a cura di Andrea Giostra - La rubrica “Racconti brevi da leggere
online”, che abbiamo iniziato qualche settimana fa, ha avuto un successo di
lettori interessante e incoraggiate insieme.
L’utilizzo della “formula” dei
racconti o dei romanzi da leggere a puntate, come abbiamo già scritto - http://www.fattitaliani.it/2018/11/racconti-brevi-da-leggere-online-puntate.html
- nasce alla fine dell’Ottocento europeo e quindi, questo strumento di intrattenimento
culturale, osservato dalla prospettiva dei giorni nostri, dell’Homo
technologicus che ha preso prepotentemente il posto dell’Homo sapiens dei
secoli scorsi, poteva apparire anacronistica e forse anche fuori luogo. I
risultati, almeno fino ad adesso, ci hanno dato ragione e abbiamo preso in
considerazione le proposte di diversi autori e di diverse case editrici che ci
hanno chiesto di far parte di questo progetto editoriale, ovvero, quello della
lettura breve e veloce da fare online attraverso il nostro magazine.
Il nostro giornale, da questa
prospettiva, con questo piccolo progetto, si muove lungo le linee editoriali
che gli appartengono, quelle di diffondere e di stimolare il piacere della
lettura attraverso piccole storie da leggere velocemente o, come in questa
nuova rubrica, attraverso romanzi da leggere a puntate/capitoli a cadenza
settimanale.
L’editore che inaugura questa rubrica
è Cristina del Torchio (già nostra
ospite in una bella intervista di qualche mese fa - http://www.fattitaliani.it/2018/09/intervista-alla-scrittrice-ed-editrice.html), la sua casa editrice “Rupe Mutevole”
di Bedonia in provincia di Parma, che ringraziamo per aver aderito a questo
progetto e per averci concesso alcuni dei romanzi già pubblicati in una delle
collane della casa editrice.
Il romanzo che leggeremo a puntate è “La
luce negli occhi” pubblicato nel 2004, che ha avuto un grande successo
editoriale, e narra di Haria, la protagonista, e dei i suoi
pellegrinaggi che attraversano il tempo e i secoli della storia dell’uomo. Una
donna che vive società diverse eguagliate da una forte ostilità umana ed
un’ottusità che scuote l’animo del lettore per la veridicità degli eventi che
si succedono, collocati in momenti molto distanti tra loro ma, per certi versi,
accomunati dall’umanità e dalla sofferenza.
Ecco il primo dei capitolo. I
successivi li pubblicheremo a cadenza settimanale. Buona lettura a tutti voi…
Note dell’editore:
«Haria
vive ritirata sull'appennino ligure-emiliano, e comunica con il mondo esterno
mediante i suoi libri, in cui dispensa la conoscenza di cui è portatrice. Ove
giovani donne, in secoli diversi, in fuga dal proprio tempo, in fuga per la
consapevolezza e la libertà. Nove vite, una vita, e una luce negli occhi che le
guida e le accomuna. Nove donne oltre il varco sull'ignoto, per un magico,
solidale destino.»
“La luce negli occhi”, Haria, Collana Letteratura di Confine, Proprietà letteraria riservata, ©
RUPE MUTEVOLE, prima edizione 2004, ristampe 2009-2012-2018.
1
capitolo
Noi, gli Alberi, accogliemmo molte vite.
Noi, le Rocce, ne custodimmo la memoria.
Noi, i Torrenti, ne trascinammo gli anèliti.
Noi, i Venti, ne spargemmo i mutamenti.
Io, il Silenzio, ne colmai i sogni.
E la Bellezza
ricompose.
1253 a.C.
So il bisbiglio delle ombre striscianti in questo
increspato tramonto. Il mio sguardo indaga, i miei occhi frugano, sperano in
una traccia che ribalti la mia ossessione: essere in fuga.
In fuga, in fuga,
fuga, fuga, è un’eco dentro che mi inonda mentre corro verso il
bosco, dominio di un dio temuto. Dietro, lontani, rimbalzano i latrati dei
cani; fiutano la mia follia e braccano il mio odore, incitati dall’ira
dell’uomo che ho lasciato. L’uomo che per molte e troppe lune mi ha dominata
lungo distese d’erba e sul giaciglio di pelli, nell’aspra lotta per il cibo e
nel breve abbandono del sonno. Non voglio più essere schiava del suo sudore, né
rincorrere il suo raro sorriso, né abbassare lo sguardo davanti alla sua ebbra
collera, né pregare Pen di renderlo solo mio: che le altre si contendano l’osso
sbraitando e scaltrendo, io non mi sono piegata
all’umore spietato della più anziana o alla falsa amicizia della più giovane;
io voglio la libertà.
E corro verso il bosco, terra di confine.
Haria!
Lui ha urlato il mio nome come riverbero di comando
disperato, e non l’ha mai fatto; mi vuole indietro affinché tutto torni come
prima e la legge di Anzol sia rispettata. Teme la collera del Servitore di Pen,
l’untuoso Diverso che con bocca ritorta impone sacrifici al dio e schiamazza
nuove regole, che lui stesso inventa. Ma l’ho visto sporcare i sogni di una
fanciulla e inquinare per sempre la sua purezza, l’ho sorpreso spargere veleno
sulle ottuse dispute fra gli uomini belando pace; l’ho udito vomitare oscenità
al primo sorso di ot e corteggiare con gusto la bestemmia dopo le prime
ciotole.
Haria!
Così l’uomo umilia la propria arroganza e si fa orbo
inseguitore di una ragione perduta. Lo immagino frignare sul bene che non gli
risponde, lamentarsi della sua meschina sorte e ruggire contro la donna che lo
ridicolizza. E tutto questo mentre sprona i cani! che follia...la mia, non la
sua. Lui è fatto come è fatto, ma io...gli sono stata accanto e ho cullato le
sue balorde visioni, ho scommesso sul suo valore, ho giurato sulla sua onestà.
E
corro verso il bosco, labirinto di ignoto.
Mio padre si batté per una fascia di terra contesa,
sul monte Tomar. A mia madre, ritta sulla soglia della dimora, dissero che il
suo uomo aveva retto lo scontro fino all’ultimo; un colpo d’ascia infertogli
alle spalle lo aveva abbattuto. Mia madre resse lo sguardo sul suo corpo senza
vita e non versò una lacrima, non si lamentò, non disse niente. Con un lieve e
deciso segno di una mano mi ordinò di tacere e restò fiera e immobile al suo
posto a guardare gli uomini che con gesti antichi preparavano il cadavere per
il fuoco sacro.
Mia madre non era donna comune, non era donna
semplice, era una drusca. Mi portò da sua sorella, mi baciò e in solitudine
salì sul Rago, il monte vulcano dei suoi antenati. Lassù ignorò la consuetudine
di tornare e darsi in moglie al fratello del suo uomo, e si lasciò cadere
nell’abisso gridando il nome di mio padre.
E corro verso
il bosco, sorte di misteri.
Il fratello di mio padre mi svezzò a calci. Era un uomo duro e badava a far
male. Forse si divertiva o forse puniva me per non punire la sua donna,
incapace di dargli figli maschi; un’altra femmina in casa era più di quanto
fosse in grado di sopportare, ma non poté rifiutarmi. Guardò mia madre
allontanarsi per il suo ultimo viaggio, la guardò con una strana, lunga pena. La sorella di mia madre guardò lui e seppe che da
molto tempo il suo uomo pensava a un’altra; ma non disse niente e lasciò che la
fierezza sconfiggesse l’autocommiserazione. Anche lei era una drusca.
Non impedì mai al suo uomo di picchiarmi, non si
intromise; non poteva e non ne era capace. Ma mi insegnò la dignità di
sopportare i colpi e di reggere lo sguardo dell’uomo che si accaniva sul mio
corpo come non faceva con il più vecchio e inutile dei suoi cani. Appresi
l’arte del silenzio e covai vendetta; anch’io ero una drusca.
Fui serva delle sue tre figlie e accettai di piegarmi
alla sua furia di padrone. Più tardi, quando passò dalle botte alle carezze,
seppi che mi voleva. Lo lasciai frugare sotto la mia veste, tastarmi e
accarezzarmi; ubriaco, insinuare lusinghe impastate di minacce. Grazie a lui
scoprii la mia bellezza, e presi a provocarlo.
Haria!
La prima volta che pronunciò il mio nome fu come se il
Giardino di Pen si fosse aperto ai miei occhi. Lo avevo in pugno, e intessei il
mio piano.
E corro verso
il bosco, rifugio di destini.
Bambina, sognavo molte vite, e una: nascevo, morivo e rinascevo in mondi
diversi ma nello stesso luogo; volavo libera sul Pen, il mio luogo preferito,
dove il dio aveva dimora e lo spirito degli antenati
sognava altre vite e altri luoghi. Spesso mia madre mi raggiungeva in volo e mi
sussurrava storie che al risveglio non ricordavo, ma ogni volta la mia
resistenza e i miei silenzi crescevano, e una strana luce verde si insinuò nei
miei occhi.
La sorella di mia madre mi portò da sua nonna, una
vecchia che viveva in solitudine sulle sponde di un lago sul versante freddo
del monte Nero. Di quel lago si raccontavano storie di donne Yol che in
tempi antichi erano scomparse nell’ignoto e che di tanto in tanto riapparivano
dalle nebbie e calavano a valle per rendere folli gli uomini e sterili le
donne. E si diceva che la vecchia fosse la crudele guardiana del lago.
Risalendo le nere foreste del monte la sorella di mia
madre disse che la nonna era una donna di conoscenza e non dovevo temerla.
Quando la vidi apparire da dietro un grande faggio notai nei suoi occhi la
stessa luce verde che animava i miei. La vecchia percorse con lo sguardo i
tratti del mio viso, mi fissò e il mondo scomparve. Rimasi con lei molto tempo.
Nevicava il giorno che il fratello di mio padre decise di partire per la
caccia al daino. Era l’alba e l’uomo mi svegliò dal mio sonno di sogni. Mi
guardò con un sorriso avido di sangue e sesso e mi chiese di andare con lui. La
sorella di mia madre aprì gli occhi, scrutò il suo uomo
e seppe che non lo avrebbe mai più rivisto.
Procedeva davanti a me, attento ai rumori e agli
odori. Fiutava la preda. Il suo arco di bosso gli infondeva coraggio. Incoccò
una freccia, puntò una volpe rossa e scoccò. L’animale volò su se stesso e
ricadde sulla neve fresca. L’uomo corse ridendo, corse felice perché aveva
ucciso; si chinò sulla preda e mi guardò. Io lo guardai, lui mi fece segno di
raggiungerlo, io mi avvicinai. Prese a scuoiare la volpe. Gli andai alle
spalle, trassi il coltello di mio padre e gli tagliai la gola.
I lupi fecero a pezzi il suo corpo.
La sorella di mia madre percepì la fierezza selvaggia
nei miei occhi e seppe cos’era accaduto. Non disse niente, comprese le ragioni
di una ragazza drusca. Distolse lo sguardo e io capii che dovevo andarmene.
Vagai per le foreste del nord estremo, nei freddi e
nelle ombre perenni, mi nutrii di piccole prede contese ai lupi, meditai. Un
giorno, spinta dalla fame, discesi la montagna e mi unii al primo uomo che
incontrai. Era un coltivatore del fondovalle solcato dal Cen, il sacro
torrente. Quell’uomo mi piacque e io piacqui a lui. Ero una drusca, una
selvaggia, e quella strana gente che coltivava radici e mangiava pesci mi
guardò attraversare il villaggio.
Accettai la legge di Anzol ma non diedi figli al
mio uomo; non ne volevo.
Mi ha sorpreso bere un decotto di cren, l’erba
che non rende gravide. Si è scagliato su di me, mi ha colpita, insultata, e io
gli ho riso in faccia. Ho usato il potere della luce verde per fermare il suo
impeto, la luce verde negli occhi delle antiche donne Yol.
Per la legge di Anzol un uomo ha diritto di vita e di
morte sulle proprie mogli. Lui mi si è avvicinato con un coltello, deciso a
sgozzarmi. Ritta, come un tempo lo fu mia madre sulla soglia della nostra
dimora, l’ho fissato e la mia luce lo ha fermato; il coltello gli è caduto di
mano e per la prima volta l’uomo ha avuto paura di me. A notte fonda sono
fuggita.
Sento i cani avvicinarsi, avverto il loro ardore
sudato che cede all’istinto di raggiungere e sbranare la preda. Ma il magico
bosco di Selvòla non è lontano. Niente e nessuno fermerà una ragazza drusca.
Cristina
del Torchio
Andrea
Giostra