In copertina: Edward Hopper (New York 1882 – 1967), “Chop suey”, 1929, cm. 81,3x96,5,
olio su tela.
IL SOSIA | Poema pietroburghese
Capitolo 3°.
Tutta quella mattina
Goljadkin la passò affaccendato in grandi faccende. Giunto sul Nevskij
Prospèkt, il nostro eroe diede ordine di fermare davanti al Gostinyj Dvor.
Sceso dalla carrozza, corse sotto un'arcata in compagnia di Petruska e andò
dritto filato in un negozio di articoli d'oro e d'argento. Anche solo a
guardarlo ci si poteva accorgere che Goljadkin non sapeva, per il gran da fare,
dove sbattere la testa. Dopo aver contrattato un servizio completo da tavola e
da tè per più di millecinquecento rubli di assegnati e aver ottenuto, sul
totale, come omaggio, un ingegnoso portasigarette e un completo da barba in
argento, e dopo aver chiesto ancora informazioni sul prezzo di alcuni oggettini
utili e piacevoli nel loro genere, con la promessa che il giorno dopo sarebbe
senz'altro ritornato, o addirittura anche il giorno stesso, per ritirare gli
oggetti contrattati, si segnò il numero della bottega e, ascoltato attentamente
il negoziante che insisteva per avere un piccolo acconto, promise di dare a suo
tempo anche la piccola caparra. Dopo di che, in gran fretta prese congedo dal
mercante che era rimasto interdetto e si avviò lungo la fila di botteghe,
incalzato da una schiera di commessi, girandosi indietro continuamente a
guardare Petruska e cercando con attenzione qualche nuovo negozio. Passò di
corsa in un negozietto di cambiavalute e cambiò in moneta spicciola tutti i
suoi biglietti di grosso taglio e, pur perdendoci nel cambio, fece lo stesso
l'operazione e il suo portafogli ne fu ingrossato ben bene, cosa che,
evidentemente, gli procurò una enorme soddisfazione. Infine si fermò in un
negozio di stoffe per signora. Anche qui, dopo aver contrattato, sempre per una
notevole somma, Goljadkin promise al mercante che sarebbe sicuramente
ritornato, anche qui si segnò il numero della bottega e, alla richiesta di un
piccolo acconto, ripeté che, a suo tempo, avrebbe sborsato pure il piccolo
acconto. Poi visitò ancora qualche altra bottega; in tutte contrattava, si
informava dei prezzi di oggetti vari, discuteva a lungo coi negozianti usciva e
rientrava anche tre volte di seguito; a farla breve, dimostrava un attivismo
fuori dal comune. Dal Gostinyj Dvor, il nostro eroe si diresse in un famoso
negozio di mobili dove contrattò l'arredamento per sei camere, ammirò una
pettiniera per signora, molto originale e di gusto modernissimo e, assicurato
il mercante che sarebbe ritornato di certo, uscì dal negozio, promettendo come
d'abitudine un acconto; poi andò ancora in questa e in quell'altra bottega e
contrattò ancora per questa e quella cosa. A farla breve il suo daffare non
finiva mai. Finalmente tutto questo cominciò a stufare anche Goljadkin. E, Dio
sa per quale motivo, cominciarono a tormentarlo di punto in bianco certi
rimorsi di coscienza. A nessun costo avrebbe ora acconsentito a incontrarsi, per
esempio, con Andréj Ivànovic'. Finalmente gli orologi pubblici batterono le tre
pomeridiane. Quando Goljadkin salì definitivamente in carrozza, di tutti gli
acquisti fatti quella mattina non gli restavaa in realtà che un paio di guanti
e una boccetta di profumo, per un rublo e mezzo di assegnati. Poiché per
Goljadkin era ancora relativamente presto, ordinò al cocchiere di fermarsi a un
noto ristorante sul Nevskij Prospèkt che conosceva soltanto di nome, scese
dalla carrozza e corse dentro per mangiucchiare qualcosa, riposarsi e aspettare
il tempo necessario.
Consumato uno spuntino
come lo può fare uno che abbia la prospettiva di un pranzo coi fiocchi, cioè
dopo aver spiluccato qua e là qualcosina, tanto, come si dice, per ingannare
l'appetito, e aver bevuto un solo bicchierino di vodka, Goljadkin si sedette su
una poltrona e, rivolto un modesto sguardo intorno, si apprestò tranquillamente
alla lettura di uno scarno gazzettino nazionale. Dopo averne lette due righe,
si alzò, si osservò in uno specchio, si aggiustò i capelli e si diede una
sistematina; si avvicinò poi a una finestra e diede un'occhiata fuori per
vedere se la sua carrozza fosse sempre lì... poi si rimise a sedere allo stesso
posto e riprese il giornale. Era evidente che il nostro eroe si trovava in uno
stato di grandissima agitazione. Guardato poi l'orologio e visto che erano solo
le tre e un quarto, e che di conseguenza se ne sarebbe dovuto rimanere lì ad
aspettare parecchio tempo ancora, riflettendo contemporaneamente che era così
poco conveniente restarsene lì seduto, Goljadkin ordinò che gli si portasse una
cioccolata della quale, però, in quel momento, non provava una gran voglia.
Bevuta la cioccolata e notato che era passato un po' di tempo, si mosse per
pagare il conto.
All'improvviso
qualcuno gli batté sulla spalla.
Si girò e vide davanti
a sé due suoi colleghi d'ufficio, proprio quegli stessi che aveva incontrato al
mattino nella Litéjnaja, due ragazzi ancora molto giovani e di età e di grado.
Il nostro eroe era in rapporti così e così con loro... non di amicizia e
nemmeno di aperta ostilità. Si capisce che da entrambe le parti le convenienze
venivano rispettate; ma non esisteva una grande intimità né poteva essercene.
L'incontro, in quel momento, fu sgradevolissimo per Goljadkin. Aggrottò un po'
il viso e per un attimo rimase interdetto.
"Jakòv Petrovic',
Jakòv Petrovic'!" cominciarono a cinguettare i due registratori di
collegio, "voi qui? per quale..." "Ah! Siete voi, signori!"
l'interruppe frettoloso Goljadkin, un po' confuso e scandalizzato per lo
stupore dei due impiegatucci e nello stesso tempo per quella loro maniera di
trattare così alla buona, assumendo, controvoglia, un'aria disinvolta e un po'
burbera. "Avete disertato, signori, eh, eh, eh!..." A questo punto,
per non scendere fino al livello dei giovani di cancelleria coi quali manteneva
sempre le dovute distanze, provò persino a battere qualche colpetto sulla
spalla di uno dei due; ma un tale gesto democratico in quel caso non riuscì
bene a Goljadkin e, invece di un gesto affettuoso e nello stesso tempo
appropriato, ne risultò qualcosa di completamente diverso.
"Il nostro orso,
dunque, è in ufficio?" "Chi sarebbe quest'orso, Jakòv
Petrovic'?" "Be'... come se non sapeste chi viene chiamato
l'orso...!" Goljadkin si mise a ridere e si volse verso il garzone per
prendere il resto. "Alludo ad Andréj Filìppovic', signori" continuò,
dopo aver finito col garzone e rivolgendosi verso i due impiegati, ma questa
volta con la faccia seria. I due registratori di collegio si scambiarono una
significativa strizzatina d'occhi.
"E' ancora in
ufficio e ha chiesto di voi, Jakòv Petrovic'" rispose uno dei due.
"Ancora in
ufficio! In tal caso ci resti, signori! E ha chiesto di me, eh?" "Ha
chiesto di voi, sì, Jakòv Petrovic'; e, anzi, come mai siete così profumato e
ripulito, proprio come un damerino?" "Così, signori, così...
Basta..." rispose Goljadkin, guardando da una parte e dopo un sorriso
piuttosto stiracchiato. Nel vedere che Goljadkin sorrideva, i due impiegati
scoppiarono in una risata.
Goljadkin fece un po'
la faccia scura.
"Vi dirò,
signori, in via del tutto amichevole" riprese, dopo un po' di silenzio, il
nostro eroe come se (e così sia!) avesse deciso di rivelare qualcosa ai due
impiegati. "Voi, signori, mi conoscete, ma fino a oggi avete conosciuto di
me solo un lato. Non c'è, in questo caso, da rimproverare nessuno e in parte,
lo confesso, sono io il colpevole." Goljadkin strinse le labbra e fissò
sui due uno sguardo pieno di significato. Gli impiegati si scambiarono di nuovo
una strizzatina d'occhi.
"Fino a oggi,
signori, non mi avete conosciuto. Spiegarsi in questo momento e in questo luogo
non sarebbe assolutamente a proposito. Vi dirò solo qualcosa di passaggio e di
sfuggita. C'è della gente, signori, che non ama le vie traverse e si mette la
maschera soltanto per i balli mascherati. Ci sono altri, invece, che pensano
che il vero compito dell'uomo consista nell'abilità con cui lucida i pavimenti
con gli stivali. E ci sono anche delle persone, signori, che non diranno che
sono felici e che vivono compiutamente se non quando, per esempio, i pantaloni
stanno loro a pennello. E c'è, infine, della gente che non ama bighellonare e
girare a vuoto, cianciare di cose futili e insinuarsi nelle grazie altrui e
soprattutto, signori, ficcare il naso dove nessuno li cerca... Io, signori, ho
detto quasi tutto: permettete, ora, che me ne vada..." Goljadkin si ferma.
Poiché i registratori di collegio erano ormai soddisfatti a dovere, tutti e due
all'improvviso si sbellicarono dalle risa in modo veramente indecente.
Goljadkin avvampò.
"Ridete, signori,
ridete adesso! Chi vivrà vedrà..." disse con un'aria di dignità offesa,
dopo aver preso il cappello e ritirandosi verso la porta.
"Ma vi dirò di
più, signori" aggiunse, rivolgendosi per l'ultima volta verso i
registratori di collegio, "vi dirò di più: voi siete qui tutti e due di
fronte a me. Ecco, signori, i miei princìpi: se mi riesce resisto, tengo duro e
in ogni caso non tolgo il terreno da sotto ai piedi di nessuno. Non sono un
intrigante, e di questo vado fiero. In diplomazia non sarei servito a niente.
Si dice anche, signori, che l'uccello vola da solo verso il cacciatore. E'
vero, e io sono pronto a convenirne: ma qui chi è l'uccello e chi il
cacciatore? Questo è il problema, signori!" Goljadkin tacque
eloquentemente e, col viso il più possibile significativo, cioè sollevando le
sopracciglia e stringendo al massimo le labbra, fece un bell'inchino agli
impiegati e poi uscì lasciandoli addirittura senza parole.
"Dove ordinate di
andare?" chiese in tono piuttosto ruvido Petruska, che era ormai stufo,
probabilmente, di quel gironzolare al freddo. "Dove ordinate che si
vada?" domandò a Goljadkin, scontrandosi con quel suo terribile sguardo
annientatore che il nostro eroe aveva usato quella mattina e al quale ora per
la terza volta aveva fatto ricorso mentre scendeva la scala.
"Al ponte
Izmajlovskij!" "Al ponte Izmajlovskij! Via!" "Il pranzo da
loro non comincerà prima delle cinque e anche dopo", pensava Goljadkin
"non è ancora presto? Del resto, posso anche arrivare un po' in anticipo
e, poi, alla fin fine, è un pranzo di famiglia. Posso comportarmi in questo
modo 'san-fasòn' come si dice tra la gente perbene. Perché poi non dover essere
'san- fasòn'? Anche il nostro orso diceva che tutto sarà 'san-fasòn' e perciò
anch'io..." Così andava almanaccando; e intanto la sua agitazione si
faceva mano a mano più intensa. Si capiva che si stava preparando a qualcosa
che lo preoccupava molto, per non dire di più: parlava a bassa voce tra sé,
gesticolava con la mano destra, guardava continuamente dal finestrino della
carrozza, tanto che, osservando in quel momento Goljadkin, nessuno avrebbe
potuto ragionevolmente pensare che si stesse preparando a un buon pranzo senza
cerimonie e per di più in un ambiente familiare, 'san-fasòn', come si dice tra
gente dabbene. Finalmente, proprio vicino al ponte Izmajlovskij, Goljadkin
indicò una casa: la carrozza entrò con fracasso nel portone e si fermò
all'ingresso dell'ala destra. Notata a una finestra del secondo piano un figura
femminile, Goljadkin le mandò un bacio con la mano. D'altra parte non sapeva
lui stesso che cosa facesse, perché in quel momento era più morto che vivo.
Scese dalla carrozza pallido, smarrito; salì al pianerottolo d'ingresso, si
tolse il cappello, si ravviò con gesto meccanico i capelli e, sentendo per di
più un leggero tremito alle ginocchia, si lanciò su per la scala.
"Olsufij
Ivànovic'?" domandò al servo che gli aveva aperto.
"E' in casa,
signore, cioè no, non è in casa..." "Come? che dici, caro? Io, io
sono atteso a pranzo, fratello. Tu mi conosci, no?" "Come non
conoscervi, signore? Non ho avuto ordine di farvi entrare, signore."
"Tu... tu, fratello... credo che tu sia in errore, fratello. Sono io. Io,
fratello, sono stato invitato, invitato a pranzo" disse Goljadkin,
liberandosi dal cappotto e mostrando l'evidente intenzione di dirigersi nelle
stanze.
"Scusate,
signore, non si può, signore. Ho avuto l'ordine di non ricevervi, signore,
l'ordine di non farvi entrare. Ecco com'è." Goljadkin impallidì. Proprio
in quel momento la porta che dava nelle stanze interne si aprì e apparve
Gherasimyc', il vecchio cameriere di Olsufij Ivànovic'.
"Ecco, Emeljàn
Gherasimyc', vuol entrare, e io..." "E voi siete uno stupido,
Alekséjc'. Andate dentro e mandate qui quel manigoldo di Semjonyc"' disse
al servo, e poi, rivolgendosi cortesemente ma con fermezza a Goljadkin,
continuò: "Non si può, signore; non è assolutamente possibile, signore. Vi
pregano di scusare, signore, ma non possono ricevervi." "Hanno detto
così, che non possono ricevermi?" domandò, esitante, Goljadkin.
"Scusate, Gherasimyc', ma perché non è assolutamente possibile?"
"Non si può, assolutamente. Io vi ho annunciato, signore; hanno detto:
pregalo di scusare. Non possono, dicono, ricevervi." "E perché mai?
come mai questo? come..." "Permettete, permettete..." "Come
mai questo? Non è possibile, così... Riferite... Come mai questo? Io al
pranzo..." "Permettete, permettete..." "Be', ma questa è
un'altra faccenda: pregano di scusare; però permettete, Gherasimyc', come mai
questo, Gherasimyc'?" "Permettete, permettete" insisté
Gherasimyc', allontanando con una mano, con un gesto molto deciso, Goljadkin e
facendo largo a due signori che in quel momento facevano il loro ingresso in
anticamera.
I due signori che
entravano erano Andréj Filìppovic' e suo nipote, Vladimir Semjanovic'. Entrambi
guardavano sconcertati Goljadkin.
Andréj Filìppovic'
avrebbe voluto dire qualcosa, ma Goljadkin aveva già preso la sua decisione:
stava ormai uscendo dall'anticamera di Olsufij Ivànovic', a occhi bassi, rosso
in viso, sorridendo con un'espressione del tutto sconcertata.
"Tornerò dopo,
Gherasimyc'; mi spiegherà. Spero che tutto ciò non tarderà ad avere a suo tempo
una spiegazione" disse sulla soglia e in parte già sulla scala.
"Jakòv Petrovic',
Jakòv Petrovic'!" si udì la voce di Andréj Filìppovic' che aveva seguito
Goljadkin. Goljadkin si trovava già sul primo pianerottolo. Si voltò
rapidamente verso Andréj Filìppovic':
"Che volete,
Andréj Filìppovic'?" chiese in tono piuttosto fermo.
"Che vi succede,
Jakòv Petrovic'? Come mai?" "Non è nulla, Andréj Filìppovic'! Sono
qui per conto mio. Qui si tratta della mia vita privata, Andréj
Filìppovic'." "Che significa?" "Vi dico, Andréj
Filìppovic', che questa è la mia vita privata e che qui, a quanto pare, non si
può trovare niente di riprovevole che riguardi i miei rapporti ufficiali."
"Come! Riguardo ai rapporti... che avete dunque, signore?"
"Niente, Andréj Filìppovic', assolutamente niente; una ragazzata
impertinente, nulla di più..." "Che cosa!... Che cosa?!..."
sbigottì Andréj Filìppovic'.
Goljadkin, che fino a
quel momento aveva parlato con Andréj Filìppovic' dal fondo della scala e lo
aveva guardato, a quanto pareva, come se si preparasse a saltargli agli occhi,
nel vedere che il caposezione era rimasto un po' turbato, fece, senza che
nemmeno se ne accorgesse, un passo avanti. Andréj Filìppovic' ne fece uno
indietro. Goljadkin salì un gradino e poi un altro ancora. Andréj Filìppovic'
rivolse intorno uno sguardo preoccupato. Goljadkin improvvisamente prese a
salire di corsa la scala. Ma, ancora più rapidamente, Andréj Filìppovic' si
precipitò nella stanza sbattendosi la porta alle spalle. Goljadkin restò solo.
Rimase come trasognato. Si sentì completamente smarrito e stava immobile in non
so quale stato di sconclusionata meditazione, come se tentasse di ricordarsi di
una qualche ugualmente sconclusionata circostanza capitatagli poco prima.
"Eh, eh!" bisbigliò con un sorriso forzato. Intanto, dal fondo della
scala risuonarono delle voci e dei passi, probabilmente di nuovi ospiti,
invitati da Olsufij Ivànovic'. Goljadkin, ripresosi un po', rialzò il più
possibile il bavero di procione, vi si nascose per quanto poté e cominciò a
scendere le scale, arrancando, affrettandosi e inciampando. Sentiva dentro di
sé come una grande stanchezza e un indolenzimento. Il suo imbarazzo era tanto
forte che, uscito sul pianerottolo d'ingresso, non rimase nemmeno ad aspettare
la carrozza, ma andò lui stesso a raggiungerla, attraversando il cortile pieno
di fango. Arrivato alla carrozza e preparandosi a prendervi posto, Goljadkin
espresse mentalmente il desiderio di sprofondare sottoterra o di nascondersi,
fosse anche in un buco per topi, insieme con la carrozza. Aveva l'impressione
che tutti quelli che si trovavano in quel momento in casa di Olsufij Ivànovic',
ecco, lo stessero ora osservando da tutte le finestre. Sapeva che, se si fosse
girato indietro, sarebbe certo morto lì, su due piedi.
"Che hai da
ridere, testone?" chiese eccitato a Petruska che si preparava ad aiutarlo
a salire in carrozza.
"Ma perché dovrei
ridere? Non ho nulla da ridere. Dove si deve andare, ora?" "Va' a
casa, muoviti..." "A casa!" gridò Petruska, arrampicandosi sul
seggiolino posteriore.
"Che razza di
voce da corvo!" pensò Goljadkin.
Intanto la carrozza si
era già allontanata un bel po' dal ponte Izmajlovskij. All'improvviso il nostro
eroe tirò con violenza il cordone e gridò al cocchiere di tornare
immediatamente indietro.
Il cocchiere fece
girare i cavalli e in due minuti arrivò di nuovo nel cortile di Olsufij Ivànovic'.
"Non serve, testone, non serve; indietro!" grida Goljadkin, e sembrò
che il cocchiere si aspettasse un contrordine simile; senza trovarci niente da
ridire e senza nemmeno fermarsi all'ingresso, fece il giro del cortile e eccolo
di nuovo sulla strada.
Goljadkin non andò a
casa, ma, oltrepassato il ponte Semjonovskij, ordinò di girare in un vicolo e
di fermarsi nei pressi di una trattoria di aspetto piuttosto modesto. Sceso
dalla carrozza, il nostro eroe pagò il vetturino e così si liberò finalmente
della carrozza. Ordinò a Petruska di tornare a casa e di aspettare il suo
ritorno; entrò poi nella trattoria, scelse un salotto particolare e ordinò che
gli servissero il pranzo. Si sentiva molto male, con la testa piena di
confusione e di caos.
Passeggiò a lungo per
la sala, in preda all'agitazione; poi finalmente si mise a sedere su una sedia,
appoggiò la fronte sulle mani e cercò con tutte le sue forze di esaminare e di
venire a capo di qualcosa circa la sua situazione attuale...
Fëdor Michajlovič Dostoevskij
Andrea Giostra
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