Il
martello pneumatico sfondava pezzi d’asfalto profondi. Fino ad
arrivare alla terra, sotto. Ingrumata di sassi. Il rumore dei colpi
scuoteva i rami, degli ippocastani, colmi di ombra quasi invernale. E
riempiva l’aria, zittendo i motori delle auto, in fila, lungo via
XX Settembre, a partire dal Gran Hotel, sulla piazza della villa
Comunale. Era così forte l’urto dell’acciaio sul catrame, da far
galleggiare i pensieri. Sembrava quasi una musica. Potente e
ipnotica. Solo ritmo; solo battito del cuore, solo muscoli tesi ad
attutire i colpi, e schiena piegata. Niente melodia, niente
distrazioni. Come se dal buio un’ombra d’acqua uscisse dal
bicchiere, allagando la terra.
E
colorava di grigio, spento, anche le foglie dorate degli alberi, che
galleggiavano, annegate nella piccola fontana, e ammucchiate, sotto i
piedi ferrosi delle panchine fredde. E si spandeva, il rumore. Come
un sasso lanciato dentro un’acqua immobile. A onde successive.
Dall’edicola,
fin verso al colonnato della Regione, ancora nudo, e spezzato, dopo
le scosse di tanti anni fa. E di fronte, subito, sui muri transennati
del Grand Hotel. Che aveva licenziato tutti. Dopo aver tenuto il bar
aperto, fino a poco prima. Provandoci, a tenerlo acceso. Senza che
nulla fosse ancora ricostruito. Le stanze intorno al bar, dietro, e a
fianco, tutte puntellate, da terra fino al soffitto, con tubi
d’acciaio che vibravano, sotto l’eco dei lavori sulla strada.
Come un canneto sotto il vento. Stanze buie, che respiravano polvere,
e freddo, e silenzio.
Ora
era tutto immobile, le vetrate serrate. E fino al palazzo, all’angolo
con via XX settembre, col suo distributore di benzina, sotto.
Raggrinzito, da anni di nulla. Le pompe ancora in piedi, svuotate di
ruggine incrostata al gasolio polveroso, oleoso e cieco. Le gomme
delle pompe irrigidite dal freddo. I pilastri del palazzo, col
cemento sbriciolato, che lasciava vedere i ferri, tutti ossidati di
vecchiezza e tempo. Incombeva, il palazzo, sulla strada, con la sua
ombra curvata, come se fosse sul punto di crollare. Trattenuto a
stento dai puntellamenti di legno e ferro, e tenuto fermo da dietro,
tirato, dalla salita che andava verso piazza del Duomo.
Sarebbe
stato abbattuto, presto, forse, quel palazzo. E fino al ristorante,
sotto il livello della strada, sotto l’Hotel, che era aperto
invece, e, dentro, tenevano chiuse, le porte esterne, per non
ascoltare gli spari, veloci, del demolitore, che scendevano sotto il
bordo del marciapiede fino ad un paio di metri, quasi, a trovare
vene, tubature, nervi e tendini arrugginiti, arrotolati dall’urto
del terremoto, spaccati, grondanti acqua. Ferita. L’odore di
lubrificante si mischiava con un soffritto lontano. E ogni suono
intorno era cancellato.
Dentro
il mattino, tardo, le auto lungo la strada, i passanti, disegnavano
linee incrociate, tra loro, scure, scie senza luce. Come palline di
vetro scosse dentro una scatola, impazzite, senza ragione, senza
sguardo oltre. Compresse e soffocate. Il muratore sudava, nonostante
il freddo di aria tramontana, che tagliava il cielo blu, e serrava i
denti, come se stesse mordendo un pezzo di cuoio, per non gridare dal
dolore, mentre alla base della spina dorsale, sentiva, ad ogni
affondo del martello, un pugno, sui muscoli, come vetri che si
segnavano. Di crepe taglienti.
Si
guardava intorno. Per fermare negli occhi le aiuole, le auto
parcheggiate. E aggrapparsi, a quel che vedeva. Perché ci fosse
qualcosa, oltre quel rumore. Per rompere l’accerchiamento delle
pietre colme di memoria e solitudine. Le erbacce suonavano come
campane libere, sul tetto di quello che una volta era un garage a
pagamento, dalle serrande chiuse, ora. Così chiuse, che, un giorno,
per aprirle, sarà necessario sfondarle. Tagliarle. Con un frullino,
a mano, o una ruspa, diesel. Dipenderà solo da cosa s’intenda fare
della costruzione in pietra, alle spalle, smozzicata, trapesta,
svuotata, dal sisma, e nuda e ferma. Da sette anni, tra poco.
Il
suo sguardo era attento, e i pensieri, bianchi, di rumore. Solo
ritmo, solo battito del cuore, per sentirsi vivo. Le mani chiuse, con
forza disperata, sul metallo, mentre le schegge volavano ovunque, sui
pantaloni, sulle scarpe dure, sulle mani, schizzate di graffi e
sangue.
Il
muratore era solo, in quel tratto di strada, all’inizio di Corso
Federico II. Spense il martello pneumatico, lasciandoselo poggiato in
equilibrio su una gamba. Pesante. Frugò in una tasca dei pantaloni e
ne estrasse un pacchetto di sigarette, e un accendino di plastica. Il
sapore tossico del tabacco gli invase la bocca, e il respiro, mentre
soffiava il fumo dal naso, con la bocca chiusa, per non perdere
neanche un goccio di veleno necessario. Sulla vena del collo, sentì
la vena battere veloce. E aspirò il fumo ancor più profondamente,
inghiottendo, fino allo stomaco. Le orecchie avevano addosso una eco
rombante. Come un vento che urli dentro un canale, infilato tra le
pareti di un tubo. Era come emergere da una lunga apnea.
Guardò
l’orologio. Era passato mezzogiorno. Le mani erano livide. Riprese
in mano il suo strumento di lavoro, allora, e, delicatamente, lo
poggiò a terra, al fianco della buca. Ancora caldo. S’avviò
lentamente, lasciando la sigaretta in bocca, su un angolo delle
labbra, mentre il fumo, ogni tanto, nei passi, gli andava fin
sull’occhio, irritandolo, e arrivò alla sua auto parcheggiata
accanto al marciapiede, poco prima della chiesa di Cristo Re.
Dall’altra parte della balaustra, oltre il marciapiede, sotto,
decine di persone erano morte, nel crollo dei palazzi.
Ne
aprì il portabagagli, prendendo una borsa ch’era lì dentro, tra
giubbotti e scarponi impolverati di calce rappresa, e riattraversò
la strada, tornando verso la Villa Comunale, percorrendone il
corridoio centrale, di fronte al Monumento ai Caduti. Sedette su una
delle panche di pietra, senza schienale, fredda, al contatto, e
distante. Aprì la sua borsa e ne estrasse un piccolo incarto. Un
panino, che iniziò a masticare, sorseggiando ogni tanto, da una
bottiglietta d’acqua minerale.
Si
sentivano da lontano, i colpi, dai cantieri. Il rotolare delle
betoniere, come un respiro di calce. Il lavoro che continuava, su
altre strade intorno. Le gru silenziose che spostavano quintali di
materiale sospeso. Disegnando traiettorie d’aria.
La
vide arrivare da lontano.
Con
i passi forti che affrontavano la lieve pendenza, in salita verso il
centro della città. Indossava un vestito color vinaccia, che le
lasciava scoperte quasi tutte le gambe, accarezzate dalla seta delle
calze, dai muscoli, leggeri, che s’intravedevano sulla coscia,
tesi, nel camminare, elastici e morbidi. E aveva una scollatura
squadrata, dalla quale emergeva prepotente il contorno del seno,
ondeggiante, e ardente. Gli stivali erano alti, col tacco basso.
Aveva sulle spalle un cappotto lungo, ma lasciato aperto, sbottonato
sul davanti, che ad ogni suo passo ne sottolineava il contorno dei
fianchi. Pieni, come le anse di un’anfora greca.
Le
labbra erano colme, di prugna matura, senza rossetto, gli occhi
grandi, scuri, dal taglio lievemente piegato verso il basso. I
capelli lisci, lunghi, si stendevano, dolci, sulle spalle e dietro la
schiena, leggermente.
Smise
di mangiare, passandosi sulla bocca il dorso della mano, ingoiando
aria, mentre raddrizzava la schiena, e la guardava. Fisso. E intorno,
tutto scolorava al suo passaggio. Lei ricambiò lo sguardo, mentre
gli passava accanto, proseguendo senza voltarsi. Forse le labbra
s’erano aperte un istante. Mentre sistemava le cartellette, da
lavoro, che portava sotto il braccio. E scomparve, traversando viale
Rendina, verso l’hotel San Michele. Rosa e verde. Puntato contro le
pietre di Santa Giusta che rotolavano giù col loro odore medievale.
Il
muratore, immaginò che lei gli si sedesse accanto, sulla panchina. E
immaginò che lo guardasse, negli occhi. E immaginò che, dentro gli
occhi, lei vedesse il tempo suo, trascorso.
Immaginò
che lei vedesse tutte le volte che s’era avvicinato ad una donna e
lei aveva invece guardato altrove. Immaginò che lei potesse vedere,
in una volta sola, tutte le volte ch’era stato tradito. Tutte le
volte che era bastato un gesto, o una parola, o un silenzio. Per
restare solo. E strappato.
E
immaginò che lei, per guardare meglio accostasse la fronte alla sua.
E immaginò di respirarla.
Immaginò
l’odore suo. Caldo, di petalo nudo. Immaginò di respirare la sua
aria e di sentire che poteva rispondere alle sue domande. E immaginò
d’avvicinarsi, alle sue labbra. Piano. E immaginò di sentirle, le
sue labbra. Premute, contro la propria bocca. Le immaginò come
ciliegie a maggio inoltrato. Da mordere dolcemente, e sentire il
liquido dolce che ne esca, sulla lingua, come sangue di porpora, che
lo dissetava, come se non avesse mai bevuto prima; come se non avesse
mai saputo, sino ad allora, cosa fosse, bere.
Immaginò
la leggerezza di una coccinella, nelle lingue, che si cercavano,
prima timide. Poi sfrontate, golose, bagnate, attorte intorno al
desiderio delle mani che si cercavano. E immaginò di prenderle le
mani, e di sentirle strette. Non più afferrate al martello
pneumatico e doloranti, ma giovani, lisce, intrecciate sul tempo che
si fermava. Disperate, per non riuscire a stringersi abbastanza,
l’una all’altra.
E
immaginò che lei si alzasse, dalla panca, senza smettere di
baciarlo. Fino ad abbandonarlo un istante, e mettersi in piedi, di
spalle, davanti a lui. E immaginò che, in quell’istante, lei
sollevasse, febbrile, leggermente il vestito, e mettesse le dita
dentro il bordo delle calze, e delle mutandine, e le tirasse giù,
fin quasi alle ginocchia. E immaginò che lei si sedesse su di lui,
avvolta nel cappotto per nascondersi, almeno un poco, nel mattino che
diventava pomeriggio, di sole che riscaldava, poco, l’acciaio del
freddo.
E
sentì, un singhiozzo del respiro, una vertigine; il momento in cui
la penetrava, come una porta che s’apriva, dolce, di luce, e calore
liquido. E immaginò di metterle un braccio sotto il suo braccio,
traversandole la schiena, e afferrarle, da dietro l’altro braccio,
tirando, verso di sé, con forza, bloccandola. E immaginò di
poggiare le labbra dove il collo di lei si scioglieva nelle spalle, e
sentirne sotto le labbra il brivido, leggero che l’avrebbe colta.
E
sentì la schiena di lei arcuarsi, e le sue mani provare a poggiarsi
sulle gambe che la serravano, dietro, per puntarsi e premere, per
essere entrata di più, e più profondamente. E, finalmente, immaginò
che l’altro suo braccio le entrasse nella scollatura del vestito.
Sentendo il seno, tenero, e i capezzoli, increspati di vento,
dolcissimi.
Il
muratore sentì, improvvisamente, le gambe cedergli, tremanti. E si
guardò, intorno, per recuperare il respiro. Sulla panca di pietra,
al suo fianco, c’era ancora un pezzo di panino. E lo riprese, tra
le mani, portandolo alla bocca, mordendo. Senza sentire il sapore.
Inghiottì. Chiuse gli occhi, il tempo di un respiro profondo.
E
la vide ancora.
Che
scendeva, da via San Michele, verso il Centro della Villa Comunale. E
la vide che passava vicino alla sua panca di pietra, e andava oltre.
Ma si fermò, pochi passi dopo, e tornò indietro, verso di lui.
Guardandolo. S’avvicinò, mentre al muratore il cuore consumava
ogni respiro.
E
gli disse:
-
Lo so, cosa pensi.
Carino,
sei carino.
Ma
sei solo un muratore, e magari sei pure rumeno.
E
quindi… niente. –
E
si voltò.
E
s’allontanò da lui.
Mentre
le foglie d’ippocastano, rimaste sugli alberi, diventavano d’oro,
come un raggio di sole dimenticato.