Libri, TRILOGIA DELLA DECRESCITA SOSTENIBILE di Serge Latouche. La recensione di Fattitaliani

Serge Latouche, TRILOGIA DELLA DECRESCITA SOSTENIBILE: "La Scommessa della Decrescita" (2007); “Limite” (2012); “Usa e getta. Le follie dell'obsolescenza programmata” (2013). Recensione di Andrea Giostra.

PROLOGO
Oggi sul magazine online di Tiscali leggo un’interessante intervista a Serge Latouche che tra le altre cose dice: «Usano la paura per tenerci sotto controllo. Ma possiamo reagire alla crisi e vivere meglio»; poi continua: «… una crescita infinita, illimitata, è impossibile … Danneggia gravemente il pianeta in cui viviamo, e le conseguenze le vediamo tutti. Riconcettualizzare significa uscire dal modello capitalista globalizzato, governato da multinazionali e finanza speculativa, e capire che possiamo stare meglio tutti. Ma in modo diverso da come ci viene predicato ora.»; e ancora: «Siamo stati manipolati a credere in questa economia. Ora dobbiamo cominciare a prendere in mano il nostro destino … 
L'illusione del progresso ci ha dato la società dei consumi. Hanno promesso al contadino che scavava con le mani e all'allevatore che mungeva una mucca per volta di emanciparsi da tutto questo. Avrai tutto, sarai più comodo. Da un certo punto di vista è stato così, ma questo modello secondo cui produrre e consumare è un fenomeno che non debba avere limiti ci ha messo a bordo di una macchina lanciata a tutta velocità contro un muro. Ora vediamo questi limiti e bisogna cambiare strada … La paura è creata dai media, pensiamo alla paura del fallimento, del cosiddetto default. Ma il default esiste da sempre, si chiamava bancarotta. Oggi fa paura. Ma tutti i nostri re, i nostri governanti, hanno fatto bancarotta. Carlo V lo fece due volte, lo sanno bene i banchieri genovesi. Era necessario per rimettere a posto i conti dello Stato, oggi è vietato. Oggi creare la paura dell'altro è la più grande riuscita del sistema capitalistico. Così hanno creato la guerra tra i poveri. Prima si combatteva tra classi sociali diverse. Ora, come dice il miliardario americano Warren Buffet: "La mia classe ha vinto". I poveri si massacrano tra loro, e i ricchi stanno tranquilli.»

PREMESSA
Serge Latouche è un Grandissimo economista francese di fama mondiale. È filosofo, è antropologo, è persona di grandissima intelligenza e di straordinaria cultura. I suoi “colleghi-nemici-economisti”, lo definiscono il più acerrimo nemico dell’”economia della crescita”: ed hanno ragione, anche se la loro definizione ha un’accezione sprezzante e squalificante, e spesso ha l’intento – non tanto velato! - di influenzare la gente comune, la gente che vive tranquillamente (possiamo dirlo oggi?) la sua vita quotidiana. Lo scopo dei suoi nemici giurati è quello di condizionare la gente comune che Latouche capisce poco o nulla di economia, che Latouche capisce poco o nulla di grandi sistemi economici, che Latouche capisce poco o nulla di economia globale, che Latouche capisce poco o nulla di multinazionali che basano il moltiplicarsi della loro ricchezza sulla crescita infinita, illimitata, incontrollata e incontrollabile.
L’ approccio “economico-filosofico” di Latouche si ispira alle concezioni dell'antropologo, scienziato e studioso francese Marcel Mauss (1872-1950) e dello storico, filosofo, studioso di idiomi, pedagogista austriaco Ivan Illich (1926-2002) - suoi grandissimi maestri di vita e di cultura - e si pone quale obiettivo principale e prioritario la “liberazione” del popolo occidentale dalla sottomissione e dalla “tossico-dipendenza-patologica” dall'economia basata esclusivamente sulla produzione, sulla vendita, sull'acquisto, sul consumo maniacale, costante e irreversibile. In sostanza, è come se Latouche, con il suo modello teorico destrutturante del sistema economico dominante, ci dicesse: «non siamo mica dei “tubi digerenti”, come i lombrichi, che devono consumare, consumare e consumare all'infinito per “essere felici”!» Serge Latouche è professore emerito di scienze economiche all'Università di Paris-Sud; grande esperto di rapporti economico-culturali Nord-Sud del Mondo; raffinato epistemologo delle scienze socio-economiche.
L’intervista di oggi (04 luglio 2017) di Tiscali, rende omaggio ad uno dei più grandi e inascoltati economisti e scienziati viventi. Oggi Latouche ha 77 anni, è nato il 12 gennaio 1940, e non ha più tanta voglia di lottare per le sue “battaglie perse in partenza!” Il mondo è quello che è, e va avanti incurante dell’Uomo e dei suoi bisogni reali, presunti o indotti. L’unico modello adattivo che funziona veramente, è quello darwiniano, ovvero, se vogliamo essere più precisi da un punto di vista scientifico e della letteratura ufficiale di questa scienza, il modello definito “darwinismo sociale”, ossia, quel modello scientifico-sociale, nato in Gran Bretagna alla fine del XIX Secolo con Herbert Spencer (1820-1903), che parte dal presupposto che la cosa più importante nella vita sociale quotidiana è “struggle for life and death” (“lottare per la vita e la morte”), concepita come regola fondamentale della comunità degli esseri umani! In fondo, non possiamo certo negarlo noi, è la prima legge di Madre Natura, è “la prima legge di Charles Darwin”, che nel terzo capitolo del famosissimo saggio antropologico-scientifico, “L’origine della specie” (1859), scrisse: «Questo principio, per il quale ogni lieve variazione, se utile, si mantiene, è stato da me denominato “selezione naturale” …. Ma l'espressione “sopravvivenza del più adatto”, spesso usata da Herbert Spencer, è più idonea, e talvolta ugualmente conveniente». Per rincarare la dose, è qui sembrerebbe che Spencer abbia subito una inconsapevole influenza culturale dal nostro Niccolò Machiavelli (1469-1527), egli scrisse: «Può sembrare inclemente che un lavoratore reso inabile dalla malattia alla competizione con i suoi simili, debba sopportare il peso delle privazioni. Può sembrare inclemente che una vedova o un orfano debbano essere lasciati alla lotta per la sopravvivenza … “struggle for life and death” … Ciò nonostante, quando siano viste non separatamente, ma in connessione con gli interessi dell'umanità universale, queste fatalità sono piene della più alta beneficenza … a stessa beneficenza che porta precocemente alla tomba i bambini di genitori malati, che sceglie i poveri di spirito, gli intemperanti e i debilitati come vittime di un'epidemia». Oggi Latouche si è arreso e vive la sua vita alla “ricerca della sua felicità terrena” consapevole che «È ormai riconosciuto che il perseguimento indefinito della crescita è incompatibile con un pianeta finito. Se non vi sarà un’inversione di rotta, ci attende una catastrofe ecologica e umana. Siamo ancora in tempo per immaginare, serenamente, un sistema basata su un’altra logica?» (La Repubblica, 24 luglio 2016, p. 38). Latouche, che vive molto del suo tempo in Italia, un Paese che ama moltissimo, ha da sempre praticato il “tecno-digiuno” teorizzato dal suo Maestro Ivan Illich: usare il meno possibile la tecnologia, e farlo solo quando è indispensabile o fortemente necessario. Ma Latouche sa bene che «Benché faccia tutte queste rinunce rispetto allo stile di vita moderno, non sono da compatire. Invertire la corsa ai consumi è la cosa più allegra che ci sia. La mia unica regola è la gioia di vivere. È possibile immaginare una società ecologica felice, dove ognuno di noi riesce a porsi dei limiti, senza soffrirne perché non si sono create delle dipendenze» (ibidem).

INTRODUZIONE ALLE RECENSIONI
Il 27 luglio 2015 mi sono imbattuto in un post del responsabile economico nazionale del partito democratico, che mi ha fatto capire come la cultura economica dominante sia quella che viene generata e si auto-rigenera dal capitalismo più cinico ed estremo: pochissimi miliardari, tantissimi “morti di fame”. I “morti di fame” sono gli schiavi del XXI secolo: coloro che per vivere devono lavorare, e se non lavorano non hanno i soldi neanche per fare la spesa per mangiare o per tenersi la casa dove vivere e dormire la notte! Un partito come il PD, di fatto, dovrebbe impostare una “politica economica solidale”, basata principalmente e fondamentalmente sulla distribuzione della ricchezza che ogni singolo miliardario produce, che ogni singolo imprenditore produce, che ogni singolo Paese produce, non lasciando morire di fame e di disperazione gli “ultimi”, come vengono da loro chiamati, o coloro che con la crisi economica mondiale degli ultimi anni sono divenuti tali: “i poveri e indigenti del XXI secolo”. Questo signore, Filippo Taddei, che dalla foto sembrerebbe non superare i quarant'anni, è convinto di un approccio economico fortemente capitalista. Probabilmente, non rendendosene conto, in quanto è chiaro da quello che scrive che culturalmente è deprivato di molti strumenti delle scienze economiche più evolute ed al contempo, forse, non riesce intellettivamente a fare una lettura attendibile e reale dei fenomeni economico-sociali del nostro tempo. Porsi l’obiettivo ideologico prioritario di “modificare la mentalità del popolo” che oggi vive del proprio lavoro e non di possedimenti o di ricchezze familiari, come i ricchi e i ricchissimi, è un atto di vero e proprio despotismo che solo i peggiori, i più spietati, i più feroci regimi dittatoriali della storia dell'Uomo hanno utilizzato e messo in atto nel passato. Questo per dire che: «Ma cu c’u misi unn’è?», mi verrebbe da chiedere in dialetto siculo, perché da noi in Sicilia si dice che: «A lavari a testa a lu sceccu si perdi acqua, sapuni e tempu.» Con molta nonchalance e con altrettanta chiarezza viene affermato: «L’intero mercato è destinato a cambiare e con esso anche la mentalità dei lavoratori italiani. Dobbiamo abituare la gente che l'istruzione sarà molto più lunga e costosa, le assunzioni a tempo indeterminato molte di meno, i tempi di lavoro più lunghi, i pensionamenti verranno posticipati. Le riforme non hanno solo un fine economico, ma anche e soprattutto sociale perché servono a modificare la mentalità lavorativa degli italiani.» Tradotto in parole più comprensibili vuol dire: “Rendere il popolo schiavo del lavoro ma in modo nuovo ed innovativo!” Idea brillante! Da candidatura al premio Nobel per l’Economia! Le riforme, sottolinea sempre lo stesso autore, devono modificare soprattutto e principalmente il pensiero dei lavoratori, del popolo, e non solo le norme e le leggi che si andranno a rendere più moderne. Spero che il mio lettore abbia chiaro questo punto che viene chiarito con molta: modificare il pensiero del popolo! Un atto di totale ed assoluta prepotenza che richiama fortemente e chiaramente un genio della comunicazione del terzo Terzo Reich, Joseph Paul Goebbels, che ideò delle tecniche di propaganda così efficaci e così dirompenti da portare Adolf Hitler al potere in Germania e ad inventarsi il motto«Ripetete una cosa qualsiasi cento, mille, un milione di volte e diventerà verità.»
È d’obbligo a questo punto suggerire ai lettori, e soprattutto a chi fa politica di professione o ha l'ardire e la pretesa di farla nell’esclusivo interesse del popolo che lo ha eletto (?), alcuni dei tanti saggi scritti da Latouche. In questo breve articolo ne ho scelti tre che con temeraria licenza letteraria ho chiamato “TRILOGIA DELLA DECRESCITA”. Leggendo questi tre saggi, certamente la prospettiva di vita apparirà nuova e diversa, più interessante e più consona col nostro pianeta e con madre natura. Aprirà la mente del lettore come si apre un melograno maturo, e farà capire tantissime cose che altrimenti resterebbero oscure e non consentirebbero di dare immediatamente del colluso con i poteri forti e con le potenti lobby multinazionali dell’economia.

Recensione 1/3
Serge Latouche, "La Scommessa della Decrescita", Feltrinelli, Milano, 2007.
Questo è uno dei saggi più belli e più importanti di Serge Latouche, nel quale, con un linguaggio semplice e facilmente accessibile anche a chi di mestiere non fa l'economista, spiega con tantissimi esempi e con tantissime metafore, cosa intende per “Decrescita sostenibile”. È solo attraverso la società della decrescita che l'occidente può cambiare le sue sorti. Serge Latouche è stato il primo economista - già dagli anni settanta - che ha teorizzato questo approccio culturale ed economico che ridà all'economia moderna una dimensione sostanziale: intesa come attività in grado di fornire i mezzi materiali per il soddisfacimento dei bisogni primari e secondari delle persone, e non come crescita infinita in un mondo per definizione finito. È un saggio che mi permetto di consigliare ai buoni lettori; agli imprenditori; ai politici di professione; ai politici appassionati; ovvero, a coloro che hanno la sana ambizione di fare politica attiva vera ed efficace, per dare risposte concrete ed efficienti al nostro Paese oggi in estrema agonia economico-finanziaria, malgrado il balletto e la sonata del quintetto d'archi sul ponte di comando del Titanic, ancora a galla ma prossimo all'imprevedibile inabissamento.

Recensione 2/3
Serge Latouche, "Limite", Ed. Bollati Boringhieri, Torino, 2012.
Questa Recensione la scrivo riportando fedelmente alcune citazioni, in una successione che segue la mia bizzarra logica, ma che certamente darà al lettore il senso del bellissimo saggio di Serge Latouche. Lo faccio perché commentare, anche se attraverso una Recensione, un saggio così importante, scritto benissimo, da leggere con voracità culturale ed intellettuale, correrebbe il rischio di incuriosire molto meno il potenziale lettore di Latouche. In fondo le mie Recensioni hanno sempre avuto un solo ed unico obiettivo: “costringere” il mio lettore a leggere il libro che recensisco, perché travolto dalla curiosità di conoscere cosa ha scritto per esteso e nella sua totalità quel particolare autore. 
Per ritornare a “Limite”, ecco le citazioni che ho scelto e che certamente il lettore curioso intellettualmente e affamato di sapere, che le leggerà con attenzione, non potrà fare più a meno di comprare questi tre libri e leggerli tutti d'un fiato.
Latouche inizia il suo saggio con una citazione di Augustin Berque (1942), tratta da “Les Limites de l'écouméne”, capitolo tratto dal libro scritto a più mani “De la limite” (2006): «Ma come diceva Boileau: “Cacciate il naturale, tornerà al galoppo”, cacciate i limiti fisici, torneranno al galoppo. Cacciate l'idea che ci sono dei limiti alla biosfera significa distruggere la biosfera, e in un futuro non lontano distruggere la specie umana. I limiti della biosfera, non dobbiamo dimenticarlo, ci conviene non dimenticare che gli esseri umani hanno i piedi sulla Terra, nella sostanza terrestre, anche se hanno la testa rivolta verso il cielo.» (pag. 11). «La condizione umane è inscritta dentro dei limiti. Alcuni riguardano la nostra situazione nel mondo, altri inerenti alla nostra natura. Siamo prigionieri di un piccolo pianeta la cui situazione eccezionale nel cosmo ha permesso la nostra comparsa. D'altra parte la nostra intelligenza, non meno eccezionale, ci permette di adattarci a una grande varietà di situazioni, ma non ci aiuta a fare tutto né a conoscere tutto. La nostra sopravvivenza presuppone dunque un buon funzionamento delle nostre organizzazioni sociali, in armonia con il nostro ambiente: in altri termini, la sottomissione a norme che ci impediscono di cadere nella dismisura e nell'illimitatezza.» (pag. 11). «La frontiera non isola, filtra. Le frontiere, per quanto arbitrarie possano essere (e c'è da sperare che lo siano il meno possibile), sono indispensabili per ritrovare l'identità necessaria allo scambio con l'altro. Al contrario di quello che sostiene la tesi mondialista, non c'è democrazia senza capacità del corpo dei cittadini, a tutti i livelli, di darsi dei limiti» (pag. 36). «La globalizzazione è stata per il capitalismo una tappa decisiva sulla strada della scomparsa di ogni limite. Infatti permette di investire e disinvestire dove si vuole e quando si vuole, in spregio degli uomini e della biosfera» (pag. 68). «In ultima analisi, il problema dei limiti forse è fondamentalmente un problema etico. In tutti i campi, il limite deriva quasi sempre da una norma esplicita o tacita, diretta o indiretta, che le collettività umane si danno» (pag. 91). «Secondo gli antichi greci, gli dei precipitavano nell'abisso della dismisura coloro che volevano perdere. Nella hýbris. Nel desiderio insaziabile di essere o apparire più di quello che si può e si deve essere, più belli, più forti, più potenti, più ricchi, più famosi ecc. Chi sconfinava nell'illimitatezza doveva essere ostracizzato, escluso dalla città, perché per la città niente è più pericoloso dello scatenamento della hýbris. E la hýbris che scatena gli odi inestinguibili. Il desiderio insaziabile di alcuni nutre l'odio di tutti. In un certo modo questo è anche il messaggio universale di tutte le religioni … I Bisogni, spiegava Émile Durkheim (1858-1917), possono essere soddisfatti se sono limitati, e limitati da qualche autorità morale legittima. In mancanza di questo gli uomini scivolano in quella che veniva chiamata anomia, la perdita di qualsiasi regola. Una variante della hýbris… Le società moderne sono entrate nel XX secolo prima con i totalitarismi e poi con il trionfo delle tecno-scienze e del capitalismo finanziario guidato da una logica di assoluta illimitatezza. Diventate completamente faustiane, non vogliono più conoscere nessun limite né all'arricchimento materiale, né alle invenzioni tecniche, né allo stravolgimento di tutte le norme morali ereditate. In definitiva, e legittimo e valorizzato soltanto il movimento ininterrotto di trasgressione di tutti i limiti immaginabili. Movimento che si trasforma nella propria fine. Di conseguenza, e tutti lo sanno o lo percepiscono, la questione centrale che oramai si pone all'umanità è quella di stabilire se saprà dominare il proprio dominio. Limitare l'illimitatezza.» Alain Caillé (1944), “Pour un manifeste du convivialisme” (2011), (pag. 102). «Il senso politico di una politica ecosociale è ristabilire la correlazione tra meno lavoro e meno consumo da una parte e più autonomia e più sicurezza esistenziale dall'altra, per tutti e tutte. Una vita più libera, più serena e più ricca. L'autolimitazione si sposta così dal livello della scelta individuale al livello del progetto sociale. La norma del sufficiente, in mancanza di un riferimento nella tradizione, va definita politicamente» André Gorz, “L'Écologie politique entre expertocratie et autolimitation” (1992), (pag. 105). «È questa la visione della decrescita.» (pag. 105).

Recensione 3/3
Serge Latouche, "Usa e getta. Le follie dell'obsolescenza programmata", Ed. Bollati Boringhieri, Torino, 2013.
L’economia della crescita e del consumismo più irrazionale ha ridotto tutti i cittadini ad anonimi “consumatori”, orrendi “tubi digerenti”, come i lombrichi, che ingeriscono la terra arricchendo l’humus delle oligarchie internazionali. Ma per garantire questo processo occorre programmare l’invecchiamento precoce di tutto quello che i “consumatori” acquistano. Ed ecco l’”obsolescenza programmata”. Cos’è l’“obsolescenza programmata” che vuole descrivere Latouche con questo suo saggio? “Obsolescenza”, nell’accezione originaria del termine, viene dal latino obsolescere che rimanda al processo del “logorarsi”, del “cadere in disuso”, dell’invecchiare, del passare di moda. “Planned obsolescence” (“obsolescenza programmata”) quando già in fase di progettazione l’azienda produttrice stabilisce “scientificamente” che quel prodotto non deve durare a lungo. In alcuni casi, addirittura, le aziende produttrici di prodotti tecnologici usano il “firmware”, un programma integrato nell’hardware che rende quel particolare prodotto inservibile trascorso un determinato lasso di tempo stabilito “scientificamente” dal produttore.
E perché mai tutto questo? Perché la società occidentale contemporanea costruita sulla crescita economica illimitata ha fondato il suo destino sull’accumulazione infinita di beni. Il modello di società della crescita, che tutte le più potenti lobby del mondo ci iniettano quotidianamente nel cervello utilizzando tutti i più incisivi mezzi di comunicazione di massa, si basa su un processo tanto semplice quanto schiavizzante: secondo “i grandi saggi” dell’economia della crescita, il benessere del popolo è basato esclusivamente sul consumo illimitato. Insomma, la crescita per la crescita basata sulla crescita indefinita della produzione e quindi del consumo. E perché tutto ciò accada, la prima regola che devono rispettare le grandi aziende produttrici di beni di consumo, dev’essere quella della obsolescenza programmata. È questo il motivo per il quale una società basata su principi economici perversi e innaturali, quali quelli della crescita illimitata, subisce periodicamente delle drammatiche e disperate crisi economiche - come quella che stiamo vivendo in questi anni - dovuti fondamentalmente alla sovrapproduzione che si scontra terribilmente con la saturazione dei mercati. La produzione di prodotti elettronici in serie, per esempio, ha bisogno del consumo di massa per reggere il mercato. Perché ci sia consumo di massa illimitato bisogna “costringere” i consumatori a comprare illimitatamente. E per raggiungere questo risultato bisogna “drogarli” e renderli “tossicodipendenti da crescita”. Costringere cioè i consumatori a “desiderare” all’infinito. E il desiderio, si sa, a differenza dei bisogni, non conosce la sazietà. È questo il compito che la pubblicità deve assolvere: presentare i prodotti dell’industria seriale come mezzi per soddisfare i desideri. Desideri che vengono al contempo innescati dalla stessa pubblicità. E per sostenere la domanda è necessario che gli oggetti comprati deperiscano il più velocemente possibile. Ed è qui che trova origine e fondamento il principio dell’obsolescenza programmata. È necessario che lo stile di vita dei cittadini sia basato principalmente sul consumo illimitato, come già nel 1950 diceva il famoso analista del mercato americano Victor Lebow: «bisogna mettere a punto una strategia commerciale che trasformi i cittadini in consumatori voraci, maniacali, sperperatori, insomma, sopraffatti dalla coazione a ripetere infinita». La nuova e più diffusa forma di schiavitù, costruita con i subdoli, subliminali e potenti mezzi di comunicazione di massa, viene costruita con la pubblicità che deve porsi tre obiettivi per “iniettare” nel consumatore i principi ispiratori per il raggiungimento della sua presunta felicità: il desiderio di consumare, l’accesso facilitato al credito al consumo, l’obsolescenza programmata in grado di rinnovare il desiderio. E questi schiavi siamo noi, i cittadini-consumatori: puerilmente illusi del libero arbitrio e della libertà di scegliere quello che desideriamo. Non a caso Frédéric Beigbeder, noto pubblicitario e adesso apprezzato scrittore, amava ripetere: «Sono un pubblicitario, farvi sbavare e la mia missione. Nel mio mestiere, nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma».
PS – è ulteriormente interessante vedere il film-documentario di produzione spagnola, che ha ispirato questo saggio: “Pret à jeter/ The Light Bulb Conspirancy” (2010) di Cosima Dannoritzer, il cui link è postato a seguire.
ANDREA GIOSTRA.
https://www.facebook.com/andrea.giostra.37  
https://www.facebook.com/andrea.giostra.31  
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Per chi volesse saperne di più su Serge Latouche:
https://en.wikipedia.org/wiki/Serge_Latouche 
https://it.wikipedia.org/wiki/Serge_Latouche  
http://www.ibs.it/libri/Latouche+Serge/libri+di+Latouche+Serge.html
http://notizie.tiscali.it/interviste/articoli/latouche-decrescita-intervista/ 
https://www.youtube.com/watch?v=Ui_HbEN9k1M 

Fattitaliani

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