Raffaello Sanzio, un genio dello spettacolo dietro il divino pittore. A 500 anni dalla morte, un quasi inedito risvolto di vita


di Errico Centofanti - 19 marzo, prima Domenica di Quaresima dell’anno 1514: una giornata che di per sé niente esibisce di straordinario nel corso della storia universale e che tuttavia straordinaria lo è in grazia d’un evento dal quale venne calamitata l’infervorata attenzione di tutti i romani.
La città dei Papi aveva riconquistato, dopo un millennio, il ruolo di capitale del mondo. Giusto un anno prima, sul trono lasciato vacante da Giulio II era subentrato Leone X, un Papa che sarebbe stato anch’egli illustre non tanto in ragione della prestigiosa genealogia, essendo figlio di Lorenzo il Magnifico, quanto invece per la magnificenza artistica e culturale da lui infusa nel rifiorente fulgore di Roma.

Da due anni, Michelangelo aveva completato il titanico affresco della volta nella Cappella Sistina. Leonardo, al culmine della gloria, si accingeva a trascorrere in Vaticano una sorta di biennio sabbatico prima d’andarsene a chiudere in Francia la sua avventura terrena. Bramante, ormai all’ultimo mese di vita, lasciava il timone della Fabbrica di San Pietro a Raffaello, che l’assommava alla sovrintendenza ai palazzi vaticani e all’urbanistica romana nonché alla creazione dei capolavori dipinti nelle Logge e nelle Stanze della residenza papale. Machiavelli e Guicciardini erano nella pienezza della creatività. Ariosto aveva davanti una ventina di mesi per finire di scrivere l’Orlando Furioso. Martin Lutero cominciava a ragionare intorno alle Novantacinque Tesi che di lí a tre anni avrebbero innescato la Riforma Protestante.

Era trascorso quasi un quarto di secolo da quando Colombo aveva scoperto l’America, mentre da quattro anni era in atto l’immensa vergogna europea del gran commercio di schiavi che nell’arco di quatto secoli avrebbe visto il trapianto forzato nelle colonie americane di oltre dieci milioni di africani. Insomma, nel 1514 si era nel vivo di quel torno di tempo che gli storici eleggono a culla della modernità. E simbolo della modernità, anzi delle meraviglie portate con sé dalla modernità, in quella Domenica di Marzo a Roma, fu Annone, l’elefante albino che Manuel I, re del Portogallo, aveva fatto arrivare a Lisbona dall’isola di Ceylon per poi mandarlo in dono a Papa Leone X.

Raffaello e il bel vivere
Di elefanti a Roma non se ne vedevano da piú d’un millennio. Mirabolanti racconti tramandavano la memoria dei pachidermi che per i cartaginesi di Annibale erano state terrifiche macchine da guerra nel vano tentativo di aprirsi la strada verso il Campidoglio. E memoria c’era pure dei tanti elefanti che, nei secoli dei fasti imperiali, avevano entusiasmato gli anfiteatri. Trovarsene adesso uno davanti, in tutta la sua aggraziata massa semovente, suscitava inedite emozioni e inusitate acclamazioni. Addobbato con nappe e gualdrappe intessute di porpora e oro, Annone avanzava maestoso recando sulla groppa un turrito fortilizio d’argento che attraverso porte e finestre spalancate esibiva strepitosi pezzi d’oreficeria insieme con vesti liturgiche tempestate di perle e sfavillanti pietre preziose. Centinaia di prelati, dignitari, ambasciatori e guardie svizzere, tutti nei loro piú sontuosi vestimenti, accompagnavano Annone e i someggiati carichi di altri ricchissimi donativi, mentre da un profluvio di trombe e tamburi, in uno con le campane di tutte le chiese e le cannonate dell’artiglieria papale, si spandeva verso il cielo un ben concertato fragore.

Il corteo, descritto dai cronisti dell’epoca come qualcosa di mai visto prima, impiegò diverse ore per avanzare da Piazza del Popolo fino a Castel Sant’Angelo, dalla cui loggia il Papa era in attesa. Manuel mandava e esibiva pubblicamente doni faraonici nella speranza d’ottenere grandiosi privilegi per la sua politica coloniale. Leone apprezzò e contraccambiò largamente, ma fu sopra tutto ammaliato da Annone, che volle integrato a tutti gli effetti nella famiglia pontificia. Gli fece costruire una ben attrezzata residenza di 130 mq nel cortile del Belvedere. Ne nominò custode uno dei dignitari piú in vista e apprezzati del Vaticano: Giovanni Battista Branconio, orafo pontificio, numismatico pregiatissimo e protonotario apostolico.

L’elefante Annone (disegno a penna su carta di Giulio Romano da un originale di Raffaello, anni 1514-16, Kupferstichkabinett, Staatliche Museen, Berlino).
Cosí, l’elefante bianco, súbito assurto a beniamino dei romani, diventò lo strepitoso fulcro dei cortei papali e delle processioni solenni che Papa Leone, volentieri e frequentemente, promuoveva a maggior gloria della propria popolarità. Quegli avvenimenti dispiegati lungo le strade di Roma erano veri e propri spettacoli semoventi, che con le loro centinaia di fastosi personaggi e gli innumerevoli diversivi di contorno suscitavano l’appassionata ammirazione popolare. Tutto ciò, ovviamente, comportava meticolose fasi preparatorie e una mai ripetitiva creatività progettuale: le linee d’indirizzo erano personale emanazione di Leone X, l’apparato organizzativo faceva capo al Cardinale Innocenzo Cybo, responsabile degli eventi speciali vaticani, mentre alla guida di quella che oggi definiremmo regia c’erano Raffaello e Branconio, inseparabili amici e quotidiani protagonisti della piú elegante mondanità.

Cybo, nipote del defunto Papa Innocenzo VIII per parte paterna e di Lorenzo il Magnifico per parte materna, non era di certo un raffinato intellettuale come il Papa regnante. Infatti, Leone X, che esigeva ovunque e comunque eleganza e creatività, a Cybo, del quale apprezzava i servigi da traffichino e simposiarca ma non la debordante grossolanità, aveva imposto di lasciarsi sovrintendere proprio da due fidatissimi esteti quali Raffaello e Branconio. Comunque, quei quattro (Papa Leone, Raffaello e Branconio, tutti trentenni, e l’ancora ventenne Cybo) erano impenitenti buontemponi, che, in aggiunta alle raffinate fantasmagorie cerimoniali, non esitavano nel condividere la passione per le sfrenatezze del bel vivere e per il concertare beffe e bizzarrie, talvolta pesanti, in danno di altre personalità della curia vaticana. Raffaello, però, fu l’unico, tra i quattro, che avrebbe assicurato a sé stesso vita eterna in quanto, come dice Vasari, «nessuno già mai piú di lui nella pittura valente». E unico fu pure per tutte le altre sue prodigiose doti creative, tra le quali quelle di architetto e gran talento teatrale.

Raffaello scenografo
«Amici miei, diamoci da fare. Giovanni, tu prendi un capo di questo canapo e va’ a metterti in piedi al centro del palcoscenico. L’altro capo lo terrà Battista. Lui resta seduto in prima fila, dove già sta. Adesso, tutt’e due tendete il canapo alla perfezione e tenetene i capi esattamente all’altezza degli occhi di ciascuno di voi. Statevene fermi cosí per quel poco di tempo che a Giulio e Antonio serve per annotare le misure».

Queste parole, sebbene non ne esista traccia documentale, è del tutto verosimile che somiglino assai a quelle pronunciate per davvero da Raffaello nel corso d’una gelida mattinata del Gennaio 1519.
Gli interlocutori erano Giovanni Battista Branconio e poi tre dei principali collaboratori di bottega, anch’essi celebrità a tutto tondo: Giulio Romano, Antonio da Sangallo il Giovane e Giovanni da Udine. Li aveva chiamati a raccolta in vista della messinscena dello spettacolo di punta per il carnevale di quell’anno: I suppositi (cioè, gli scambiati), una commedia degli equivoci che dieci anni prima era stata modellata da Ariosto sugli antichi canoni latini.

Innovativa, per quei tempi, la concezione di Raffaello: «La scenografia ci deve aiutare a stabilire un legame perfetto e naturale tra il pubblico e gli attori: perciò, la questione essenziale sta nel concepirla basandoci su una prospettiva mai tentata prima. Dobbiamo riuscire a stabilire un punto prospettico estremamente basso, il piú basso che sia ragionevolmente possibile». La scenografia raffaelliana apparve in tutta la sua rutilante magnificenza la sera dell’8 Marzo di quello stesso 1519 nel gran salone di casa Cybo, capace d’un migliaio di spettatori. La scenografia era stata effettivamente costruita sulla base delle sperimentazioni prospettiche condotte sul palcoscenico due mesi prima e Alfonso Paolucci cosí ne scrisse al Duca di Ferrara: «il Papa mirava con el suo ochiale la scena che era molto bela, de mano de Raffaello, et representavasi bene per mia fé forami de prospective, che furono molto laudate». Se quella per I suppositi di Ariosto è l’unica scenografia della quale sopravviva un bozzetto autografo, innumerevoli sono i lasciti del talento teatrale di Raffaello pervenuti attraverso gli spettacolari impianti scenografici disseminati nelle creazioni pittoriche e nelle realizzazioni architettoniche.


Il teatro di Villa Madama
Inoltre, ci restano un’ampia documentazione del suo apporto da vero e proprio teatrante nel concepimento dei grandi eventi papali e, sopra tutto, i disegni elaborati per due opere che non gli sono sopravvissute, le quali, tuttavia, vengono universalmente riconosciute come pietre miliari nella storia dell’architettura anche in quanto magistrali esempi di commistione con il linguaggio scenografico: il palazzo edificato davanti San Pietro per l’amico Branconio, poi demolito nella seconda metà del Seicento per far posto al colonnato di Bernini, e Villa Madama a Monte Mario, da lui lasciata incompiuta, poi parzialmente completata da Giulio Romano e Antonio da Sangallo il Giovane, poi semidistrutta dai Lanzichenecchi nel corso del Sacco di Roma del 1527, poi restaurata da Madama Margherita d’Austria e a metà del Novecento entrata a far parte del patrimonio della Repubblica.

La residenza palazziale per Giovanni Battista Branconio venne concepita in perfetta sintonia con la vocazione allo spettacolo condivisa dall’amicale coppia committente-progettista. Fu una vera e propria scenografia di pietra tuttora famosa, nonostante sia scomparsa da tre secoli e mezzo, per il suo aspetto festoso, dovuto alla presenza in facciata e nel cortile di una complessa e policroma compagine di pitture, statue e rilievi in stucco che per la prima volta esibiva a tutta vista un apparato decorativo tanto ricco e strutturalmente integrato nell’architettura.

Quanto al progetto per la grandiosa villa su Monte Mario voluta da Leone X, Raffaello mandò una dettagliata descrizione a Baldassarre Castiglione (quello del Libro del Cortegiano). A coronamento della costruzione, sul fronte rivolto verso Roma, doveva esserci un teatro, pensato con precise attenzioni verso le necessità scenotecniche nonché verso il godimento dell’ambiente che da lí si dispiega: «In questo spatio vi è un bello theatro fatto con questa misura et ragione: [...] et cosí divisa et partita l’area sopra a queste misure, ce sono fatte le gradinate, la scena, il pulpito et l’horchestra. Et de là ce sono fatte le stanze dei scenici dove se habbiano a vestire, per non occupare la veduta del paese, il quale si serrerà solo con cose depinte quando se reciteranno le comedie, acciocché la voce vada alli spettatori. E questo theatro è collocato in modo che non può havere sole doppo il mezzodí, la quale è hora solita a simili giochi».


Il finale del divino pittore
Nel frattempo, l’elefante bianco, fiaccato dal clima inusuale e dalle stressanti esibizioni pubbliche, era spirato dopo poco piú di due anni di vita romana. Fu una gran perdita, specialmente sofferta da Papa Leone, che ordinò a Raffaello di affrescare all’ingresso del Vaticano il ritratto a grandezza naturale del povero Annone, accanto al quale volle un’estesa iscrizione memorativa, composta in parte da lui stesso e per il completamento affidata a Branconio, che negli ultimi righi scrisse: «Raphael Urbinas quod Natura abstulerat arte restituit».

Ma ormai la fatica di vivere andava consumando anche il pur giovane organismo di Raffaello, che ad appena 37 anni si spegneva nel Venerdi Santo del 1520, undici mesi dopo Leonardo.
Il male che lo fulminò lo aveva colto mentre gli mancavano poche pennellate per completare l’ultimo capolavoro, quella Trasfigurazione in cui ancora una volta lascia libero corso al proprio genio teatrale. Il fondamentale slancio compositivo se l’era mutuato da uno tra i piú antichi artifici scenici: il deus ex machina, che dall’alto scende nel bel mezzo dell’affollato palcoscenico per risolvere ogni garbuglio.

Nel caso della Trasfigurazione, però, Raffaello rovescia l’andamento dell’azione e il deus ex machina non lo fa scendere, lascia che s’innalzi dall’ingarbugliata folla degli astanti: intende il suo Cristo come risolutore di tutto, ne materializza la figura, fatta di pura luce, mediante il sottile pulviscolo colorato che sembra intercettarla e ne atteggia la dinamica in modo da indurre la certezza di un’irresistibile ascensione verso l’eternità.

«E nel vero - come dice Vasari - egli vi fece figure e teste, oltra la bellezza straordinaria, tanto di nuovo e di vario e di bello, che si fa giudizio commune de gli artefici che questa opera, fra tante quante egli ne fece, sia la piú celebrata, la piú bella e la piú divina». Lui morto, gliela misero accanto nella camera ardente, «la quale opera - sempre stando a Vasari - nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a ognuno che quivi guardava».

Foto: Raffaello, Autoritratto - a sinistra - con Giovanni Battista Branconio (olio su tela, anni 1518-19, cm 99x83, Musée du Louvre, Parigi, foto: A. Dequier e M. Bard). 

Pubblicato su Sipario (www.sipario.it) il 10 dicembre 2019

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