(contiene spoiler) Ognuno
il proprio immaginario se lo costruisce come può e con quello che
gli offre il proprio tempo e, prima ancora di agire con
consapevolezza e scelte mirate, molto fa la casualità.
Prima ancora
dei manuali di scuola la mia generazione deve la conoscenza
dell’America del Nord e della sua epopea storica a letture
disordinate che spaziavano nella sterminata letteratura di Salgari
(tra cui la famosa Trilogia
del Far West e non solo)
alla impareggiabile fonte del fumetto degli anni Sessanta e Settanta
(tra cui Il Grande Blek,
da noi meglio conosciuto come Blek
Macigno o l’immenso Tex
Willer di Bonelli e
Galeppini). Poi incominciammo ad essere aiutati dal cinema,
ereditando dai gusti dei padri l’indimenticabile Passaggio
a Nord-Ovest (1940) di King
Vidor e da alcuni prodotti a noi più vicini come Il
piccolo grande uomo (1970)
di Arthur Penn o
come Corvo Rosso non avrai il
mio scalpo (1972) di Sydney
Pollack. Insomma i favolosi trappers, il mondo dei cacciatori e degli
esploratori, dei mountain man
o, meglio ancora, dei frontiersman
per noi avevano le sembianze di Spencer Tracy o di Robert Redford o i
volti scolpiti dalla matita di Aurelio Galeppini o dai disegnatori
della EsseGesse.
Non
possiamo che accogliere con entusiasmo, a definitivo completamento
del nostro immaginario, l’ultimo film di Iñárritu,
The Revenant,
tratto da un romanzo di Michael Punke, recentemente pubblicato in
Italia dall’editore Einaudi. Il regista messicano ricostruisce
un’onirica avventura attraverso il Nord Dakota - lo stesso milieu
che i fratelli Coen utilizzano per Fargo
- nel quale il trapper
Hugh Glass (personaggio realmente esistito tra la fine del Settecento
e l’inizio del XIX sec., eroe della mitologia western, secondo la
sempre più incalzante moda di convincere lo spettatore che si
troverà di fronte a una true
story) e il suo giovane
figlio Hawk, nato dal matrimonio con una donna indiana della tribù
dei Pawnee, guidano una rischiosa spedizione americana a caccia di
animali da pelliccia. Glass conduce il gruppo nei pericolosi
territori indiani con maestria più da autoctono che da bianco, anche
se la presenza del figlio avuto con una Pawnee
scatena non pochi pregiudizi tra quei violenti avventurieri. Il
trapper
viene gravemente ferito da un’orsa e il comandante della
spedizione, già decimata da un violento attacco indiano, paga due
suoi uomini perché restino con lui per aiutarlo a guarire, ma uno
dei due, sicuro che l’uomo sarebbe morto a causa delle ferite
riportate, gli uccide il figlio meticcio e lo abbandona a se stesso.
Rimasto solo e senza armi per difendersi, Glass tenterà di
riprendersi e di percorrere infinite distanze nel nulla dell’inverno
nordico per inseguire il miraggio della sopravvivenza e della
vendetta.
Iñárritu,
il regista della cosiddetta Trilogia sulla Morte (Amores
perros, 21
grammi e
Babel)
e di Birdman, che ci aveva incantato con i suoi deragliamenti
temporali e i montaggi mozzafiato, ritrova in questa sua nuova opera
la linearità del tempo, interrotto solo da improvvisi flachback
che riportano in superficie i frammenti di un dramma – l’incendio
di un campo indiano in cui muore la moglie di Glass e viene ferito il
figlio – tra i deliri diurni e notturni dell’ormai moribondo
protagonista. Oceani di conifere ondeggianti, monocromi distese
innevate, montagne invalicabili battute da valanghe e fiumi impetuosi
ci riportano all’idea della natura incontaminata, violenta e
primordiale della letteratura di Jack London, ma il senso di scacco,
di paralisi esistenziale, di zona d’ombra dell’esistenza
richiamano alla letteratura di Joseph Conrad e alle sue famose
rivisitazioni cinematografiche.
La
natura diventa qui un umido e fangoso labirinto in cui tutti cercano
qualcosa e, quando per caso uomini o animali si incontrano, scatta la
lotta per la vita: l’orsa che difende la prole e il proprio
territorio, i gruppi di cacciatori americani e francesi pronti ad
ogni sorta di violenza, le due tribù indiane – i Ree e i Pawnee –
che, dotate di saggezza antica, cercano di sopravvivere a volte
provando a commerciare con i bianchi, altre volte attaccandoli per
non essere attaccati. Non vi è differenza tra uomo bianco e
pellirossa, sono tutti selvaggi in quel contesto, si vestono allo
stesso modo, si muovono con le stesse movenze, compaiono e scompaiono
tra le nebbie del sottobosco, tra la pioggia incessante o i bianchi
riverberi della neve battuta dal vento. E tutti cercano sempre
qualcosa che non trovano o che perdono momentaneamente o che hanno
ormai perso per sempre. Sembra non esserci scampo per nessuno e la
sopravvivenza si annida soltanto nella capacità di farsi natura di
Glass, di abbracciare mortalmente l’orsa feroce diventando un
tutt’uno con lei e vestendosi di pelle d’orso quasi riprendendone
le sembianze, nella disperazione di riemergere dalla terra come un
vero revenant
della miglior tradizione horror, nel farsi scivolare nelle acque del
fiume gelido, nel cauterizzarsi le ferite col fuoco, nel seppellirsi
di neve, nel ripararsi nelle viscere sanguinanti di un cavallo
stramazzato. È l’epopea di un viaggio affrontato dal protagonista
sempre in una sorta di delirio febbricitante, provato dalle ferite
devastanti, accompagnato ritmicamente dalle memorie dei propri lutti,
guidato dalla sua forza di volontà e dall’inestimabile dono del
rancore. A Di Caprio non serve neanche una recitazione verbale, visto
che tutto si svolge attraverso i suoi gesti, i suoi sguardi e suoi
flebili rantoli di revenant
- sarebbe veramente ora di premiarlo con l’Oscar!
Col
passare dei minuti, l’epopea si tinge sempre più di epica antica,
di vera e propria odissea leggendaria: dalla morte della moglie e del
figlio al tradimento del compagno, dall’abbandono alla solidarietà
tra i perdenti, dalla magia sciamanica dell’uomo primordiale
all’animale feroce che si fa mostro, fino alla vendetta. E un unico
grande monito su tutto: la vita non ci lascia finché non
l’abbandoniamo noi.
Cesare
G. Albertano