di Luigi Fiammata - Si è svolto il 9 maggio scorso a L’Aquila, organizzato dalla Fondazione
Cassa di Risparmio, un Convegno commemorativo con le di Paolo Mieli, giornalista, dei professori universitari aquilani Fabrizio Marinelli e Fabrizio Politi, di Claudio Martelli, politico socialista
di primissimo piano. Ha concluso il Convegno il prof. Paolo Ridola, preside della Facoltà di Giurisprudenza della
Università “La Sapienza” di Roma. Mi permetto di svolgere qualche riflessione,
a margine di quel che ho ascoltato. E spero d’essere perdonato, se sarò lungo
nel racconto, ma la materia lo richiede.
Il Convegno è stato introdotto da Paolo Mieli. Il suo è stato un
intervento molto diretto, mirato a fissare alcuni punti fermi, a suo parere. In
primo luogo egli ha tenuto a dire che la vicenda di Aldo Moro è stata oggetto di cinque processi, spintisi ciascuno al
grado della Cassazione, e di quattro Commissioni Parlamentari d’Inchiesta. La
sua opinione, nonostante le risultanze della Commissione d’Inchiesta
parlamentare chiusasi con la scorsa legislatura che pongono numerosi
interrogativi aperti, è che la verità sul “caso Moro” si conosca tutta. E che
non ci siano oscure trame che non si siano volute scoprire. La verità, sostiene
Paolo Mieli, è che chi ha rapito e
ucciso Moro, aveva una matrice comunista e nasceva dentro le idee del ’68.
L’Italia, secondo Mieli, nel corso del sequestro Moro, si divise tra “fronte
della fermezza”, che negava ogni rapporto possibile con le Brigate Rosse, e un
fronte della “trattativa”, il quale sosteneva possibile che un gesto di
clemenza verso una brigatista detenuta senza fatti di sangue a suo carico, malata
e incinta, avrebbe consentito la liberazione di Aldo Moro.
Chi Moro più aveva contribuito a far
avvicinare, il Partito Comunista Italiano e la Democrazia Cristiana, furono
coloro, sostiene Mieli, che più furono inflessibili. E Mieli cita un passo
dalle lettere di Aldo Moro dalla sua
prigionia: “ricevo come premio dai comunisti, una condanna a morte”. Sostiene
Mieli, sia falsa la ricostruzione storica, secondo la quale Aldo Moro venne
rapito ed ucciso per la sua volontà di unione tra Democrazia Cristiana e
Partito Comunista; e, tranne coloro che sostennero la possibilità di una
trattativa (Socialisti, Radicali, Lotta Continua), in realtà, tutti volevano la
morte di Aldo Moro, poiché, come sosteneva lo scrittore Enzo Forcella, “sarebbe stato più semplice occuparsi di Moro da
morto, che non da sopravvissuto al rapimento e alla prigionia”. Un’intera
classe politica si era perduta allora, ritiene Paolo Mieli; i capi politici della DC, del PCI, del PRI, non furono
capaci di far politica, rendendo scoperta una debolezza di sistema, simile a
quella odierna.
Il contributo dei professori Marinelli e Politi si sono centrati sulla figura umana di Aldo Moro, sulla sua formazione politica, tesa alla realizzazione
di equilibri politici sempre più avanzati; sulla sua considerazione della
centralità del Parlamento, nell’ordinamento dello Stato, quale luogo della
rappresentanza politica, e quindi del dialogo tra ispirazioni politiche diverse.
Sugli interventi di Aldo Moro, nella fase della Costituente, per una Scuola
Pubblica al servizio di tutti. Sulla sua costante preoccupazione contro ogni
forma di autoritarismo, per questo congiunta ad una azione continua affinché
masse sempre maggiori di persone fossero integrate nello Stato, sfuggendo alle
seduzioni autoritarie; sulla sua centratura sui valori della Persona, della sua
libertà e della responsabilità. Sulla sua tensione ad aderire alla realtà,
interpretando con intelligenza gli avvenimenti, e confrontandosi sempre con
quanto emergeva nel Paese.
Claudio Martelli ha esordito, nel suo
intervento, dichiarandosi completamente d’accordo con le tesi espresse da Paolo Mieli, distanziandosi da ogni
ipotesi complottistica, anche relativamente alle stragi di mafia del ’92-’93.
Ci sono troppe verità, sostiene Claudio Martelli. Dovrebbero essere noti gli
esecutori materiali delle stragi, ma, mentre si ricercano presunti mandanti
oscuri e presunte trattative Stato-mafia, in realtà, neanche gli esecutori sono
noti, visto che la Magistratura si è lasciata ingannare, in particolare nel
caso dell’assassinio del giudice Borsellino e della sua scorta, visto che per
quella strage sono state condannate persone, autoaccusatesi, che invece non
erano colpevoli. Forse, ritiene Martelli, non è stato del tutto chiarito, nel
caso Moro, quali furono le interferenze esterne all’Italia, ed interne, sulla
vicenda, capaci di inquinare o sabotare le indagini, in particolare da parte
della Loggia massonica P2. Ma non debbono dimenticarsi le verità acclarate e,
in particolare, come mai proprio nel caso di Aldo Moro si scelse di non
effettuare alcuna trattativa, quando invece, soprattutto successivamente a
quell’episodio, si è trattato sempre, anche con forze del terrorismo islamista,
per semplici persone o giornalisti; per ogni ostaggio, compreso Ciro Cirillo,
per il quale ci si rivolse addirittura alla camorra, perché ne mediasse con le
Brigate Rosse, la liberazione.
Si disse, all’epoca, che la trattativa
era resa impossibile anche da vincoli di alleanza esterni all’Italia; ma,
secondo Claudio Martelli, questo è
solo indice di un comportamento costante della politica italiana, quando vuole
scaricare le proprie responsabilità. Come avviene con l’Europa oggi, e non si
comprende, per quali motivi i cittadini tedeschi dovrebbero accollarsi il
Debito Pubblico italiano, cui invece dovrebbe essere nostra responsabilità far
fronte. La volontà a non trattare la liberazione dell’ostaggio Moro, fu, per
Claudio Martelli, l’atto iniziale dell’antipolitica oggi trionfante.
Considerare la politica, contemporaneamente, come massima responsabile della
situazione ed inetta a porvi rimedio, è la premessa per avviare una nuova forma
della politica, una forma autoritaria. Non più capace di mescolare, élites e
popolo. Da quel momento storico, ricorda Martelli, tutta l’area dell’Autonomia
Operaia e dei gruppuscoli extraparlamentari, venne assimilata al terrorismo.
Non era Moro, ricostruisce Martelli, a volere il cosiddetto “Compromesso Storico”,
con il PCI; era questa invece una strategia del solo Enrico Berlinguer. Era l’inizio, allora, di una crisi di sistema.
Che oggi dispiega pienamente i suoi effetti. E cui non pare esservi argine.
Il professor Ridola ha concluso il Convegno puntando i riflettori sull’apporto
essenziale di Aldo Moro nella
scrittura della Costituzione della
Repubblica Italiana, in particolare sull’articolazione generale del testo e
sull’Articolo 2. E sui costanti assilli, nel suo lavoro politico ed
intellettuale: l’insistenza sull’uomo e sulla persona; sulla funzione sociale
dello Stato, e addirittura, sulla funzione sociale dei Diritti.
Immagino, ora, di poter esprimere, a
margine del Convegno del 9 maggio scorso, sommessamente qualche mia
considerazione.
A quaranta anni di distanza dalla
tragica fine della vicenda umana e politica di Aldo Moro, credo possa dirsi, con tutta franchezza, che essa resta
totalmente aperta. Nella sua analisi storica. Nel giudizio politico su quella
temperie. E, per certi versi, persino nel suo concreto svolgersi criminale,
come adombra in modo assai inquietante, la Relazione conclusiva della
Commissione d’Inchiesta Parlamentare della scorsa Legislatura. D’altra parte,
anche Ferdinando Sacco e Bartolomeo Vanzetti sono stati
processati, riconosciuti colpevoli e assassinati sulla sedia elettrica senza
che con questo si possa dire che la verità processuale corrisponda con quella
storica. La morte di Aldo Moro, può essere letta in una chiave odierna, come
hanno fatto Martelli e Mieli, per regolare vecchi conti politici
del passato; tra socialisti e comunisti italiani, e tra PCI e aree
extraparlamentari, spesso governate da giovani d’estrazione borghese, per i
quali il PCI era il primo nemico da abbattere. Non mi sento in grado, in questa
sede, di affrontare una discussione sulla questione fondamentale della
necessità di una Trattativa, per la liberazione dell’ostaggio Aldo Moro, o sul
rifiuto di essa, in nome della responsabilità a non fornire alcuna legittimazione
politica alle Brigate Rosse, non avallando l’idea che in Italia fosse in corso
una Guerra Civile, in cui i contendenti avessero pari dignità. Voglio limitarmi
a guardare alcune delle conseguenze reali, di quegli accadimenti.
La vicenda di Aldo Moro spiega,
secondo Claudio Martelli e Paolo Mieli, ma anche secondo Rino Formica che lo sostiene in un’intervista
a “L’Espresso”, sia pure non nei termini ascoltati nel Convegno, il trionfo
odierno di forze politiche populiste, la cui origine, è tutta da ricercarsi nel
rifiuto ad assumere una responsabilità politica, trattando per liberare
l’ostaggio, da parte del Partito Comunista Italiano, in modo particolare, nel
cui grembo, erano pure germogliate le Brigate Rosse. La storia degli ultimi
quaranta anni, diviene quindi la storia di un fallimento. Quello della ipotesi
di condurre al governo del Paese le sue classi subordinate, tradite da gruppi
dirigenti, prima incapaci di rispondere politicamente alla sfida lanciata dalle
Brigate Rosse, e poi travolti dall’emergere della semplificazione populista di
fronte alla crisi globale, ai fenomeni migratori, alle nuove sfide del
progresso tecnologico.
E’ una lettura molto partigiana,
quella proposta. E senza contraddittorio. Esattamente come accade nel pieno di
una battaglia per l’egemonia culturale. In cui chi si senta vincitore, dentro
un percorso storico, riscrive i passaggi fondamentali che conducono all’oggi,
ad uso e consumo della propria visione del mondo. Perché producano nuovi e
coerenti effetti. Aiutata la lettura, in questo caso, anche dall’assordante
mutismo di chi potrebbe produrre un’altra visione dei fatti, anche alla luce
della propria concreta esperienza storica ed ideale. Ma, nel campo occupato una
volta dal Partito Comunista Italiano, e da autorevolissime figure
intellettuali, oggi non vi è più nessuno. E non parlo tanto di ideologia o di
schieramento. Quanto proprio di presenza politica, di ispirazione ideale e
morale. Neppure su un piano culturale, salvo pochissime eccezioni, vi è più
qualcuno che abbia la tempra per aprire seri dibattiti storici o sull’attualità,
all’altezza della sfida che taluni relatori del Convegno, nel deserto, hanno
posto. Un po’ perché quell’esperienza storica non è stata davvero in grado di
rileggere se stessa, alla luce degli accadimenti dopo il 1989, e un po’ perché
chi si è voluto autonominare erede di quelle esperienze, non ne aveva né lo
spessore intellettuale e morale, e, col tempo, ne ha perduto anche ogni
credibilità politica.
Io frequentavo la terza media, nel
1978. I ragazzini di tredici e quattordici anni, allora, parlavano abitualmente
di politica. Ne avevano esperienza diretta, persino nella periferica Lecce, dove allora vivevo. Mi colpì
moltissimo, il giorno dopo il rapimento di Aldo
Moro, leggere, sul muro di un palazzo posto dinanzi all’ingresso principale
della mia scuola, una grande scritta realizzata con la vernice nera: “Moro:
chi semina vento, raccoglie tempesta”. Era firmata “Fronte della
Gioventù”, l’organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano, di chiara
e non rinnegata ispirazione fascista, all’epoca. Lecce esprimeva a quel tempo percentuali di voto per il MSI ben
oltre il 10% e Almirante, Segretario del MSI, spesso figurava come Capolista
nelle elezioni. Quella scritta, non era casuale. Mi colpì perché, nella mia
logica elementare, non riuscivo a comprendere come mai un’organizzazione di
Destra attaccasse un politico, oggetto di un atto criminale compiuto da estrema
Sinistra. Avrebbe dovuto, sempre secondo la mia logica elementare, invece attaccare
la Sinistra, per quel che stava accadendo. Non la vittima di quegli
accadimenti.
Nel 1964, quando Moro, per la prima volta Presidente del Consiglio dei Ministri, per
la prima volta nella storia della Repubblica italiana iniziò, esplicitamente,
un percorso di coinvolgimento del Partito Socialista Italiano nel governo del
Paese, il cosiddetto Centrosinistra, ambienti militari fascisti e reazionari,
forse addirittura con il coinvolgimento del Presidente della Repubblica Segni,
contrario a quell’ipotesi politica, ordirono il cosiddetto “Piano Solo”, che
prevedeva di instaurare un regime autoritario nel nostro Paese, partendo
innanzitutto dal rapimento, e internamento, di una serie di personalità
politiche, sindacali e della società civile. E’ lunga la storia
dell’avversione, anche criminale ed illegale, della Destra del nostro Paese
all’ingresso della Sinistra nelle stanze del Governo. Ed è lungo il conto che
la Destra voleva presentare ad Aldo Moro.
Il rapimento di Moro, nei fatti se
non anche nelle intenzioni, colpiva una politica. E questa politica era segnata
dall’ansia di tenere dentro i confini della democrazia le varie ispirazioni
ideali del Paese, che avevano contribuito a scrivere la Costituzione della
Repubblica. Quell’ansia si legava all’ansia del Segretario del Partito
Comunista Italiano, che, all’indomani del sanguinoso Golpe militare realizzato
in Cile da Pinochet, nel 1973, aprì
una profonda riflessione teorica sulla necessità del dialogo tra le principali
correnti ideali della politica italiana, quella d’ispirazione cattolica e
quella d’ispirazione comunista, convinto che quella fosse la strada per rendere
compiuta la democrazia, in un Paese che non poteva, e forse non doveva, essere
governato solo col 51% dei voti. Questioni teoriche, e politiche, di altissimo
spessore, trascinate poi nella quotidianità della lotta politica e della
banalizzazione esorcizzante, in vuote formulette di alleanze e conflitti
elettorali, più o meno possibili o impossibili. Perché quei politici, Moro e Berlinguer, forse senza essere capaci di esplicitarlo
compiutamente, erano consapevoli della fragilità storica dello Stato italiano.
E loro era l’ansia di agire contro questa condizione. Non è l’Italia, ad essere fragile, la sua
identità nazionale o culturale. Ma la sua costruzione statuale. Esposta.
Allora, come oggi.
Non è un caso, io credo, che ad
essere uccisi, dalla criminalità organizzata, o dal terrorismo, siano stati, nel
tempo, prevalentemente “Uomini di Stato”. Uomini cioè che hanno posto sé stessi
e la propria opera, a servizio della Costituzione e delle Leggi. Perché è
interesse di ben delineati poteri che lo Stato sia fragile, governato da uomini
ricattabili. E io credo si possa dire, ad onore dei fatti, ma con grande
dolore, che la violenza politica, in Italia, ha preso la mira benissimo, ed ha
ottenuto i risultati che si prefiggeva. La morte di Aldo Moro ha cancellato definitivamente, dall’agenda politica
italiana, la possibilità che vi fosse una azione politica qualsivoglia capace
di condurre il PCI, libero finalmente dalle proprie ambiguità, dentro il possibile
governo del Paese. Chi liquidi questa questione, esprimendo facili ed
affrettati giudizi ex post, o riconfermando antichi livori, in realtà elude una
questione di fondo, questa sì, all’origine delle soluzioni semplificatrici e
pericolosamente autoritarie e populiste dell’oggi. La questione cioè se sia
possibile, in Italia, che la politica svolga anche una funzione pedagogica,
capace di educare alla Democrazia, al libero e consapevole e pacifico confronto
e conflitto, tutti i cittadini, e non solo una parte di essi, lasciando magari
indietro le aree più emarginate e deboli. Conferendo, attraverso la
partecipazione democratica, pari dignità alle diverse prospettive di governo. A
tutte le prospettive, anche quelle che si propongono di rimettere in discussione
storici equilibri di potere.
A me pare che gli interventi
“politici” al Convegno, abbiano invece delineato, sia pure per cenni e rimandi,
una prospettiva che derubrichi l’esperienza politica di Moro, ma anche e
soprattutto del PCI, ad un tentativo episodico, e sin dalla sua nascita
fallimentare, di redimere le classi subalterne del Paese conducendole alla
dignità del Governo. Tali classi subalterne, oggi affascinate dalla
semplificazione offerta loro dalle piattaforme informatiche, su cui esprimere pareri
superficiali ed insultanti su tutto, che veicolano i contenuti di una proposta
politica populista, saranno inevitabilmente ricondotte a ragione, dalle Leggi
bronzee del Mercato, che le obbligherà a pagare il prezzo dei vecchi errori di
chi ha allargato le possibilità materiali, migliorato le condizioni concrete,
fatto balenare l’aspirazione ad una vita ricca di possibilità e diritti. Certo,
le contraddizioni del peculiare “Stato Sociale” italiano sono enormi e
andrebbero aggredite, in nome di una più stringente idea di Eguaglianza e di
Giustizia Sociale, oltre che di un fondamentale rigore nei bilanci. Ma quel che
viene adombrata è la caduta rovinosa e, finalmente, il governo di quelli che
sapranno stare nel modo giusto dentro un mondo di capitali globalizzati ed essi
sì, liberi.
Infine. La morte di Aldo Moro, segna in realtà, a me pare,
l’inizio di un ulteriore processo cui non sono estranee responsabilità
individuali e politiche pesantissime. Anche di quella politica che si richiama,
e si richiamava, ad ideali di Sinistra. Segna l’inizio della fine della
partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese, attraverso i corpi
intermedi della Società, Partiti e Sindacati in primo luogo. Cui non si
riconosce più un ruolo di promozione individuale e collettiva. Si tratta di un
processo che si dispiegherà innanzi tutto, a partire dal forsennato attacco del
neoliberismo globale alla mediazione sociale: l’uomo, e la donna, devono essere
soli dinanzi al Mercato. E che, in Italia, conoscerà gli accenti durissimi di
una folle idea giustizialista che accomuna nella esecrazione morale il semplice
iscritto ad un Partito ad un suo dirigente, magari corrotto o colluso, fino a
cancellare l’idea stessa della forma-Partito dal diritto di cittadinanza
politico. Quella idea di Partito che i Costituenti, tra cui Aldo Moro, avevano
posto invece alla base della possibilità di emancipazione delle classi
subalterne del Paese, attraverso la partecipazione alla vita democratica.
Quanto al Sindacato, la compagine che
si appresta a guidare il Paese si incaricherà di delinearne l’espulsione finale
e definitiva dall’orizzonte degli italiani. Dopo i colpi pesantissimi ricevuti
dai precedenti governi d’ogni colore politico. Del resto, è da sempre “vox
populi” che la colpa sia sempre e tutta del Sindacato, che stavolta non troverà
nessuno a difenderlo. Mi fanno rabbia, quei dirigenti sindacali (minuscolo),
che pensano si possa ancora discutere che ancora vi siano spazi politici, che
ancora si affannano in congressi totalmente autoreferenziali, avendo purgato da
sé ogni contraddizione della realtà, ignorando il dolore vero della precarietà
generalizzata, la periferizzazione coatta della vita nelle città. La solitudine
delle persone, di fronte ad immense contraddizioni e problemi reali. Gli
immensi potenziali conflitti, anche violenti, tra chi si sente sommerso e chi,
erroneamente, pensa d’essersi salvato.
Insomma, una volta archiviata la
ricca esperienza storica, ed ideale, delle correnti di ispirazione cattolica e
comunista italiana, nel nostro Paese, sarà finalmente possibile rivedere la
Costituzione della Repubblica Italiana in modo da sancire, anche formalmente,
la preminenza del comando sulla Partecipazione. E sarà finalmente possibile
dare il potere che spetta loro, a quelli che da tempo sono i sacerdoti del
Libero Mercato finanziario globalizzato. E le classi dirigenti italiane, quelle
vere, quelle che governano la vita delle città da sempre, potranno finalmente
dire che “tutto deve cambiare, perché tutto resti come prima”. Ma davvero,
però.