di Mario Narducci - L’AQUILA
- Sotto una pensilina di Viale Gran
Sasso, una delle cinque vie del Torrione,
stava accovacciato Hans con il suo
pastore tedesco a lato.
Le gambe incrociate come un santone indiano e del
santone aveva tutto: le ossa che gli spuntavano aguzze da sotto i vestiti
laceri, i piedi che navigavano dentro sandali slabbrati, i capelli e la barba
lunghi e incolti che si confondevano e diventavano tutt’uno come un cespuglio
di rosmarino, e l’immobilità, che cessava appena quando piegava due o tre volte
il capo per ringraziare la gente che gli faceva suonare uno spicciolo dentro la
scatola di latta.
Che non
fosse però un santone c’erano a tradirlo il biondo del cespuglio e i
monosillabi gutturali e taglienti che emergevano dalla sua bocca quando
acquistava un panino farcito, che condivideva con il cane, nel bar a lato,
spargendo sul bancone gli spiccioli appena raccattati. Per il resto, la sua
giornata trascorreva nel silenzio più assoluto, rotto soltanto a sera, quando
all’interno del bar, davanti a una birra più volte replicata, si lasciava
andare a spizzichi di confidenze con qualche altro “disperato” come lui.
Hans veniva da una regione della Germania
del Nord. Aveva scelto L’Aquila
per viverci, perché all’Aquila era passato con la Wehrmacht al tramonto della seconda Grande Guerra. Ma quel
passaggio lo segnò per tutta la vita, carico come fu di rastrellamenti e di eccidi,
tragico colpo di reni di un esercito in sfacelo. Diciassette assassinati a Onna, diciassette a Filetto, centovent’otto a Pietransieri, tra cui sessanta donne e
trentaquattro ragazzi sotto i dieci anni. Hans non era nei plotoni di
esecuzione. E nemmeno tra gli uomini che all’ordine del tenente Hassen rastrellarono il boschetto
presso il convento francescano di San Giuliano, catturando nove giovani, operai
e studenti, che stavano per raggiungere i partigiani a Bosco Martese, nel versante teramano, guidati dal Colonnello
aquilano Gaetano d’Inzillo.
E’ a Bosco Martese che ebbe luogo, qualche
giorno dopo, la prima battaglia
partigiana d’Italia contro le forze occupanti. Una soffiata fece naufragare
il sogno. Catturati dai nazisti, i ragazzi furono obbligati a scavare due fosse
comuni dove furono gettati dopo l’esecuzione. Tra i nove, anche il figlio del Colonnello D’Inzillo, studente e poeta.
Inutili risultarono le mediazioni e le pressioni dell’Arcivescovo Carlo Confalonieri che ottenne solo di
poter benedire le fosse. Era il 23 settembre del 1943. Il 14 giugno successivo,
a liberazione avvenuta della Città, le salme furono recuperate e composte per i
funerali che si tennero quattro giorni dopo. Una Piazzetta adiacente il Corso,
con una lapide che accoglie ogni anno l’omaggio di una corona della
Municipalità, ricorda i Nove giovani e il loro sogno infranto. Alcune panchine
vedono oggi altri giovani, spesso coppie di ragazzi, che continuano a sognare
anche per chi non c’è più.
Hans non tornò in Germania, o vi
tornò per fuggirsene via in cerca di riscatto. Seppure non era stato tra gli
assassini, avvertiva l’orrore di averne fatto parte. Non accettava di essere un
sopravvissuto, sia pure incolpevole data la giovane età, di una guerra
diabolica e sanguinosa scatenata dall’insipienza umana sposata a una folle sete
di dominio. Riapparve un giorno per le nostre strade, pellegrino verso i
santuari dell’orrore, un cane pastore tedesco al guinzaglio, lo sguardo perso
nel vuoto e l’angoscia dentro di sé. Stazionò dapprima alla piazzetta della
memoria e furono giorni di pianto catartico. Seduto a una panchina inseguiva la
sua rinascita e cercava di trovarne la via. Nessuno seppe mai in quale buco
racimolasse il suo sonno.
La prima
scelta fu il silenzio, il solo che gli permettesse di non contaminare con il
suo passato chi gli stava d’attorno e questa città che era sobbalzata in lutto
sotto le urla dei bombardamenti e alle raffiche di fucile. La seconda scelta fu
meno lancinante, e fu quella della povertà. Lui che era stato figlio di un
delirio di onnipotenza ed in quel delirio era stato allevato, altra strada non
avrebbe avuto, sulla via del riscatto, che quella della povertà. Diventato
povero, sentì staccarsi poco a poco dalla pelle, sempre meno chiara, la divisa
impeccabile della follia, per rivestirsi di quella lacera di una umanità
riconquistata.
Era un
aprile piovoso, quello che lo vide, ancora una volta, un giorno, all’angolo di Viale Gran Sasso, eletto a luogo
dell’anima, stendere la mano nella richiesta umile della carità. Il cane gli
stava accanto immobile, compagno discreto e gratuito della nuova vita. Alcuni,
come sempre, gli camminavano davanti lasciando cadere la monetina nel barattolo
di latta; altri, i più, gli gettavano uno sguardo distratto e passavano oltre.
Avviene sempre così con i poveri, dei quali temiamo più il silenzio che la
parola anche lieve, per non sentirne il rimprovero. Hans non rimproverava nessuno, chiedeva solo perdono. Quanti anni
erano passati, nemmeno lui lo sapeva. I capelli erano diventati radi e bianchi.
Erano apparse le rughe e si infittirono sulla fronte, profonde come solchi
d’aratro.
Si
diradarono le birre che davano la stura alle mezze e confuse confessioni su un
passato inconfessabile. L’ultima volta che lo videro, avanti negli anni e più
ischeletrito che mai, fu nel solito bar, una sera, davanti a un bicchiere di
birra che a fatica provava a svuotare. La parola gli usciva lenta, ma non per
ubriachezza. E gli occhi, gli occhi che aveva tenuto sempre bassi in
atteggiamento di umiltà, questa volta erano inspiegabilmente luminosi, ridenti,
come solo possono esserlo quelli di chi ha, finalmente, la coscienza
rappacificata. Lui non lo sapeva, ma era
il suo 25 aprile. Era il riscatto della povertà.