-
Vediamo se riassumo correttamente quanto mi state dicendo.
Voi
due, convivete; avete una figlia, e abitate in una casa in affitto.
Al momento attuale, nessuno dei due ha un lavoro stabile, ma volete
rilevare una licenza per gestire un negozio di alimentari a
Monticchio, più o meno nei pressi della ex multisala Garden. E per
far questo, vi occorrono circa quindicimila euro di prestito, che,
insieme alla vostra liquidità, vi consentirebbero di rilevare tutta
l’attività.
E’
giusto?
Sergio,
finì di parlare, fece un piccolo sospiro e guardò dinanzi a sé i
suoi due interlocutori, Michela e Raffaele; congiunse e intrecciò le
mani, avvicinandole alla bocca, mentre spingeva indietro le spalle,
verso lo schienale della poltrona, dietro la scrivania. Michela notò
il cinturino di cuoio, dell’orologio di Sergio, che sporgeva di
poco sul polso libero dalla camicia, lasciata con i polsini
slacciati, sotto la giacca a quadri, di taglio inglese. La cassa
dell’orologio d’acciaio brillò leggermente, mentre Sergio
ruotava piano il volto, verso Michela prima, verso Raffaele poi.
- Noi
ci siamo rivolti alla sua banca, perché, da tempo, siamo
correntisti. Da quando aveva appena aperto in piazza della Fontana
Luminosa, e ora c’è rimasto solo il palazzo sfregiato dal
terremoto, mentre, quello di fronte, palazzo gemello, già è quasi a
posto – a proposito, quando partite con i lavori di
ristrutturazione? - Ci siamo sempre comportati correttamente. Non
siamo mai andati in rosso… Noi.
- La
direzione sta valutando le opportunità immobiliari nella nostra
città e il corretto posizionamento delle filiali in relazione al
mercato, e poi provvederà certamente a ristrutturare le sedi di
proprietà che rispondano al suo nuovo assetto strategico. Ma, per
tornare a noi, io vi comprendo, e però… i vostri genitori sono
disposti ad avallare il prestito che la banca vi farà?
-
Guardi… noi purtroppo non abbiamo più i nostri genitori…-
- Mi
dispiace, e vi chiedo davvero scusa della domanda. Sono costretto
però, a questo punto, a chiedervi su quali garanzie, reali, la banca
potrebbe fare affidamento, in caso di una vostra malaugurata
inadempienza…-
Michela
s’affrettò a rispondere, alzando, dapprima, il tono della voce, e,
abbassandolo subito, appena accortasi del suo scatto:
-
Ascolti, il negozio di cui stiamo parlando, ha una storia. Un
avviamento sicuro. Si trova in una posizione strategica di passaggio,
oltre ad essere frequentato, da sempre, da tutti gli abitanti di
Monticchio, visto che è l’unico alimentari cui si può andare
senza prendere l’automobile. Noi il prestito ve lo restituiremo
certamente. –
Lo
disse tutto d’un fiato Michela, guardando Sergio dritto negli
occhi. Sergio ricambiò lo sguardo, e Michela senti i suoi occhi
bruciargli sulle labbra. Abbassò gli occhi un istante, e vide lo
smalto delle unghie delle sue mani, scrostato, in alcuni punti, come
i segni che lasciano i passi su una terra da poco bagnata dalla
pioggia, e subito seccata da un vento caldo. Tirò istintivamente
indietro le dita, poggiandole sulle gambe, sotto l’orlo della
gonna, che tirava in giù, spingendola verso le ginocchia. Coprendosi
da quello sguardo.
Michela
sapeva d’essere bella.
Sapeva
il suo seno morbido, e ampio. Dolcissimo, come un miele selvaggio,
profumato di sciami di fiori. Sapeva i suoi capelli corti, ricci,
folti, che inondavano le labbra sempre sorridenti, di un nero fulvo,
e luminoso, quasi violento, nel contrasto con la pelle di latte e gli
occhi dorati, accesi. Sapeva i suoi fianchi. Archi tesi, che la
freccia dritta delle gambe lanciava al cielo ad ogni passo, leggero.
Come un mormorio di foglie di bosco. Ma subito, rialzò lo sguardo,
dritto negli occhi di Sergio. Fiera.
Mentre
Raffaele guardava altrove, incerto, verso un quadro sulla parete,
Sergio, sostenne, lo sguardo di Michela. E lo ricambiò, come un
respiro correndo insieme. Sergio aggiustò con un gesto veloce il
collo della camicia, e le rispose, con la voce roca, dapprima,
appannata dall’emozione, e poi più sicura, impostata. Consapevole
del proprio ruolo di Vicedirettore della filiale.
- Il
suo ragionamento, signora, è del tutto comprensibile.
Ma la
nostra banca deve soddisfare degli standard precisi, per quanto
attiene i prestiti per l’apertura di aziende start up, sia pure di
carattere commerciale. Noi possiamo concedervi il prestito, solo a
condizione di poter disporre di garanzie reali. Una vostra abitazione
di proprietà sarebbe stata perfetta, allo scopo. Viceversa, non
potremmo accettare la sola copertura del bene che vi proponete di
acquistare col nostro prestito, che, comunque, a sua volta andrebbe
ipotecato in nostro vantaggio. Al momento di contrattualizzare la
vostra richiesta.
Il
credito facile, in tempi passati, ha molto penalizzato la nostra
banca, come dovreste ben sapere, visto che ci fate l’onore di
essere nostri correntisti da tempo. Oggi, è per noi essenziale
creare valore per i nostri azionisti. E non possiamo permetterci
alcun errore. O sottovalutazione del rischio. Con questo, non voglio
chiudervi la porta in faccia: se potrete trovare un qualche vostro
parente o conoscente disponibile ad avallare il prestito, noi siamo
qui pronti per voi, alle migliori condizioni di mercato. Non dovrebbe
essere difficile, vista la fiducia che riponete nel vostro
investimento, convincere chi vi è più vicino a darvi una mano. –
E si
alzò, Sergio; Michela lo vide imponente, dietro la scrivania. Alto
oltre un metro e ottanta, col suo fisico da nuotatore giovane,
sorridente, e le porse la mano. Gliela strinse, indugiando, con la
mano di lei nella sua. Fin quando si scosse, come se la mano di lei
fosse divenuta rovente, e porse la mano anche a Raffaele.
Salutandolo.
- A
presto… mi raccomando! –
Sergio
li vide uscire dal proprio ufficio. Girati di spalle. E poté
guardare così Michela anche da dietro. E ne valutò le gambe; gli
apparvero grandi, più di quanto avrebbe voluto. Pensò che, però,
aggiungevano un gusto antico, quasi contadino, alla figura piena e
armoniosa di lei. Restò fermo, a guardare la porta che si chiudeva.
Appena sentì lo scatto della serratura, come se finalmente nessuno
lo potesse più scoprire, cercò subito con gli occhi, sulla sedia
che lei aveva lasciato, i resti dell’impronta del suo corpo seduto.
Si
alzò allora, e girò intorno alla scrivania. Poggiò una mano sul
sedile da cui lei si era appena alzata. Ne avvertì il calore del
corpo sulle dita. Come un fiume potente che entra con tutta la sua
acqua nel mare. Una sensazione violenta. Rialzò subito lo sguardo,
guardandosi intorno, nell’ufficio vuoto, arrossendo leggermente.
Passarono due giorni, durante i quali Sergio guardò spesso, sul suo
computer, il numero di cellulare di Michela, nella scheda anagrafica
preliminare, aperta nel proprio archivio dei contatti, per il
colloquio che avevano avuto.
Tante
volte, col proprio telefono in mano, stava per inviarle un messaggio.
Fermandosi, poi. Intimorito da tutti i pensieri che, immaginava, lei
potesse fare in risposta a quel suo gesto. Preoccupato, che,
qualunque cosa avesse potuto scrivere, lei percepisse esclusivamente
l’invasione, che quel suo messaggio poteva significare: l’uso per
ragioni private, di informazioni che erano proprie invece del suo
lavoro, e che non avrebbero dovuto appartenergli, come persona.
Eppure,
il pensiero di Michela era sempre presente negli occhi di Sergio.
Che, ne guardava il profilo del corpo, sospeso nell’aria del suo
ufficio, piena ancora di lei. Quel mattino, il terzo giorno dopo il
loro primo incontro, Sergio si recò nel piccolo bar, alle spalle
della banca, nello stesso isolato. Il mozzicone dell’antico
acquedotto medievale aveva ai suoi piedi tutti i mattoncini di
terracotta crollati col sisma, polverosi, mischiati a cartacce e
bottiglie di plastica. Lo spazio delimitato da una transenna,
affollato di automobili parcheggiate. E dal rumore del mattino
scolastico d’ottobre, su, verso Colle Sapone. E fu lì, appena
girato l’angolo, che vide Michela.
-
Signora… che piacere… posso offrirle un caffè? –
Michela
stentò, per un attimo, a riconoscere in Sergio l’uomo che, negli
ultimi due giorni, s’era sentita addosso. E s’accorse in quel
momento del profumo del pane, che veniva dal forno, dall’altro lato
della strada, capace di vincere l’odore freddo del mattino e dei
gas di scarico del traffico. Come se la presenza di Sergio
illuminasse improvvisamente i lati belli del giorno.
-
Grazie… sì…-
Rispose,
incerta. Timorosa di scoprirsi sola con lui. Ne sentiva accanto il
fruscio leggero dell’impermeabile, e guardava i passi delle sue
scarpe di cuoio, impunturate. Decisi, verso il bar, ma mai distanti
da lei, attenti a non perdere il contatto dal suo fianco, sul
marciapiede, che si restringeva, sconnesso e sbrillentato, ignorato
dai lavori di ristrutturazione dei palazzi intorno.
Sergio,
le aprì la porta, e la fece entrare, sfiorandole con la mano la
schiena. Michela trattenne, quel breve contatto. Sentendone il
sapore, di onda che tornava, e che voleva fermare nelle mani. Gli
occhi le brillavano, mentre lui ordinava due caffè. Nessun altro era
nel bar. Sergio si voltò a guardarla, mentre il barista pressava la
polvere di caffè nel filtro.
Le
sorrise.
Michela
rispose, a quel sorriso. Fu come se il sangue affluisse tutto sulle
sue labbra, di porpora. E chinò lo sguardo, ma senza staccare gli
occhi dai suoi. Michela guardava Sergio. La cravatta blu scuro, con
leggerissime linee bianche intrecciate, che pendeva sulla camicia
celeste sporco. La cintura di cuoio nero, che sottolineava la vita
sottile, e il ventre, piatto. Muscoloso. Quasi non ne ascoltava le
parole. Seguiva i gesti delle sue mani, magre, contornate da una
leggerissima peluria scura sul margine esterno, come se fossero le
scie luminose di un giocoliere che con le sue fiaccole illuminava la
notte.
E
c’era sempre meno spazio, tra loro. Il sapore del caffè, caldo in
bocca, e le parole di Sergio, e i suoi occhi che la guardavano, senza
mai cercare altrove, fecero pian piano scomparire, il piccolo bar.
Michela sentiva le sue gambe cedere, piano, come per un passo
perduto, immaginato e non fatto.
-
Venga nel mio ufficio, magari mi racconta come procede la vostra
ricerca… se ci sono novità…-
Michela
sapeva che non avrebbe potuto raccontargli nessuna novità, ma lo
seguì, ripassando davanti al Torrione. Le persone che attendevano,
fuori dalla banca, l’arrivo dell’orario di apertura, si
scansarono, mentre Sergio, senza guardare nessuno, apriva con le
proprie chiavi, la porta della filiale, e faceva entrare, prima di
lui, Michela, chiedendo poi la porta, in attesa che scorresse ancora
il quarto d’ora necessario all’orario d’avvio del lavoro.
La
sala della banca odorava di carta e inchiostro, e neon, cupa, quasi
senza luce al piano terra del palazzo. Sergio salutò un impiegato
che guardava lo schermo del proprio computer, e, ad un altro, chiese
di non essere disturbato per una mezzora, perché avrebbe dovuto
discutere con una cliente. Aprì la porta del proprio ufficio, lasciò
entrare Michela, e chiuse. A chiave.
- Sei
mia prigioniera…-
Si
avvicinò a lei, lentamente, mentre lei indietreggiava, guardandolo.
Finché Michela non sentì il bordo della scrivania poggiarsi sulla
parte alta delle sue gambe. Fu in quel momento che Sergio alzò la
mano, e percorse con le dita il contorno dei suoi occhi, e poi gli
zigomi, e la piccolissima piega al fianco delle labbra, in silenzio.
Con una carezza che era il tentativo di disegnare un sogno. E le dita
della mano seguivano le vene del collo, ascoltando la musica del suo
cuore, fino ad entrare dentro il colletto della camicia, dove
s’aprivano le spalle.
La
tirò a sé, e, insieme, si spostò verso di lei, che oscillò sulla
scrivania, e s’aggrappò a lui, un attimo prima di perdere
l’equilibrio. E la baciò. Profondamente, senza respirare.
Rubandole l’aria dalle labbra. Sergio sentiva un tuono profondo
nelle vene, che gli faceva vibrare il sangue. E chiuse gli occhi.
Mentre le sue mani cercavano quelle di lei, e le stringevano, forte.
Fino a non distinguere più i confini delle dita. Michela si staccò
per prima, guardandosi intorno, senza riconoscere nulla. Solo la
ricchezza degli arredi, e l’ombra delle piante sul pavimento.
Sergio la guardava.
- Ho
bisogno di te, da prima di vederti.
Da
prima che iniziasse il giorno del primo giorno che ti ho visto. Ho
bisogno di sentirti su di me, sulla mia pelle. Ho bisogno di perdere
cognizione del tempo dentro le tue labbra. E dentro di te… Michela
smise di ascoltarlo. E lo abbracciò, nascondendo il volto nel suo
petto. Come a cercare rifugio. Come per entrare dentro un mondo che
immaginava, senza aver mai osato avvicinarsi.
-
Ascolta.. – Le disse Sergio.
Domani
mattina prenderò un giorno di ferie. Vediamoci al parcheggio della
stazione di Paganica. Verso le nove. Ti passo a prendere, e troviamo
un posto, dove stare insieme, soli, tu ed io…-
Michela
annuì. Poi, si voltò verso la porta dell’ufficio, girò la chiave
nella serratura, ed uscì. Sentendosi nuda, dinanzi a tutti i clienti
ormai entrati in banca, in fila, dietro le casse. Sergio, dovette
sedersi. Sentì che il respiro era diventato troppo veloce per
contenere aria, e accettare l’emozione. Si sentiva come sprofondare
dentro il buio. Come se quei baci, in realtà, l’avessero
straziato, di desiderio inesausto e tremante. Congiunse le mani, e le
strinse, con forza, torcendole, fin quasi a piegare innaturalmente le
dita, cercando nel dolore un modo per ritrovare la realtà.
Guardò
l’orologio, che correva. Con lentezza torturante verso l’indomani
mattina. Nulla sarebbe rimasto nella sua memoria, di tutte le ore che
sarebbero trascorse fino ad allora. Quella sera, Michela parlò
pochissimo, con Raffaele, appena rientrato, stanchissimo, da un
lavoro a giornata a scaricare pacchi per una ditta di traslochi.
Evitò quasi ogni suo sguardo. Concentrandosi sulla bimba, sulla cena
da preparare. Sui palazzi ancora vuoti e nudi, che vedeva dalla
finestra della sua cucina, alla Torretta. Sulle erbacce che ne
avevano invaso i piccoli cortili, e l’albero cresciuto
smisuratamente e che faceva ombra alla escavatrice rugginosa, ferma
lì da mesi. Senza alcuna ragione.
Nel
varco aperto da una crepa, lungo lo stipite di cemento di una
finestra, sapeva Michela, essere celato un grande nido di vespe, che
la costringeva a tenere chiuse le finestre della stanza della bimba,
anche col caldo. Pensava al loro ronzio musicale, mentre teneva la
figlia in braccio, cercando di addormentarla. Con la mente totalmente
svuotata di pensieri. Vuota, del silenzio delle parole non dette, a
Raffaele.
-
Lavori anche domani? –
- Sì…
tutta la giornata. –
-
Allora, senti, domani in mattinata, dopo che ho portato Elena
all’asilo, vado con Francesca a San Nicolò a Tordino… è da
tanto che mi chiede di andare con lei a vedere dei mobili nuovi per
casa.-
- Va
bene… tanto ci vediamo in serata. –
Michela
sgomberava il tavolo dai piatti, ascoltando l’eco della
televisione. E respirando il desiderio di Sergio, che si sentiva
nelle cosce, incerte, e nelle braccia, rigide, impacciate. Guardava
Raffaele, da lontano, notandone la testa lievemente piegata, sulla
testata del divano, nell’inizio di un sonno stanco e buio. Preparò
la macchinetta del caffè, per l’indomani. E immaginò di berlo, al
mattino, mentre vedeva Raffaele andar via al lavoro, e si sentiva
libera di correre all’appuntamento con Sergio.
Andò
a letto, lasciando Raffaele nel piccolo salotto.
Il
respiro di Raffaele, nel sonno era regolare, e lento. Pesante, ogni
tanto. E riempiva il buio della stanza. Michela guardava il soffitto,
per non guardare al suo fianco. E dimenticava il sonno. Nello
scorrere dei minuti della luna, dietro la finestra, che proiettava
una luce piegata e sospesa, sullo specchio dell’armadio, in fondo
alla stanza da letto.
S’alzò.
In
cucina, vide il tavolo preparato per la colazione dell’indomani.
Notò un cioccolatino, poggiato sul bordo della tazza, dove lei
sedeva di solito. Tornò nel buio della loro stanza da letto e guardò
Raffaele; entrò in silenzio sotto le lenzuola e chiuse gli occhi; si
spostò sul fianco e raccolse le gambe al grembo, e le braccia
piegate, sotto il mento. Portò la coperta leggera fin quasi al naso.
E dormì.
Alle
nove e mezzo del mattino, Sergio capì.
Capì
che Michela non sarebbe arrivata. Lo capì dalle auto che correvano
veloci. Dalle auto che si fermavano, in fila, lungo la Statale, in
ingresso verso la città. Lo capì perché si sentiva fuori posto,
lì, nel parcheggio della Stazione. E aveva freddo. Era solo, tra
muratori che aspettavano il furgoncino che li avrebbe portati al
lavoro, e il barista che prendeva le ordinazioni gridando. Era solo
tra gli operai e le commesse del Nucleo Industriale intorno, che si
incontravano lì, ogni mattina, salutandosi.
E
sentiva crescergli la solitudine dentro; quella che lo circondava di
libri e di spettacoli, di aperitivi, e di cinema, e di negozianti
solleciti. E di vacanze in montagna. Michela non sarebbe venuta. A
rompere quella solitudine. Nessuna auto girava verso la stazione di
Paganica.
Il
cielo, iniziava a piovere.
Luigi
Fiammata