all’estro. Nel caso
del mio primo libro, Le Ville di Palermo,
c’è tutto questo. Avevo raccolto negli anni di Università circa un migliaio di
foto relative agli insediamenti suburbani nobiliari dispersi nella campagna
palermitana. Sono più di duecento in diverso stato di conservazione. Andarli a
scoprire uno per uno è stato un lavoro lungo ma piacevolissimo. Documentarsi
ancora di più. Ne è venuta fuori una revisione trasversale fatta sulle
pubblicazioni già esistenti e sulle, molte, notizie assunte direttamente dei
proprietari che spesso mi fornivano anche documenti originali o foto antiche interessanti
il singolo presidio. Di fronte a tutto quel materiale, una dozzina di anni
dopo, ho iniziato un lavoro di sistemazione per itinerari dividendo a spicchi
la campagna che corona Palermo. La mia idea piacque all’editore e così nacque
il libro.
Nel 2012 hai pubblicato il romanzo “Il leone di
Palermo” che racconta la storia di un affasciante siciliano della belle
époque palermitana. Una storia che ripercorre i successi mondami e
commerciali della famiglia Florio tra ricchezze e grandi eventi popolari quali
per esempio la Targa Florio e il Giro
Automobilistico di Sicilia. Ci racconti
come nasce questo romanzo e quale il lettore che hai immaginato mentre lo
scrivevi?
Ho immaginato un lettore che desiderasse di
essere seriamente informato su come erano andati realmente i fatti. Uno dei
tanti, tantissimi, siciliani e no, che da sempre si fanno la stessa domanda:
come è mai potuta finire la ricchezza dei Florio? Ho espresso il mio punto di
vista, romanzato, sui fatti certi, in assoluta coerenza con quanto avevo
scritto prima sul tema e in armonia con la più accreditata saggistica di
settore. Ma non solo. Io non ho usato in quel libro il nome dei Florio, anche
se la storia narrata rispecchia, giorno dopo giorno, la loro basandomi su atti
e documenti. Perché il mio messaggio vuole essere diverso. Per far conoscere la
storia dei Florio bastano i saggi. Io voglio dire qualcos’altro. Non importa
che si chiamassero X o Y. Importa ricordare che c’è stato un tempo in cui
Palermo è stato il centro del mondo. Un tempo in cui i siciliani sono stati
capaci di cose grandi.
I critici smaliziati e fuori dal coro dicono che “I
leoni di Sicilia” di Stefania Auci, edito da Editrice Nord, che sta avendo
un grande successo di vendite, non sia altro che un “riadattamento”, una sorta
di “Remake letterario” - e il titolo sembra dichiararlo esplicitamente! –
del tuo romanzo “Il leone di Palermo” e degli altri tuoi libri quali per
esempio la “Storia dei Florio” (2012). Tu che ne pensi in proposito?
In ordine ai contenuti del vostro quesito devo
premettere che non sono un critico. Non l’ho mai fatto e non sarebbe etico
farlo in questo caso che, peraltro, non è il primo caso di opere che si
ispirano a quanto da me scritto in passato. Ho letto il libro della Auci e, pur
non essendo io un lettore particolarmente affezionato al genere che nel secolo
scorso fece grande Liala, devo dire che non mi è dispiaciuto. Trovo
interessante anche l’esperimento lessicale di usare neologismi dialettali, ricchi di fonemi molto diffusi, oggi, nel
trapanese, al posto dell’originale ausitano
(proprio della Kalsa) con inflessioni calabre da riferire ai principali
protagonisti. L’autrice, che non ha alcuna pregressa saggistica pubblicata nel
settore, offre il suo punto di vista rispetto ad una storia non facile da raccontare
traendone gli elementi che sono più congeniali al suo modo di scrivere e li
attaglia al suo tipo di lettore. Se tanto mi dà tanto credo che abbia fatto un
buon lavoro, in linea con quello che, neanche tanto velatamente, appare un
progetto ad ampio respiro dove il libro è solo un tassello di mosaico. La
stessa sintassi usata, a volte, con frasi di una sola parola riferite ad
effetti sonori o visivi, fa pensare ad una sceneggiatura già pronta… Il buon
battage pubblicitario a livello mediatico ha fatto il resto: il pubblico di
lettori è soddisfatto dal prodotto editoriale che risponde alle attese e il
successo penso sia meritato. Quanto al remake
devo precisare che, per ora, la Auci ha trattato di un periodo che io nel Leone di Palermo affronto sono marginalmente,
concentrandomi sulle vicende della coda della dinastia. Attendo il sequel per
capire meglio la larghezza dell’opera di vendemmia che, stando al titolo, come
ben sottolineate, potrebbe essere suggestiva.
Sei anche un grande appassionato ed esperto di auto da
corsa d’epoca e di Porsche in particolare tanto è vero che nel 2014 hai
pubblicato un interessante libro dal titolo "La Regina delle Madonie.
Porsche in Targa Florio". Come nasce quest’altra tua passione per le
auto d’epoca da corsa che immaginiamo collegata alla Targa Florio e al Giro Automobilistico di Sicilia?
Porsche e Targa
Florio sono nomi legati a doppio filo. La casa di Stoccarda è quella che ha
vinto di più sulle Madonie. Ma non solo. La grandezza di questo marchio deve
proprio la sua crescita di vittoria in vittoria proprio alla corsa di Florio.
Infatti, quando per la prima volta, nel 1970, la Porsche giunta all’apice della
potenza tecnica, vince la corsa più importante del mondo, la 24 Ore di Le Mans,
aveva già vinto, con grande stupore, diverse edizioni della Targa Florio con
macchine piccole ma efficacissime sulle stradine siciliane. Le Madonie sono
fondamentali per la storia della Porsche e di tante altre marche prestigiose.
Ricordarlo credo sia un dovere da parte di chi come me ama questo aspetto dell’automobilismo
sportivo. Le auto storiche oggi hanno un ruolo che non è solamente esornativo,
esibizionistico da parte di chi le possiede. Hanno la funzione di testimoniare
l’ingegno umano dei loro progettisti, dei loro carrozzieri, di quelli, cioè,
che hanno dato vita ad opere d’arte che oggi, grazie a corse e raduni le
mantengono vive e fruibili. Non solo: permettono ad ex piloti non più giovani
di misurarsi sui mezzi da sempre amati non più su gare di velocità ma di
regolarità dove l’anagrafe conta molto meno. Così si mescolano alla passione di
chi, magari, non ha corso mai, ma nutre le stesse emozioni con la semplice
messa in moto di tali prodigi di meccanica. In pratica: il vero senso del revival.
Quale appassionato d’auto d’epoca da corsa, ne hai qualcuna
nel tuo garage alla quale magari sei particolarmente affezionato per la sua
storia?
Purtroppo non
posseggo alcuna auto d’epoca. Non nascondo però che mi piacerebbe …
Bisognerebbe avere anche il tempo di curarle. Nei garage sono ospiti molto esigenti...
Hai mai fatto, con un’auto d’epoca, un giro di Sicilia da
ricordare, magari romantico con la tua donna di allora o di adesso? Insomma,
un’esperienza che unisce la passione per la Sicilia, per le auto e per i sani
sentimenti?
Negli ultimi
vent’anni ho partecipato a circa una cinquantina di eventi per auto storiche,
sempre invitato da amici a bordo delle loro auto o dagli organizzatori a fare
da apripista. In qualche occasione ho anche aderito alle richieste di portare
la mia macchina che non è propriamente un’auto storica ma consente di
divertirmi insieme, quando possibile, con mio figlio. Indimenticabile, due
decenni addietro, un lungo tratto del Giro di Sicilia fatto da navigatore su
una Bugatti 35 (una della più belle macchine sportive di sempre) di un amico
francese che, incantato dal paesaggio o confuso dai bivi, temeva di perdersi o,
l’esperienza a fianco di Clay Regazzoni o Andrea Montermini, due piloti che ci
stanno poco a farti capire che guidare davvero sportivamente non è cosa che si
improvvisa facilmente. In gioventù ho fatto un tour romantico, con la mia
ragazza di allora, sul Circuito delle Madonie di 72 chilometri. Fu molto
interessante, e non solo per la sosta enogastronomica che piacque tanto alla
mia compagna. Lo vissi come una ricognizione dell’intero percorso annotando
ogni chilometro e quel che di importante c’era, tra immobili e vegetazione. Io
dettavo e lei scriveva accanto a me. Fu una sorpresa. Quel giro di corsa era un
viaggio nella storia della Sicilia. C’era di tutto: la chiesa barocca, il
tempio greco, il bagno punico, l’acquedotto romano, il palazzo medioevale, il
fortilizio cinquecentesco, il presidio bizantino, la villa ottocentesca, le
terme fasciste o l’arco islamico. Il territorio attorno ai centri di Termini,
Cerda, Sclafani Bagni, Caltavuturo, Collesano, Campofelice di Roccella, e la
piccola Himera sono uno scrigno continuo che mostra gioielli architettonici
immersi in paesaggi da favola: montagne innevate e mare che si inseguono a
perdita d’occhio, sterminate piantagioni di ulivo che si arrestano in terrazze
a strapiombo su vallate segnate da fiumi regalando panorami mozzafiato. Anche a
questo si deve la fortuna della corsa di Florio. Un’occasione sportiva in grado
di mostrare al mondo che l’isola non era, come ritenuto nell’immaginario
collettivo di allora, un’enorme distesa di sassi e fichidindia.
Da buon siciliano, sei innamorato della Sicilia e della
sua storia. Ci racconti dei tuoi libri sulla tua isola? Quali sono e di cosa
parlano?
A parte le pubblicazioni a carattere scientifico legate alla mia
professione io scrivo solo di Sicilia e della sua storia. Scrivo di un ambito
di nicchia: non miro alle vendite ma al piacere di condividere le cose che
conosco, cercando di essere originale dove si può. Scrivo prevalentemente di Palermo,
di Sport o dei Florio, delle terre che hanno interessato le loro imprese, una
più bella dell’altra: Palermo Liberty, Marsala, le Tonnare di Favignana, quella
dell’Arenella che fu residenza come è oggi, ma anche il meraviglioso parco
dell’Olivuzza, risultato di fusione di una mezza dozzina di immobili, visitato
da re e imperatori per oltre mezzo secolo. Mi piace però ricordare che ho anche
scritto di mafia, di come questa piaga fece ingresso in città nella prima metà
nel secolo scorso, col romanzo Di Nessun colore. Il mio primo scritto
riguardava, però, un’altra peculiarità siciliana, diametralmente opposta, che
solo di recente passa per le guide turistiche di più largo consumo: le antiche
ville settecentesche. A Palermo sul finire del ‘700, quando il re di Napoli
venne a svernare in Sicilia durante l’occupazione napoleonica ci fu la corsa
della nobiltà autoctona ad erigere ville estive a ridosso della Casina Cinese
nel cuore della Favorita che i sovrani avevano scelto come residenza stagionale.
Dal riadattamento di antichi casolari disseminati nella campagna, oggi quasi
totalmente occupata dalla città moderna, nacquero una miriade di ville barocche
che affiancarono quelle preesistenti che davano il nome alle borgate
(Resuttana, Tommaso Natale, Partanna, etc.). Un libro che nasce dalla ricerca
di cui sopra parlavo e dalla percezione di quel che sogno che doveva essere la
campagna palermitana a quei tempi. l libro si chiama Ville di Palermo. Mi
diede l’onore di presentarlo Dacia Maraini. Venticinque anni addietro. Come
passa il tempo.
Se dovessi consigliare a dei turisti che non sono mai
stati in Sicilia tre città da visitare, quali consiglieresti e perché proprio
quelle?
I turisti hanno tutti esigenze diverse, interessi
diversi. Dar loro dei consigli sconta il limite della soggettività: non si può
prescindere dai gusti del consigliere. Tre città? Due grandi e una piccola.
Siracusa: centro ancora a misura d’uomo dove ci si può immergere nella storia
millenaria e mangiare da dio nei posti giusti. Girare per Ortigia, anche nel
caos odierno, ha un fascino particolare e difficilmente eguagliabile. Percorrere
il passeggio Aretusa fino al lungomare Alfeo, al tramonto, può essere
un’esperienza indimenticabile. Seconda città: Enna. La sua altezza l’ha messa
al riparo, a lungo, nei secoli dalle scurrili invasioni della modernità. Lì
tutto ha il segno del tempo antico. Le cento chiese che la segnano godono di un
barocco semplice e incorrotto, diverso da quello, ciclicamente, invece, veniva ritoccato
nelle linee formali nei centri di riviera aperti alle contaminazioni della moda.
Il lago di Pergusa con annessa riserva dove si raccolgono tutti i genotipi
degli ulivi mediterranei, vale da solo, una gita. A turisti mordi e fuggi
consiglierei di saltare un pasto e acquistare uno dei libri di Rocco Lombardo,
mite e profondo conoscitore della storia di Castrogiovanni (come si chiamava
Enna fino al 1927) recentemente scomparso e, magari, sfogliarlo al fresco del
Belvedere, davanti ad uno dei più bei panorami del mondo, da dove si domina
tutta la Sicilia. Infine un centro piccolo: Montalbano Elicona. Un borgo di
recente assurto a gloria televisiva ma che è unico per un patrimonio
misconosciuto: l’altopiano di Argimusco nella riserva di Malabotta. Un posto
magico che tale è stato per millenni e dove ancora si trovano testimonianze
preistoriche: un paradiso archeologico ma anche di forte suggestione esoterica
grazie ad impressionanti megaliti attorno ai quali, per secoli, studiosi di
ogni latitudine hanno consumato energie cerebrali per decodificarne un univoco
significato.
Salvatore, in queste interviste ad un certo punto
chiediamo ai nostri ospiti delle chicche culturali che hanno a che fare con la
settima arte e con la letteratura. Quello che ti chiediamo adesso è di
consigliare ai nostri lettori 3 film da vedere. Quali consiglieresti e perché?
Primo: un film di
vent’anni fa. Una storia vera di
David Lynch, grande descrittore di personaggi che ti colpiscono sin dalle prime
battute e dalle iniziali inquadrature. Un film che ti commuove fino alle
lacrime. Una storia forte che mi tocca profondamente e personalmente. Il mio
unico fratello morì a 27 anno a seguito di un incidente nautico. Capisco il
protagonista del film, il vecchio d’acciaio Alvin Straight, e anch’io avrei fatto quel che lui ha fatto, magari
senza la teatralità che alcune scene, inevitabilmente, evocano. Ma con lo
stesso pathos, quello, insopprimibile, del dolore diretto. Secondo: C’era una volta in America. L’impaginato narrativo di Sergio Leone in
questo film è semplicemente magistrale. Io ho imparato a raccontare vedendolo
decine di volte. Un film che non merita il posto di media classifica che alcune
graduatorie americane si ostinano a dargli, specie quelle che gli preferiscono Psycho o la Finestra sul cortile oppure Guerre
Stellari. Film tra i migliori di sempre con musica e sceneggiatura di
livello olimpico. Terzo: vorrei dire Tre
Colori – Film Blu di Krzysztof Kieślowski ma, nello spiegare le
motivazioni, entreremmo troppo sul personale riservato che non merita
divulgazioni, in quanto, sotto il profilo professionale, ho seguito per anni un
caso straordinariamente simile, dove alla disgrazia dell’evento si assommava la
sventura di aver avuto un figlio diverso dal desiderato. Allora dico, per
motivazioni simili al secondo, Pulp
Fiction. Tarantino, del quale, tuttavia, non amo particolarmente la scelta
della sceneggiatura stereotipata che prevede, monotonamente, in ogni risposta
la esplicita riproposta della domanda dei vari interlocutori, ha una capacità
straordinaria di incastrare le storie che, indipendentemente dalla loro
profondità, danno anima e spessore alla trama specie se imbastite intorno a
personaggi singolari. Mister Wolf è una coltellata a tutta la nostra era
pullulante di esperti dell’ovvio per non dire del nulla. Approfitto del tema
per citarne un quarto, nel centenario della nascita di Alberto Sordi, un film
che, dopo averlo per anni poco amato, a torto, come attore, me lo ha fatto
riconsiderare: Una vita difficile di
Dino Risi. Di personaggi alla Magnozzi, camaleontici ma mai fino in fondo, ognuno
di noi, nei decenni, ne ha incontrati tanti e non sempre, allo stesso modo,
divertenti. Uno spaccato individuale della prima repubblica con metamorfosi e
ritorni di fiamma che fanno riflettere.
Tre
libri che ti hanno segnato culturalmente e umanamente, e che consiglieresti di
leggere? Quali e cosa ti hanno lasciato?
Uno che, come me,
scrive per diletto si serve di modelli, incorporando, a volte,
inconsapevolmente, stili e registri presenti nelle letture di maggior interesse
e partecipazione. Allora devo citare, per primo, non un romanziere, non un
letterato ma la figura che mi ha fatto nascere l’amore per la mia città:
Rosario La Duca. I suoi articoli sul Giornale di Sicilia di quasi mezzo secolo
addietro, poi raccolti in più volumi ne La
città perduta, hanno costituito la molla interiore per me e qualche altro
centinaio di studiosi panormiti. Onore al merito. Poi direi Umberto Eco de Il nome della Rosa che mi ha stimolato la
metodologia di ricerca incrociata alla base della narrazione del mio Il segreto dell’anfora (si parva licet
componere magnis…) con speciale riguardo ai documenti storici e al modo di
pensare in quel tempo reso oscuro dalla pervadente e asfissiante pressione del
Sant’Uffizio dell’Inquisizione in Sicilia. Per il terzo sono indeciso tra l’Urlo
e il furore di William Faulkner, per me il prototipo del romanzo storico
con efficacissima formula diaristica dagli spazi sconfinati, e Alla ricerca
del tempo perduto di Marcel Proust, insuperabile miscelatore di filosofia e
attenzione descrittiva spinta ai minimi dettagli che, personalmente trovo, non
solo didascalica ma profondamente pedagogica. Ma farei un torno a me stesso se
non ammettessi, pubblicamente, che ho imparato a scrivere di sport leggendo gli
scritti geniali di un uomo a tutto tondo prima che giornalista e scrittore:
Gianni Brera. Le sue cronache di eventi sportivi sono leggenda ma soprattutto
avvincono le sue considerazioni e gli accostamenti tipici di una persona
profondamente colta. Il suo romanzo Il mio vescovo e le animalesse penso
possa essere, ancora oggi, per molti, un’autentica rivelazione.
Prima di salutarci ecco la nostra domanda di rito: “Che cos’è per Te la genialità”?
Riuscire ad esprimere al meglio quel che di unico c’è nei nostri geni.
Grazie a tutti.
Grazie Salvatore!
Roberta e Andrea
Salvatore Requirez
Roberta Cannata
Andrea Giostra