La fucina e il crogiuolo dei fatti che stiamo raccontando fu solo in Roma, a quell’epoca,1700/1800, sempre e ancora una quinta teatrale irripetibile e unica al mondo: in nessuna parte della terra si gustava e viveva quanto era alla portata di tutti a Roma o a Napoli specialmente: quelle vestigia, quelle chiese e palazzi e ville inimmaginabili, quelle quasi quotidiane grandiose e pompose celebrazioni religiose, quell’arte in giro dovunque e poi quegli odori, quella luce, quella natura, quell’atmosfera….
I visitatori entravano in deliquio, molti rinnegavano patria e famiglie per restare: era la sindrome di Stendhal, permanente e generalizzata! Quanti di questi artisti o letterati scrivevano ai loro cari, da Napoli o da Roma, “ora sto vivendo veramente, ora finalmente conosco che cosa è vivere!” Quando mai e dove si rinvenivano le condizioni per esprimere tali sconvolgenti concetti!R.A.HILLINGFORD, Famiglia ciociara |
E quindi a poco a poco tra la umanità ciociara immigrata a Roma e gli artisti specie francesi iniziò e si instaurò un rapporto e una intesa che durarono almeno centocinquantanni e in tale frangente il costume ciociaro si evolve e acquisisce la sua conformazione ben nota, tipica e unica. Voglio dire, più semplicemente, che il costume ciociaro, quale si conosce attraverso la ricchissima produzione pittorica setteottocentesca, acquista la sua fisionomia e le sue particolarità -che sono quelle illustrate nelle opere pittoriche- solo e unicamente a seguito del lungo e fruttuoso rapporto con gli artisti stranieri nella Città Eterna. È in questa relazione durata almeno un secolo e mezzo -che tra l’altro per non pochi poveri ciociari rappresentò anche una comoda fonte di sostentamento- che il COSTUME CIOCIARO -nonché le calzature, che ora chiamiamo ‘CIOCE’ - acquisisce quell’aspetto di armonia e di eleganza, di semplicità, perfino di spartanità tali da indurre qualche raro studioso che se ne è occupato, Gregorovius per primo, Amy A. Bernardy più tardi, a definirlo perfino ‘classico’ e tale da essere divenuto, come detto, anche il costume di Roma e il costume d’Italia. In effetti tanti artisti identificavano le donne ciociare da loro ritratte come ‘Italiana’.
E naturalmente le opere dagli artisti viaggiavano in tutta Europa sia presso le destinazioni dei privati compratori sia presso le mostre e i saloni che avevano luogo in ogni città, Parigi e Monaco di Baviera soprattutto: fu una vera invasione di questi soggetti mai apparsi prima di allora, rivoluzionari: cito a caso, di tali innovatori: oltre al pioniere L.L.Robert, anche i fratelli Lehmann, Michallon, Schnetz, Navez, Vernet: invero, quando mai si era visto un brigante in queste fogge? Quando mai un costume così scintillante di colori? E quando mai, anzitutto, assurti agli onori della pittura, tali e tante umili creature in così grande copia? Era l’epoca degli eroi greci, delle deesse, degli dei, di Apollo, di Venere, di Diana cacciatrice, dei santi e delle madonne ….e perciò a certi occhi tali nuovi soggetti suonavano quali degli anacronismi a dir poco, delle vere eresie. E invero fu una vera e propria rivoluzione artistica che gradualmente doveva segnare la fine, come costatò e insegnò Stefano Susinno, e la dissoluzione, prendendone il posto, della cosiddetta scuola classica e accademica.
E in effetti, siamo nelle prime decadi del 1800, da questa pittura ciociara che stiamo descrivendo, nacque nelle parole degli artisti belgi in particolare, la “pittura di genere all’italiana” cioè un nuovo genere pittorico fu offerto alla disponibilità della Storia dell’Arte Occidentale, un nuovo capitolo aperto. Ben altre erano le sensazioni e suggestioni anche di Baudelaire, sì il grande poeta, che negli anni ’40 dell’Ottocento era il critico ufficiale dei Salon parigini che al cospetto di quella sempre più copiosa presenza di soggetti ciociari appesi sulle pareti quali contadini e contadine, perfino -il colmo!- di briganti e di brigantesse, giustamente secondo lui perfino sovversivi perché in assoluta antitesi ai parametri consolidati fino allora all’insegna della accademia e della tradizione, anni luce distanti, sbottò apertamente: “basta con questi soggetti!” Ma non ebbe successo in quanto quella produzione così da lui vituperata non fece che accrescersi anno dopo anno fino alla fine del secolo.
E quindi per tutto il secolo e fino alle prime decadi del Novecento fu essenzialmente un inno all’umile creatura in costume ciociaro: ora la gamma delle presenze a Roma si era ampliata in quanto arricchita dalle decine di bei fiori sbocciati nei paesi arroccati sui Monti Simbruini: Anticoli Corrado, Cervara, Saracinesco e anche di quelli provenienti da altre città della Ciociaria e dalla contigua Sabina. Va notato che gli abiti indossati ormai non sono più “gli stracci” scintillanti e variopinti dei decenni passati: le stoffe si acquistano ormai dal merciaio, già colorate e pronte coi nuovi colori all’anilina, i bei corsetti ormai tutti uguali e così rigidi da sembrare delle corazze, a differenza di quelli, quando usati, fatti originariamente con stecche di legno. Ma il successo delle donne e uomini nei loro costumi ciociari non diminuiva, incentivato anzi in quegli anni a cavallo di due secoli, dall’apparizione dei tanti artisti propriamente romani, dagli studi fotografici, dalle agenzie di pubblicità, dalla nascita delle cartoline postali, dalla moda incipiente…
Michele Santulli
Copertina: L. Brocard, Brigante e brigantessa