Nell’intervistare
Maximilian Nisi, chiunque potrebbe accorgersi della sua grande
passione per il Teatro anche se da attore eclettico qual è, non ha
disdegnato né il Cinema né la Televisione. Formatosi alla Scuola
di Strehler, ha attinto man mano qualcosa da tutti quelli che hanno
contribuito alla sua crescita artistica. Cerca sempre di nascondersi
nei personaggi che interpreta. Il Teatro per lui è Vita.
In
che modo “Fiore di Cactus” (in scena al Festival teatro di Borgio Verezzi il 30 e 31 luglio 2016) coglie le contraddizioni di una storia
d’amore bizzarra?
Esistono storie d’amore
non bizzarre? Io non credo!
Hai dichiarato che per te è difficile fare la Commedia. Perché?
Ci sono progetti che mi
sono più congeniali e progetti che, essendo più lontani dalle mie
capacità e dal mio gusto, richiedono da parte mia maggiore impegno.
Credo che divertire il pubblico non sia per nulla facile. La commedia
è un genere di intrattenimento. Deve produrre risate e divertimento.
Vive del rapporto diretto tra l’attore/personaggio ed il pubblico.
Nel dramma questo rapporto è senz’altro minore. A volte non è
neanche richiesto. Non è semplice avere empatia con il pubblico.
Averla è senz’altro un grandissimo dono. Quando questa manca e ci
troviamo a dover affrontare come interpreti la messa in scena di una
commedia, diventa fondamentale lavorare su se stessi per ottenerla.
Quando questa esiste naturalmente, deve comunque essere calibrata per
raggiungere quella misura di cui la commedia fatta bene necessita.
Oltre che lavorare sulle capacità comunicative poi bisogna
sviluppare ironia e autoironia. Insomma è un lavoro lungo, per nulla
semplice, ma che può anche risultare divertente e veramente molto
stimolante. Io cerco sempre di nascondermi nei personaggi che
interpreto e seppure rispetti profondamente il pubblico non amo
tenerne troppo conto durante il mio lavoro.
Nel Teatro Italiano
c’è ancora il pregiudizio sulla commedia brillante, definita
spesso commerciale. Che ne pensi?
Forse la responsabilità
di questo pregiudizio è imputabile ad alcuni che hanno affrontato la
commedia in modo superficiale. Ho letto commedie bellissime in questi
ultimi mesi, scritte in modo eccellente e popolate da personaggi, per
nulla unidirezionali, caratterizzati da mille sfumature. Forse, per
far bene la commedia, basterebbe aver più fiducia nella scrittura,
dimenticando che nasce per produrre ilarità. Strehler, il mio
maestro, un giorno disse che è la situazione drammaturgica ad essere
divertente, non i singoli interpreti. Sono le relazioni che si creano
tra i personaggi, le loro condizioni a far sorridere il pubblico.
L’attore non deve far altro che calarsi nel modo più onesto e
credibile nel personaggio che interpreta, rispondendo all’evolversi
della situazione con coerenza e semplicità. Non deve far nulla per
divertire a tutti i costi, non deve forzare la mano, esagerando,
ammiccando o strizzando continuamente l’occhio al pubblico. Questo
non solo nel rispetto di autori validi e di testi ben scritti che non
vanno traditi ma anche nella salvaguardia degli interpreti che in
questo modo avrebbero la possibilità di lavorare con serenità e
senza ansie da prestazione.
Esistono ancora le
Affinità elettive?
Parli di quelle
impressioni, sensazioni, desideri, aspirazioni che una volta
condivise creano una comunione di anime, una sintonia? Sì, penso
proprio che esistano ancora, se così non fosse saremmo delle monadi,
delle creature senza porte e senza finestre, come dice Leibniz. Le
affinità elettive sono importanti, essenziali, fondamentali per far
sì, ad esempio che un lavoro, possa diventare un capolavoro.
Hai frequentato a
Milano la Scuola del Teatro d’Europa diretta da Giorgio Strehler.
Alla tua crescita artistica hanno contribuito artisti come Marcel
Marceau, Lindsay Kemp, Luca Ronconi e molti altri. Cosa hai attinto e
che ricordi hai di ognuno di loro?
Credo che tutti gli
incontri che avvengono durante la vita, siano basilari, nel bene e
nel male. Incontriamo persone/personalità che ci aprono la mente e
ci mostrano delle strade che non avevamo preso nemmeno in
considerazione o che addirittura non pensavamo esistessero ed altre
che portano in luoghi nei quali non vorresti mai più tornare. Il
tempo e le esperienze fatte aiutano a capire che cosa si desideri e
cosa si rifiuti. Sandro Sequi, per esempio, mi ha insegnato la forza
del pensiero. Glauco Mauri, il rispetto per il pubblico. Giorgio
Strehler, la poesia. Luca Ronconi, la potenza del linguaggio.
Anatolij Vassil’ev, l’astrazione da un contesto. Teodoros
Terzopoulos, l’energia primitiva. Gabriele Lavia, il rigore.
Giuseppe Marini, la geometria (solo per citarne alcuni). Tutti i
registi con cui sono entrato in contatto mi hanno lasciato stimoli,
punti di vista, emozioni che oggi mi porto addosso e che
costantemente verifico, metto in discussione e rielaboro. Ci sono
stati insegnamenti che non sono stato in grado di comprendere subito
e che solo nel tempo inaspettatamente, hanno trovato reale
giustificazione.
Non è la prima volta
che vai a Borgio Verezzi. Cosa pensi del Festival?
È un Festival che ha
saputo onorare la nostra immensa tradizione teatrale, l’ha
esplorata, riproposta e rivitalizzata, un festival che per 50 anni è
stato la casa di molti artisti che lì hanno lasciato il cuore. A
Borgio Verezzi sono cominciate avventure memorabili. In piazzetta
Sant’Agostino sono stato Billy Budd, San Francesco, Amleto,
Bassanio, Mich, il Conte Lasca, Stuart. Nel Duomo Cristo e al Teatro
Gassman, Ross Gardiner. Sono stati viaggi immensi, necessari, in un
luogo dello spirito al quale sono legato e al quale rimarrò
immensamente grato.
Due anni fa hai curato
la Regia di “Memorie di un fanciullo” tratto da L’Isola di
Arturo di Elsa Morante. Come mai hai deciso di passare dall’altra
parte?
Mi è stato chiesto di
curare la regia di alcuni brani selezionati ed assemblati tratti da
quel meraviglioso libro. Come rifiutare? Non era la prima volta che
affrontavo una Regia. E’ stata un’avventura intrigante. Una tela
da riempire di mille colori e di linee sparse per raccontare
sensazioni ed immagini tratte da uno dei libri più significativi
della mia adolescenza. Mi sono molto appassionato. E’ uno
spettacolo che certamente un giorno riprenderò. Dirigere mi piace,
spalanca la mente e sollazza i miei sensi. Adoro plasmare e
raccontare, nella più completa libertà espressiva ed in
un’incosciente coscienza, storie eterne.
"Fiore di Cactus" avrà
anche una Tournée?
Certo. Compatibilmente
con gli impegni di tutti. Dovrò contemporaneamente portare a termine
le repliche di “Mister Green” il meraviglioso testo di Jeff
Baron, tradotto da Michele Zaccaria, prodotto da Theama teatro,
diretto da Piergiorgio Piccoli, musicato da Stefano De Meo ed
interpretato da me e da un immenso Massimo De Francovich.
Elisabetta Ruffolo