di Giuseppe Lalli - L’AQUILA
- Ho serbato, come tanti aquilani, un vivido ricordo dei giorni che
precedettero la tragedia di quel 6 aprile di dieci anni fa. L’idea che la
catastrofe fosse imminente mi accompagnava da qualche giorno. Verso la fine di
marzo, una mattina, mentre mi recavo al lavoro, mi ero intrattenuto a parlare
con un amico, professore di storia all’Università dell’Aquila. Si era aggiunto
un conoscente che aveva rievocato come nel terremoto di Avezzano, circa un
secolo prima, la terribile scossa finale che avrebbe raso al suolo la città
marsicana, e causato migliaia di vittime, era stata preceduta da uno sciame sismico
simile a quello che si stava verificando in quei giorni nel nostro territorio.
Verità storica o suggestione della memoria? Sta di fatto che l’eco di quella
conversazione me la sono portata dietro come un piccolo fardello, che sarebbe
diventata una piccola ossessione dopo la scossa del pomeriggio del 30 marzo.
La
sera del 5 aprile, l’avvisaglia delle 22,45 mi trova a guardare un film su Suor
Giuseppina Bakita, la suora
canossiana ex schiava canonizzata da Papa
Wojtyla. Penso che sia il caso di uscire, ma la figura della santa un po’
mi rassicura. Eppure l’idea della catastrofe imminente mi perseguita. Dopo la
scossa successiva, quella dopo la mezzanotte, penso che sì, si debba proprio
uscire, e lo dico a mia moglie. Ma poi desisto, per non allarmare i miei.
Indosso però una tuta e delle scarpe da ginnastica: così, per scaramanzia, e
per trovarmi pronto alla fuga. Decido di dormire sul divano, sotto una pesante
libreria che di lì a poco sarebbe venuta giù con tutti i libri e la
cristalleria. Mi decido alla fine ad andare a letto solo mezz’ora prima della
tragedia (chissà, un suggerimento di Suor Bakita...).
Alle
3,32, da poco assopito, sono svegliato da quelle che sulle prime mi paiono
cento mandrie di bisonti che per interminabili secondi passano al galoppo sotto
la camera da letto, che mi aspetto debba schiantarsi da un momento all’altro
insieme a tutto il palazzo. «Oddio!!! Il terremoto!!!», grida mia moglie.
Appena prendo coscienza di quello che sta succedendo, mi pare di udire la voce
di un gigantesco mostro che urla: «Mi avete provocato? Ecco la mia
risposta!!!». Confesso che per un’eternità di attimi tutto il mio universo
mentale ha tremato molto più della casa. In quegli istanti, non ho sentito Dio
nel quale credo, ma solo il mostro che urlava, e io che desideravo… -
terribile! - di non essere nato.
Mi
precipito nella stanza di mio figlio: entro, non lo vedo...ho un tonfo al
cuore, poi guardo meglio: sta sotto una scrivania, faccio un respiro di
sollievo. La figlia invece, nella sua stanza, subito la scorgo: è sotto una
scrivania, anche lei. «I ragazzi hanno eseguito alla lettera – ho pensato –
quello che hanno raccomandato a scuola».
Cerchiamo di guadagnare in fretta l’uscita, con le mani e con i piedi, attraversando,
come in un fiume in piena, i vetri di quella che fino a pochi minuti prima era
la grossa libreria che arrivava fino al soffitto. «L’ho scampata bella», mi
viene da pensare.
Una
volta sul pianerottolo, è tutto un urlo, un grido, un precipitarsi sulla rampa
delle scale. Giusto il tempo di guardarsi nei volti terrorizzati e mia moglie,
lucida nonostante tutto, mi mette tra le braccia il bambino di circa due anni
di una vicina del piano di sopra. Vorrei fare le scale due a due, ma c’è il
piccolo fardello che me lo impedisce. «Oddio – penso – e se lo faccio cadere?».
Quando poi, dopo qualche minuto, una volta giù nella strada, lo restituisco
alla madre, mi scopro, per qualche istante, di serrare ancora le braccia al
petto…
Aspettiamo
l’alba insieme a tanti vicini del quartiere, riscaldati da un fuocherello
acceso sotto una baracca nell’orto di una signora, a sorbire un caffè che sa di
tristezza e di speranza. Sotto quella fiamma che ci accomuna le piccole beghe
condominiali sembrano lontane anni luce e i sorrisi dei visi appena appena
rilassati si lasciano alle spalle il ricordo di piccoli screzi. Attorno a noi,
mentre i primi elicotteri solcano il cielo, si comincia ad intravedere, tra i
primi bagliori di sole, rossi come il fuoco che ci riscalda, tutta una
geometria nuova, come in un quadro di pittura astratta: palazzi sfregiati da
linee regolari come se una lama gigantesca vi fosse passata (mi torna alla
mente il… mostro), altri che sembrano parallelepipedi inclinati pronti a cadere
alla minima spinta. «Tutti i sudori di una vita...», sussurra una vicina di
casa. «Ma no, vedrai – le dico – le case ce le rifaranno in pochi mesi»: cosa
non s’inventa il cuore per sbarrare la strada alla ragione….
Passa
una pattuglia della polizia. Dalla macchina ci chiedono come stiamo. Si
farfuglia qualcosa, ci informano che al centro storico è un disastro: si
prevedono molti morti. «Là il mostro è stato davvero impietoso», mi viene di
pensare ancora. Ci fanno raccomandazioni. Quei ragazzi in divisa sembrano più
assistenti sociali che forze dell’ordine. Insieme ad un altro vicino andiamo a
fare una passeggiata attorno per capire le dimensioni del disastro e mentre
torniamo, con le macerie negli occhi e nel cuore, con spontaneo e reciproco
gesto, ci mettiamo sotto braccio, come due fratelli: «Ecco - ho pensato – forse
Dio a volte lascia libero il mostro per ricordare agli uomini che devono
tenersi per mano».
Nei
giorni che vennero subito dopo, lontano dalla mia città, credetti di
comprendere due verità elementari, ma che non si imparano sui libri. «Alle cose
bisogna passarci», diceva mia nonna. Insieme alla casa, è tutto un mondo che ti
crolla. Capii che la casa non è solo mura di calce e mattoni, dove si abita: è
un universo, una strada, un vicolo, sono i colori delle persiane, è la luce
riflessa nelle pietre, è la vicina che ti dice «Buon giorno», è il raggio del
sole che trapela attraverso le tapparelle.
Per
esprimere il nostro benessere, non troviamo espressione migliore che dire che
ci sentiamo a casa nostra. Nella
quiete forzata di quel piccolo esilio, sentii risuonare, come per la prima
volta, nomi come Paganica, Onna, Villa Sant’Angelo, Castelnuovo
di San Pio: tutta una geografia dell’anima che quella notte la gigantesca
lama del mostro aveva squarciato. Il senso comune ci ripete che siamo figli dei
tempi. Il buon senso ci ricorda che siamo, forse ancor più, figli dei luoghi.