di Nicola Felice Pomponio - Fulgenzio Pomponio scese dalla nave “America” a Ellis Island
il 26 luglio 1921.
All’età di soli 22 anni aveva alle spalle esperienze
tutt’altro che simpatiche. Nato in uno sperduto paesino dell’Appennino
abruzzese era uno dei “ragazzi del ‘99” ovvero di quella leva straordinaria
arruolata nonostante la giovanissima età e spedita al fronte per arrestare
l’avanzata austriaca - anzi “austroungarica”, come diceva sempre lui - dopo Caporetto. Si trovò così catapultato
nella guerra di trincea a fare il portaordini sul monte Grappa e di questa esperienza avrebbe raccontato a me, suo
piccolo nipote, a distanza di più di mezzo secolo, episodi la cui crudeltà
ancor oggi mi fa rabbrividire. Anche a lui, come a tutti gli altri umili
fanti-contadini, fu promessa la terra dopo la vittoria, ma, a parte un ricco
medagliere di cui andava fierissimo (era Cavaliere di Vittorio Veneto), non
arrivò nient’altro e così, dopo essersi sposato, andò
a Napoli, trovò un lavoro sull’America,
si pagò il passaggio e sbarcò una prima volta negli USA.
Di lui sono rimaste tracce precise e dettagliate sui
moduli riempiti dagli addetti della dogana statunitense e, al riguardo, è da
sottolinearsi l’ammirevole lavoro svolto dalla Ellis Island Foundation che ha messo in rete le registrazioni dei
circa 12 milioni di migranti passati ad Ellis Island tra il 1892 e il 1954. Mio
nonno risulta con occhi e capelli marroni, alto circa m. 1,65, di professione
contadino, senza malattie né segni particolari, proveniente da Liscia - in provincia di Chieti, nel cosiddetto “alto vastese” -
di nazionalità italiana e, particolare di un certo interesse, alla voce “People
or Race” indicato come “Italian South”,
una definizione significativa dell’approccio americano. Ma di tutto ciò non so
cosa comprese quel
giovanotto che non sapeva nemmeno l’inglese; probabilmente il suo
obiettivo era quello di trovarsi al più presto con il cognato che lo aspettava
e che risiedeva al 147 di Mott Street, una via che allora era in piena Little
Italy e ora fa parte di Chinatown.
Posso solo immaginare la scena dell’incontro e la vita
trascorsa a New York ma senz’altro
doveva essergli piaciuta molto se tre anni dopo, il 30 marzo 1924 circa quattro
mesi prima che gli nascesse il secondo di sette figli, mio padre trovò un nuovo
passaggio, sempre pagatosi lavorando, a Ellis Island. Stavolta dal
transatlantico “Conte rosso” che avrà un tragico destino finendo affondato il
24 maggio 1941 dal siluro di un sommergibile inglese al largo di Siracusa e causando la morte di 1297
soldati diretti in Libia.
L’America,
comunque, rimase nel cuore di mio nonno. Imparò l’inglese e ammirò sempre i
paesi anglosassoni; a me, piccolo bambino che guardava affascinato quest’uomo
con tanta storia alle spalle, raccontava di un luogo dalle grandi
realizzazioni, edifici enormi, tantissime persone provenienti da tutto il
mondo, una lingua strana ma bella da parlare, con modi di dire assenti
nell’italiano e poi la libertà. Non solo le “grandi libertà” di stampa, parola,
espressione ma anche la tolleranza in cose che oggi ci fanno sorridere ma che
in minuscolo paesino, rinchiuso in se stesso, misero e arretrato era
impossibile avere. In America poteva, nelle feste, giocare a nascondino e a
mosca cieca e, come raccontava a mia cugina, era bello poter ridere e scherzare
nei giardini newyorkesi sbattendo anche contro gli alberi, come gli era
capitato.
Ma, come sempre, la vita dei “piccoli” è in balìa di
forze ben maggiori. Probabilmente avrebbe voluto trasferirsi negli USA, ma proprio gli USA da tempo
avevano assunto una politica restrittiva verso l’immigrazione italiana,
accusata di tener bassi i salari e con accenti anche razzisti (i “white negroes”); a ciò si aggiunse la
politica fascista che dal 1927 rese quasi impossibile l’emigrazione negli Stati Uniti, ma non risolse il problema
della mancanza di lavoro costringendo così le persone a continuare ad emigrare
ma verso il Sud America, mentre la
generazione successiva si orientò anche verso l’Australia e l’Europa.
Mio nonno dopo il 1924 non
tornò più a New York; gli rimasero tanti bei, affettuosi ricordi e la
conoscenza dell’inglese. Conoscenza che gli
venne utilissima quando, dopo una fugace esperienza di colono in Etiopia, che nelle fantasie
mussoliniane doveva costituire lo sbocco dell’emigrazione italiana, venne
militarizzato, si trovò di nuovo a combattere (stavolta contro gli inglesi, da
lui ammiratissimi) e venne fatto prigioniero nel 1941 a Cheren. A questo punto gli anni trascorsi a New York gli vennero in soccorso perché conoscendo l’inglese svolse
un ruolo di “collegamento” tra soldati inglesi e italiani nel campo di prigionia
in India dove venne internato fino
al 1946. Ma questa è un’altra storia.
Sono andato a Mott Street
non molto tempo fa. Una specie di
pellegrinaggio personale in quella via e in quella New York di cui, affascinato, sentivo parlare da lui. Non so se la casa
che ho visto è la casa in cui abitava - in un secolo cambiano molte cose - ma
quei finestroni ampi e rettangolari, quei fitti mattoni rossi, quelle scale di
emergenza poste in diagonale tra un piano e l’altro mi hanno dato la sensazione
di una storia e di un vissuto che mi appartengono perché, indirettamente,
attraverso sottilissimi fili, l’emigrazione di mio nonno, come quella di mio
padre in Germania o dei miei zii in Belgio e Svizzera ha contribuito a formare il mio carattere e quello dei
miei figli.
Tutto ciò mi fortifica, mi plasma, mi fa comprendere
meglio sia l’attuale, enorme migrazione di popoli verso il Nord del pianeta,
sia il destino personale mio e dei miei figli i quali, a loro volta, per
realizzare i propri progetti di vita si dirigono l’uno verso la Germania e l’altra verso gli…….USA; sono
passati cento anni e la storia si ripete, ma noi, gli “effimeri” (come
ci chiama Eschilo), traiamo valore e dignità anche, ma non solo, dal
nostro passato e dal passato delle collettività di cui facciamo parte.
Di mio nonno ho vivissimi ricorsi personali, ma
purtroppo nessuna fotografia; c’è però un’opera di un incisore svizzero che
ritrae un “Contadino abruzzese”.
L’autore, Giuseppe Haas Triverio,
era amico del grande artista olandese Maurits
Cornelius Escher e negli anni ’30 del Novecento percorsero insieme il Sud
Italia fermandosi a lungo in Abruzzo
(qui Escher incise una bellissima litografia di Castrovalva, paesino abbarbicato su uno sperone roccioso vicino ad Anversa degli Abruzzi in provincia
dell’Aquila).
Questo “Contadino
abruzzese” possiede tratti somatici incredibilmente simili a quelli di mio
nonno. Non per i folti baffoni e la barba, ma per le profonde trincee scavate
dal tempo sulla fronte, per l’austera magrezza del volto e del corpo, per gli
occhi vivaci e penetranti, per il largo cappello nero indossato. Un ritratto
che evoca una calma e serena consapevolezza di se stesso come quando, ormai
anziano e io con l’età che lui aveva sul Grappa, gli chiedevo come stava e,
invariabilmente, tra una partita di scopa e l’altra, sempre sorridente mi
rispondeva che aspettava la morte e leggeva il Vangelo.