I
biglietti da cinquanta, e da cento euro, si ammucchiavano sul tavolo.
Erano un monte disordinato. Come un nido che aspettasse il suo
cuculo.
Silvana,
mi guardava, seduta di fronte a me. Gli occhi increduli. Forse
spaventati.
Alla
mia sinistra, Leonardo, teneva le carte da gioco chiuse, nelle mani.
Guardava uno scaffale colmo di faldoni, e, come se stesse parlando
con qualcun altro; non con noi, con voce leggera, sfottente quasi.
Diceva:
- Rilancio di duecento. –
Alla
mia destra, Enzo, deglutiva. Con difficoltà.
Dopo
aver ascoltato Silvana lasciare il gioco, disse:
- Più cinquecento, ancora. –
- Ma se non hai più nulla… - Quasi strillava Silvana. Mettendogli una mano sul braccio.
Enzo
mise una mano in tasca. Ne tiro fuori un foglio bianco, accuratamente
piegato. E lo consegnò a Leonardo.
Che lo
aprì, alzandosi in piedi e mettendolo sotto la lampada che pendeva
sul tavolo, per leggerlo. C’era un silenzio sudato, intorno.
Eravamo tutti convinti che Enzo avesse messo sul piatto, qualcosa di
grosso. L’atto di proprietà della propria abitazione ad esempio.
Silvana lo guardava fisso, come se si aspettasse uno sguardo
ricambiato. Ma Enzo aveva il braccio ancora alzato, verso Leonardo,
aspettando che gli restituisse il foglio, una volta letto, e sembrava
che, per lui, non ci fosse nessun altro, nella stanza.
- Ma qui c’è scritto che sei pieno di metastasi… - disse Leonardo.
- Certo, ai polmoni. Così capisci che non mi importa perdere cinquecento o cinquecentomila euro. E giochi senza far storie, se, in questo istante ho finito i soldi qui con me. – Rispose Enzo. Togliendosi qualche goccia di rum dai baffi neri, con un movimento delicato delle dita.
Leonardo
ripiegò il foglio. Lo consegnò a Enzo. E sedette, di nuovo.
- Va bene – disse Leonardo, con un sorriso – giochiamo. –
Sarebbe
toccato a me, decidere se partecipare al gioco, o, ancora,
rilanciare. Tutto nasceva dalla mia prima puntata, infatti. Ma,
intorno a me, era diventato tutto buio. L’atteggiamento
serpeggiante di Leonardo. Gli occhi tremanti di Silvana. Le parole
gelate di Enzo. Tutto buio.
Sentivo
la fronte bagnata del mio sudore appiccicoso. E un conato di vomito,
salire dalla gola, fino al palato. Silenzioso, viscido.
Chiusi
gli occhi. Misi le mani sulle ginocchia, e mi diedi slancio, per
alzarmi dalla sedia. Non sentivo più nessun rumore. Tirai su dallo
schienale della sedia la mia giacca, e la indossai, mentre mi
dirigevo verso la porta di ingresso. Nelle orecchie, il rumore cupo
della grandine sulla piana di Campo Imperatore.
Non
ero neanche sicuro se qualcuno si fosse preoccupato di fermarmi. O se
il gioco potesse continuare comunque, anche senza di me. Uscii dalla
porta dell’ufficio, chiuso al pubblico, dato l’orario notturno, e
iniziai a scendere le scale, al buio. Le scale di finto marmo di
Tivoli del prefabbricato. Una scatola di cemento poggiata nel Nucleo
Industriale di Pile. Senza fondamenta.
Nei
pressi della Curia Arcivescovile. E della sua scatola di cemento
prefabbricato, benedetta. Nel Nucleo Industriale di Pile. Forse senza
fondamenta, dall’altro lato della strada.
Avevo
l’auto parcheggiata sullo sterrato. Vicino ad uno pneumatico nato
in mezzo alle erbacce. Alzai la testa. La luce dell’ufficio era
ancora accesa. La mia presenza non era indispensabile.
E poi
guardai il cielo. Buio come uno schermo spento. E, subito, pensai che
Enzo, quel cielo, non l’avrebbe visto più.
Appoggiai
la mano al cofano della mia vecchia Peugeot. Mi bastò aprire la
bocca, e sentire il sapore acido e rancido della mia paura uscire
fuori, con un ruggito piangente, prolungato. Di bava che schizzava
sulle ruote e sulla carrozzeria nera. Non sentivo più il respiro.
Era tutto fermo nello sterno. Un’apnea da viscere spremute, e
sapore di sangue. Persino dal naso, mi usciva un muco fetido.
Tremavo. Le gambe, piegate, come da un calcio improvviso dietro il
ginocchio. Le lacrime, e ancora il ruggito; la paura che non trova
uscita. La puzza. E in bocca un sapore inconsolabile. La tosse.
Violenta. Sguaiata. Stavo attento a non mettere niente di me, con
l’ultima razionalità che m’era rimasta in testa, tra la mia
bocca e la terra. Mi sporgevo in avanti, tuffandomi senza cadere. Un
salto in lungo del bolo. Senza rincorsa. Stavo anche per pisciarmi
sotto. Non potevo controllare insieme tutti i muscoli.
Mi
asciugai le lacrime con le dita. E la bocca con un fazzoletto di
carta che conservavo nel cruscotto dell’auto.
Entrai
dentro, e poggiai la schiena, prima, e poi la testa. E poi ancora,
con immensa fatica, come se percorressi un ponte infinito, spostai in
avanti la testa e la poggiai sulle mani attaccate al volante. La
fronte era calda. E pulsava, la vena, sul lato degli occhi. Staccai
la mano destra, e misi in moto. Marcia indietro.
Alla
mia sinistra il torrente Raio era sprofondato dentro i sassi del
fondale e nell’erba che cresceva alta. Sui margini, correva il
metanodotto. Come una vena gonfia, ed estranea. A destra, subito, un
bar.
Su un
lampione, una bandiera italiana. Senza vento. Scolorita come un
campionato mondiale di calcio sconfitto.
E
scatole, e ancora scatole di cemento compresso, circondate da muri. E
cancelli. E insegne al neon. Sgocciolanti. E finestre allineate, come
loculi ancora vuoti. Scatole che inghiottivano la collina, spianata.
E l’erba. Ridotta a monconi, passiti. Spinosi di polvere nera di
tubo di scappamento.
Avevo
aperto il finestrino, dell’auto, per lasciar entrare l’aria
notturna. Che mi batteva sulla tempia, riscaldata dall’odore
dell’asfalto. Tracciai la rotonda, vicino al centro commerciale, e
salii sul ponticello che oltrepassa il torrente, e svoltai subito a
destra. Mi correva a fianco il guardrail e, a sinistra, le altre
scatole. Qualcuna sbreccata dal terremoto.
Al
termine delle scatole, restava in piedi, spezzata, il tetto crollato
a metà, una lunga crepa fino a terra, come un vetro infranto, una
vecchia casa di pietra. Una casa contadina, cui qualcuno aveva
costruito su un fianco, un’escrescenza di cemento e mattoni
rinfusi, ora protesi nel nulla della scossa del sei aprile. La
vegetazione, intorno cresce, ignorandola di disgusto.
Arrivai
alla galleria della Mausonia, e chiusi il finestrino.
Entrai
nel ventre della balena; cercavo l’uscita. Alla mia destra, il
cemento arcuato della parete sudava acqua, che si appozzava
sull’asfalto, in curva. Come una ferita perenne, infettata. Un pus
nero.
Uscii,
dalla galleria.
E,
subito, alla mia destra, ancora, il prato era stato divorato da una
distesa di pietrisco, nuda. Reticolata di recinti verdi, e
terrapieni, in basso, che la sostenevano dal dislivello, di quella
che, un tempo, era una piccola gola tra le colline. Verde, un tempo.
E grigiastra, ora. Come una febbre.
Sotto
la rotonda, a sinistra, la casa abbandonata, di pietra, forse una
antica stalla, già sventrata dal tempo, prima del sisma, le
trabeazioni in legno, essiccate come ossa al sole, era stata piallata
dalle ruspe, e recintata, per essere ricostruita, magari in cemento
armato di ferro.
Riaprii
il finestrino.
E
m’accorsi, che, in realtà, stavo guidando al buio, tenendomi
lontano dai fari di automobili che procedevano in senso inverso al
mio. Ma senza guardare nulla. Nella penombra riscaldata dai fari. Era
la mia mente, che ricostruiva il paesaggio intorno. Inserendoci
dentro le offese vigliacche. Come una malattia devastante. Come una
ferita irrimarginabile. Suppurata.
Alla
mia sinistra, in cima alla collina, due enormi ville in legno.
Disegnate da un bambino che immagini la propria casa come un fumetto
di paperi e topi. Una tumefazione con le antenne satellitari in cima.
Al
termine della discesa, la casa fatta di soli mattoni, poggiati l’uno
sull’altro, senza nulla che li tenesse insieme, eppure già col
tetto.
Una
scritta di vernice, dopo il terremoto, sbiadita, su un bandone di
metallo rugginoso, avvertiva che era pericolante. Ora.
E, a
sinistra, subito, nella campagna abbandonata, un’altra spianata di
pietra e letame. Avvolta in un perimetro di metallo palizzato.
C’erano camion, parcheggiati dentro, e rimorchi. E impalcature
ritorte.
Alla
mia destra, allo stesso modo, c’era una rivendita di automobili,
lasciate a seccare sotto il cielo, in attesa di un acquirente.
E,
ancora, passata la rotonda, verso Monticchio.
I
campi non più coltivati. Estirpati. Con il pietrisco calcinato
poggiato come il coperchio di un sarcofago sopra l’erba, e
riempito, a destra e a sinistra, di materiale edile in vendita,
sacchi di cemento, cubetti di pietra e porfido. Mattonelle.
L’aria
era iniettata dell’ odore degli alberi abbattuti.
Enzo,
era lontano, ora.
Era
rimasto lungo quel sentiero, sul monte dietro Pizzoli, arrampicato
verso la sorgente. Quando lo sentivo camminare dietro di me, col
fiato pesante, dentro il caldo del pomeriggio di maggio.
La
memoria mi separava da lui, mentre, in salita, guardavo verso le
nuvole altissime, in cielo, bianche. Che galleggiavano.
Ed ero
solo, ora.
Fermo
con l’auto nello slargo rotondo di Monticchio. Poco prima del
corridoio di tubi metallici, che separava la casa, da una parte,
dalla chiesa dall’altra, restringendo ancor più la stradina che
portava verso Fossa.
Il
rumore del motore era leggero. Come un respiro prima del sonno. Le
luci gialle dei lampioni sembravano ronzare.
Inserii
di nuovo la marcia, e mi diressi verso la strettoia che portava al
Parco delle Arti, e ai cassonetti di immondizia, tracimanti, dove
fermai l’auto. E scesi.
Sul
muro di una casa, lì, sull’angolo, decine e decine di rose si
arrampicavano.
E
iniziai a staccare alcuni fiori. Con le mani nude. Spezzando a
strattoni il verde filamentoso dei rametti. Le dita graffiate, di
solchi sanguinanti. Le spine si difendevano.
Ne
rubai una dozzina, più o meno. Mi sentivo le mani spezzate.
Sentivo
i cani abbaiare. Forse vicino, forse lontano.
Poggiai
tutto sul sedile posteriore dell’auto e ripartii, sudato. E sporco.
Milena,
era una delle poche persone tornate a vivere in centro. Abitava in
una casa, bassa. Ad un solo piano. Il portoncino di legno marrone
s’apriva su un piccolo scalino di cotto brunito dal sole e dai
passi, un attimo prima dei ciottoli di pietra della strada.
Le
lasciai lì, le rose.
Fino
al mattino.
Forse,
un giorno, avrei trovato il coraggio di dirle che ero stato io.
Quella
notte, quell’alba che ancora non arrivava.
Per
difendermi dalla morte nell’unico modo che sapevo trovare.